martedì 28 marzo 2017

Concime



Presi contatto con i libri di Jean Ziegler, allora giovane sociologo svizzero esperto di problemi africani, negli anni Settanta. Ziegler è uno studioso che non indulge ad alcuna moda culturale. Lessi dapprima Une Suisse au-dessus de tout soupçon, poi tradotto anche da Mondadori e diventato un best seller mondiale. Ricordo che nel 1976 (o l’anno seguente?), verso la mezzanotte del giorno di ferragosto, la Rai trasmise, sul secondo canale, un documentario sulle multinazionali basato essenzialmente sul libro di Ziegler. In seguito, nel 1975, apparve anche Les vivants et la mort, la cui lettura non poteva sfuggirmi avendo mostrato, da sempre, un’insana passione per i cimiteri.



Donde deriva questa mia fascinazione per strani luoghi quali sono i cimiteri? Fascinazione che risale fin dalla prima infanzia? Chissà che cosa imbastirebbero i freudiani su tale stravagante morbosità, senz’altro nell’ambito di eros e thanatos. Quali pulsioni, forse perversioni o inconsce motivazioni di trascendenza.

Non solo le necropoli monumentali, come se ne vedono soprattutto nelle grandi città (da non perdere quella di Istanbul e di Genova), mi affascinano, ma anche i cimiteri di guerra. E ciò è tanto più sospetto. Chissà, forse risalendo l’albero genealogico si scoprirebbe che avevo un avo guerriero o un bisavolo becchino.

Non m’interessano i cimiteri di guerra sullo stile americano, quelli con il prato sempre ben rasato dove spiccano allineate perfettamente delle croci bianche di pietra, bensì cimiteri cintati di filo spinato, con l’erba alta da dove spuntano croci grigie di legno, alcune divelte e altre sbilenche. A latere dei campi di battaglia. Se ne vedono ancora in Russia di cimiteri così, e se ne contavano molti anche qui da noi.

Infatti, nei luoghi che costeggiano il corso del Piave e del Sile di cimiteri simili ve n’erano numerosissimi. Durante la battaglia del solstizio, nel 1918, in quei luoghi furono in decine di migliaia a essere falcidiati dal ticchettio delle Schwarzlose e dalle schegge di obici furiosi, perciò l’esistenza di quei cimiteri. In molti casi non vi fu tempo e modo di seppellire tutti quei cadaveri in pezzi, e per molti anni, dopo il conflitto, i contadini, arando i campi, s’imbattevano ancora nelle ossa di quegli sventurati. Di ciò trovai testimonianza scritta anche in un bel libro di Camillo Pavan dedicato al fiume Sile.

Nelle targhette poste sulle croci dov’erano indicati i nomi di quei fortunati che trovarono sepoltura (pensa che colpo di culo), in non pochi casi si leggeva: “Ignoto”. A volte era indicato solo il grado, senza il nome. Oppure un cognome spezzato da dei puntini di sospensione. Di tutti non sapremo mai nulla e delle loro brevi vite. I molti “ignoti” di quel conflitto dipendevano anche dal fatto che le piastrine di riconoscimento non erano di metallo ma di carta! Austerità anche allora per gli ultimi della terra.

Veniamo all’origine della mia fissa. Ero ospite per alcuni giorni nella vecchia casa dei miei zii, in terraferma. Ogni cosa della campagna era per me nuova e meravigliosa, anche se qualche volta con aspetti inquietanti. Come nel caso delle oche, animali che trovavo essere giganteschi e poco socievoli. Fu in quell’occasione che presi contatto per la prima volta con degli esseri mitologici: le mucche. Bevvi del latte vero, e assaggiai un alimento sconosciuto: lo yogurt. Visto il mio disgusto, zia lo addolcì con dello zucchero.

C’era, a qualche decina di metri dal vecchio caseggiato degli zii, un campo con l’erba alta da dove spuntavano, come detto, delle croci di legno consunto. Era un cimitero di guerra cintato con filo spinato così arrugginito che cadeva in pezzi. Qualche centinaio di metri più in là, vicino ad un boschetto, c'era un altro cimitero, ma più piccolo. Solo una tomba era un po’ diversa dalle altre, non ricordo il motivo. Forse quella di un ufficiale. Nemmeno all’inferno, com’è noto, c’è parità di trattamento.

Una di quelle sere, era estate, mia zia condusse me e la mia cuginetta a ridosso della recinzione per vedere, disse, le “fiammelle”, ossia per scorgere “aleggiare gli spiriti dei soldati defunti”. In quell’occasione non vedemmo nulla di simile, e tuttavia la cosa mi turbò e intrigò a lungo. In seguito compresi che mia zia, molti anni prima, aveva ben visto quelle “fiammelle” delle quali giurava l’esistenza, si trattava però non di “spiriti” bensì dei cosiddetti fuochi fatui dovuti a un fenomeno di decomposizione organica (*).

Qualche anno dopo, nel 1960, quei due cimiteri furono rimossi. Quanto meno furono rimosse le croci e il filo spinato. Nell’area del cimitero più piccolo fu realizzato un parco, mentre il terreno dell’ex cimitero nei pressi della casa degli zii fu lottizzato e poi costruite delle villette. I nuovi venuti realizzarono dei giardini e degli orti. Nelle mie visite successive ricordo di aver visto nel giardino dei vicini, tra gli altri fiori, delle rigogliose e coloratissime dalie, incandescenti sul tipo che dipinse Monet. E quanto alle verdure dell’orto, i nuovi proprietari gridavano quasi al miracolo. Fertilità dovuta alle acque alluvionali, dicevano. Gli zii assentivano con imbarazzo poiché conoscevano tutt’altra storia.

(*) Questi vapori luminosi derivano dal gas fosfuro di idrogeno (fosfina) che esce dal corpo degli animali, e specialmente dei pesci allo stato di decomposizione, il quale s'infiamma all'aria. Il calore del sole basta per convertire tale gas in fosforo d'idrogeno solido, che spontaneamente non s'infiamma. Se un lettore ha una risposta che ritiene migliore, prego cortesemente farmela conoscere.
Un cenno ai fuochi fatui si può rintracciare nel Sistema Periodico (capitolo "Fosforo") di Primo Levi.

4 commenti:

  1. leggo sempre i suo post ... ma che bello quello di oggi!
    un abbraccio Vito

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  2. Siano rispettati i diritti dei Mani !

    Dopodiché cara Olympe : " E' proprio un'altra Storia".
    E la Livella non dovrebbe consolare nessuno.
    Io, no !

    caino

    E pure Pindemonte può andare a "quel paese !

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