lunedì 30 gennaio 2017

Sempre meno di quelli presenti oggi



Da qualche anno, sulla terza pagina del Domenicale del Sole 24ore, compare una rubrichetta, un corsivo dal titolo eloquente: Il graffio. Ormai, e non di rado, è una delle poche cose che vale la pena di leggere. Questa settimana dà conto di che cosa è capitato al romanzo di Amanda Vaill, Hotel Florida. Amanda Vaill, non una di primo pelo, ha frequentato Harvard, è scrittrice ed editrice statunitense, nonché impegnata a fare anche tante altre cose di “successo”. Vengo al dunque. Nel suo romanzo, tradotto per Einaudi, si legge, a proposito di Evelyn Waugh, che si tratta di “una romanziera cattolica e conservatrice”. Una battuta degna del miglior Woody Allen.  Evidentemente ciò chiama in causa tutta la catena editoriale dell’Einaudi, dal traduttore al fattorino. È uno dei tanti segni non benigni del nostro tempo.

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venerdì 27 gennaio 2017

Memorie



Oggi si celebra la giornata della memoria, ed è giusto e doveroso ricordare anzitutto la persecuzione subita dagli europei di religione ebraica da parte dei nazi-fascisti. La morte di milioni di esseri umani trucidati. Sarebbe anche opportuno ricordare altri internati nei lager nazisti che di solito in queste commemorazioni sono totalmente dimenticati. Vale a dire i compagni d’armi dei liberatori dei lager di Auschwitz – Birkenau (non furono le truppe americane, come invece sostiene Roberto Benigni in un suo filmetto, falsando spudoratamente la storia). Vale a dire i soldati russi fatti prigionieri dai tedeschi e deportati in Polonia e Germania. Furono 5.700.000. Non pochi. Ne morirono 3.300.000, quasi tutti per denutrizione, freddo e maltrattamenti. Nel solo 1941 i prigionieri russi furono 3.500.000, dei quali circa 2.000.000 morirono entro l’aprile del 1942 d’inedia e di freddo, non avendo per riparo che delle buche da loro stessi scavate nella nuda terra, e per cibo le cortecce degli alberi e una brodaglia di rape. E credo meritino di essere ricordati anche quei 900.000 leningradesi che morirono, moltissimi di fame e di freddo, durante l’assedio tedesco della loro città, mai arresasi dal 1941 al gennaio 1944.



giovedì 26 gennaio 2017

Ancora una volta, dove ci sta portando il capitalismo?


In un baratro, e nessuno può dire quanto sia profondo. Vi sono alcune evidenze: l’attuale sistema economico-finanziario internazionale è come un ordigno a tempo, e ciò si accompagna all’estrema incertezza del quadro geopolitico; gli arsenali nucleari a disposizione delle varie potenze possono distruggere, se impiegati, più e più  volte questo pianeta. Nessuno, a priori, può escludere questa eventualità. E anche laddove non fosse fatto uso delle armi nucleari, così come nel caso non fosse fatto ricorso a un conflitto armato generalizzato, per quanto riguarda le sorti di quella che chiamiamo civiltà siamo a un punto di svolta, che si può cogliere sotto ogni aspetto delle straripanti contraddizioni sociali e nella grave compromissione cui sono sottoposti gli equilibri naturali.

Per scongiurare queste catastrofi delle quali vediamo sempre più chiara l’incombente minaccia, l’umanità ha una sola strada: cambiare. Due sono gli aspetti fondamentali in cima al processo di cambiamento: la fine di un sistema economico-finanziario che ha come esclusivo obiettivo l’accumulazione di profitti senza alcuna cura per il resto; l’estinzione degli stati nazionali quali li conosciamo oggi. Utopie? No, al contrario. Chi le chiama utopie sono gli illusionisti di un riformismo sfinito che si sta spegnendo, mentre invece s’intravedono nuove possibilità di liberazione dalle condizioni attuali.

mercoledì 25 gennaio 2017

Breve storia di un furbacchione



L’altro giorno stavo vedendo un documentario, “Parigi – gli anni folli”, dove si raccontano gli anni ruggenti del primo dopoguerra (1919-1929) nella capitale francese. A vedere le immagini delle feste nei locali parigini, la festicciola rappresentata da Sorrentino nel suo film, sembra un raduno di zampognari (con tutto il rispetto per la categoria).

Nel recente conflitto la Francia aveva perduto 1,7 milioni di uomini, 4 milioni i feriti e gli invalidi. In quegli anni emigrarono in Francia circa tre milioni di italiani, polacchi, russi, eccetera (circa un quinto dei francesi ha una qualche ascendenza italiana). Si trattava però di persone che non avevano i mezzi per dedicarsi alle “follie”, alla joie de vivre. Furono soprattutto gli americani, gli statunitensi, a dedicarsi al plaisir de la vie, approdati a centinaia di migliaia anche per via del “proibizionismo” ma soprattutto forti del favorevolissimo cambio dollaro/franco (*). Non per nulla furoreggiava il jazz a Parigi, e altri ritmi alieni.

martedì 24 gennaio 2017

Si stanno impegnando


La Brexit, la vittoria di Trump, la sconfitta dei partiti di governo, rappresentano la rivolta contro quel Leviatano onnipossente che chiamiamo globalizzazione. In superficie, tali fenomeni evidenziano il robusto calo di autorevolezza politica e culturale che da lungo tempo caratterizza il declino occidentale. Più in profondità, si palesa l’illusorietà di politiche riformistiche che possano mutare di segno il capitalismo, il quale opera senza altro vincolo che il nudo interesse, concentrando l’immane ricchezza prodotta dal lavoro di miliardi di esseri umani in poche mani.

Di fronte al fallimento del liberismo dottrinario, la borghesia ha buon gioco nell’alimentare i movimenti di tipo nazionalistico e xenofobo, ossia di paventare il ritorno a modelli di gestione dell’economia e della finanza di altre epoche. Nella fase attuale tutto ciò è risibile e anzi pericolosissimo. La globalizzazione rappresenta un processo che potrà essere contrastato, rallentato, ma che infine s’imporrà inevitabilmente. Salvo che, per risolvere le contraddizioni del sistema, non si percorra la vecchia strada del conflitto armato generalizzato, partendo da una casuale controversia locale.


Questa opzione richiede però, anche se non necessariamente, un cambio del quadro politico e anche, in parte, delle alleanze. È cosa sulla quale molti paesi si stanno generosamente impegnando.

lunedì 23 gennaio 2017

Non possiamo diventare tutti dei Renoir



Coloro che parlano degli sviluppi della tecnologia solo in termini positivi, entusiastici, denotano una concezione deterministica, unilaterale, delle cose. Per contro, chi campa alla giornata, vede il proprio lavoro sostituito da una macchina, e dunque trovandosi disoccupato o costretto ad un’occupazione precaria, la tecnologia gli si presenta come un dono divino spacchettato senza tante cautele. Inoltre, non va trascurato che scopo precipuo del modo di produzione capitalistico è quello di ridurre il tempo di lavoro necessario e dunque il valore stesso per unità di prodotto.   

Prendiamo il caso della produzione ceramica in Inghilterra, che nel corso del ‘700 ebbe una prima svolta rivoluzionaria. Questa manifattura fu povera nei sistemi e nei profitti, produceva deliziose figurine spesso in stile Sèvres; i vasai erano analfabeti, rozzi, le loro abitazioni erano capanne, il mercato subiva le restrizioni dell’intransitabilità delle strade. Sennonché nel 1775 in Cornovaglia fu scoperto un ricco giacimento di caolino (silicato d’alluminio), simile a quello usato dai cinesi. Però si trovava a ben 350 kilometri dai centri di lavorazione della ceramica.

sabato 21 gennaio 2017

Non ci sarà da annoiarsi



La marina imperiale cinese, tra il 1405 e il 1433, sotto il comando dell'ammiraglio Zheng He, navigò i mari dell'Asia e dell'Africa orientale. La dinastia Ming è stato in grado di organizzare spedizioni fino a 300 imbarcazioni (lunghe circa 120 metri in un momento in cui la Santa Maria di Colombo era di soli 26 metri) e decine di migliaia di marinai. Col senno di poi, si potrebbe dire che sbagliarono direzione. Se invece che a ponente avessero fatto rotta per il levante forse sarebbero giunti nell’odierna America. Che cosa se ne sarebbero fatti i cinesi dell’epoca di una simile scoperta è cosa che non sto qui a discutere. L’espansione europea dei secoli XV e XVI poggiava su ben altri presupposti. Come del resto è dimostrato.

La morte dell'imperatore Yongle (1424), poco prima dell’inizio dell’espansione europea verso l’Africa, portò i suoi successori a decidere di porre fine a queste spedizioni (si era raggiunto il Madagascar). Iniziò un lungo periodo d’isolamento che avrebbe tagliato fuori  la Cina dall’accesso ai mercati in un momento cruciale nel suo sviluppo, lasciando il paese in una situazione di debolezza che avrebbe poi consentito alle potenze europee di imporle di aprirsi ai loro mercati, con le conseguenze che ben conosciamo.

giovedì 19 gennaio 2017

Un motivo in più



La neve. Questo fenomeno straordinario. Si potrebbe dire che è stata la natura a farsi sorprendere. Questo evento non era stato previsto fino al mese addietro. Una copiosa nevicata pari solo a quella, memorabile, del lontano 4 febbraio 2012. Tutta colpa della geografia, del fatto che la penisola è messa molto più di traverso di quanto si creda: Pescara più ad est di Trieste. E perfino della perfida Berlino! Un motivo in più per chiedere l’uscita dall’Europa. Quando arriva la buriana dal nord-est, un vento meschino carico di neve, va dritta-dritta a sbattere proprio dove meno te l’aspetteresti, sulla dorsale appenninica. Fortuna che non ha nevicato a Roma, altrimenti avrebbe chiuso il Parlamento fino a pasqua. Facile sarcasmo? Senz’altro, ma l’alternativa  è l’assalto alle armerie. Non altro.

mercoledì 18 gennaio 2017

Una riflessione scientifica


Una delle fiabe preferite dagli analisti della borghesia è di spacciare la crisi come un fenomeno passeggero e non come un elemento strutturale che ha le sue basi nel modo di produzione stesso.

Le crisi di ciclo hanno punteggiato tutta la storia del capitalismo: nell’Ottocento, poi all’inizio del secolo scorso, crisi strisciante negli anni Venti, clamorosa nel decennio successivo. Il capitalismo, messo alle strette, ha imboccato la strada della guerra. Nel dopoguerra, con la ricostruzione e l’immissione nel mercato di nuove merci (automobili, elettrodomestici, ecc.), per una ventina d’anni c’è stata una forte ripresa del ciclo dell’accumulazione. In seguito il sistema è entrato in una crisi che, salvo brevi momenti, non ci ha più lasciato.

martedì 17 gennaio 2017

Le solite sul costo del lavoro



Quanto va scrivendo Mario Seminerio nel suo blog merita attenzione poiché si tratta di un esempio di successo di diffusione di bufale, infarcite di battutine da liceale del buon tempo antico. La colpa dei nostri guai, come sempre, sarebbe del “costo del lavoro”. Perciò, sostiene, proliferano i vàucer e il lavoro nero. Il mercato si adegua. Se le entrate fiscali latitano, il legislatore se ne inventa delle altre. E su quest’ultimo punto non si può che essere d’accordo.

È dagli anni Sessanta che leggo e sento lo stesso refrain: il lavoro costa troppo. Questo tira e molla sui salari tra padronato e lavoratori fu motivo di uno scontro sociale molto aspro e che vide coinvolti i sindacati, quando questi ancora esistevano. Non parliamo poi delle geremiadi che si levarono dopo l’introduzione della scala mobile, fino a quando non fu cassata da un referendum che prometteva nuovo vigore economico e l’uscita dalla crisi (la crisi c’era anche allora, c’è sempre stata). E anche dopo il referendum, le doglianze sull’elevato costo del lavoro non cessarono.

Una rivoluzione che non interessa più solo la classe operaia

Con la fine delle dittature burocratiche dell’Est Europa si è chiusa un’epoca. Prima ancora s’era chiusa l’epoca dell’egemonia della classe operaia, che si era costruita e poi consolidata nelle lotte tra il 1848 e il 1871, e poi tra il 1905 e il 1917. Questa egemonia ebbe un sussulto tra gli anni Sessanta e Settanta, quando si sperimentò un’alleanza tra lavoratori e studenti, e una collaborazione stretta tra intellettuali e avanguardie di lotta. Sembrò allora che si dovesse andare ben oltre ad un mero riconoscimento normativo del ruolo del lavoro all’interno della fabbrica (si pensò di staccare il lavoro dal capitale), a un mutamento radicale nella società, nella scuola e nell’università, così come nella cultura e nella politica.

lunedì 16 gennaio 2017

Riprendere in mano la nostra storia



Invito a leggere questa intervista ad Alain Badiou segnalatami da una persona che stimo. Personalmente i filosofi francesi mi hanno sempre provocato l’orticaria (non sono però migliori quelli nostrani), ma in questo caso credo di essere sostanzialmente d’accordo con le riflessioni di Badiou, soprattutto con l’affermazione: “il marxismo è il solo pensiero generale che possa illuminare il mondo contemporaneo ed essere alla base di una nuova politica. Tutti i concetti importanti di Marx sono molto più veri oggi che ai suoi tempi”.

domenica 15 gennaio 2017

La caverna di Escher



Chi sono oggi i padroni della caverna? Nell’ancien régime ­ – scriveva Diderot – erano i re e i loro ministri, preti e dottori, apostoli e profeti, teologi e politici, furfanti e ciarlatani, insomma il bel mondo, i padroni della caverna platonica, la colossale fabbrica d’illusioni che alimentava speranze e timori. Così ci racconta Massimo Bucciantini sulla prima del Domenicale recensendo un paio di saggi di Gerardo Tocchini, conoscitore dell’epoca di Diderot e Rousseau (missionari illuminati).

A capo del grande spettacolo c’erano, mutatis mutandis, le stesse figure e figurine colorate di oggi, ognuna adatta al suo ruolo. Con la differenza che oggi qualsiasi spettacolo, malgrado tutto, riesce esteticamente fruibile. Vero che l’attenzione alla bellezza si è elevata e tuttavia il gusto è soggetto al mercato, che sa offrire temperatura e forza alle passioni individuali e collettive. Ne ho avuta ennesima conferma la scorsa settimana: Brera praticamente deserta e al Poldi Pezzoli solo fantasmi, mentre davanti a Palazzo Reale c’erano lunghe teorie di esteti che attendevano, per ore e al gelo, di entrare per vedere Escher!



Il giocatore


Eugenio Scalfari è figlio di un croupier che lavorava ai tavoli del casinò di Sanremo, e lui stesso, il futuro bancario, giornalista, scrittore, filosofo, intellettuale vanesio, pare sia stato, anche se per poco, prima di tutto, ossia ben prima che l’ombelico di Raffaella Carrà scandalizzasse l’Italia, un croupier. Un mestiere come un altro. Questo solo per dire che Scalfari di roulette se ne intende come pochi, e va preso con attenzione e considerazione il giudizio che oggi esprime su Matteo Renzi: “assoluto è il mio giudizio sulla sua figura di statista. A me sembra piuttosto essere un perfetto giocatore di roulette”.


Come sembrano lontani quei tempi nei quali Scalfari scriveva amorosi versi: “Matteo Renzi ha un innato senso della politica, cioè una visione del bene comune” (domenica 1 giugno 2014).

E soggiungeva: per fortuna ha vinto Renzi, in tal modo sventando “il pericolo per la democrazia italiana e per l’Europa” rappresentato da Grillo. Da leggere tutto quell’editoriale, così come altri dello stesso tenore. A mia volta chiosavo: “Va notato che Renzi Matteo da una settimana non riesce più a scoreggiare come prima delle elezioni, in troppi gli tengono la lingua sul buco del culo”.

venerdì 13 gennaio 2017

Un paese azzardato



Questa mattina ascoltavo radiotre, la trasmissione “prima pagina-filo diretto”, dove il conduttore, il giornalista di turno, diffondeva questa notizia: in Italia, la spesa per lotterie, video-slot e grattatine varie (una sessantina di tipologie), quasi eguaglia la spesa complessiva sostenuta da 60 milioni di persone per la propria alimentazione. Uno spaccato eloquente della fase economica che stiamo attraversando, ma nel grumo non c'è solo la disperazione di un paese sinistrato.

Sono numeri veri? Oppure, senza essere una bufala, sono numeri un poco esagerati? L'accostamento tra spesa per alimentazione e quella per il "gioco" è senz'altro esagerato. La spesa per l’alimentazione è di circa 28,3 miliardi (Istat, 2013) non mi è nota ma è di molto superiore a quella stimata per il “gioco”, che secondo il citato giornalista si aggirerebbe sui 17 miliardi. Non quisquilie.

Chiaro che i giocatori incalliti, i cosiddetti ludopatici, sono prevalentemente povera gente, in tutti i sensi. Possiamo addebitare alla credulità e alla stupidità un simile comportamento, alla vana speranza che il caso disperda i dardi dell’iniqua fortuna e realizzi i loro sogni. Insomma, un arsenale di soggettività che sarebbe lungo e arduo censire. Non avere come orizzonte di vita le lusinghe della ricchezza è dura, soprattutto tra i più giovani.

Tuttavia non va trascurato che a capo di questa estorsione (di ciò si tratta, non di altro) c’è lo Stato. Entità quasi astratta quando si tratta dei diritti delle persone, si concretizza nei reiterati governi del malaffare, composti da turlupinatori abituali. Dove stia poi il confine tra lecito e azzardo è questione che non mi appassiona. Come del resto per tutte le questioni terminologiche che eludono la sostanza.



giovedì 12 gennaio 2017

Vanno a votare



Piergiorgio Oddifreddi sostiene che “il novanta per cento delle persone è stupido”. Dettaglia il matematico: “In un paese di 60 milioni di abitanti come l’Italia, saranno all’incirca 54 milioni”. Non è solo provocazione, ne è convinto, tanto che ha scritto un Dizionario della stupidità. L’ho sfogliato in libreria, ma non saranno mancati gli acquirenti. Stupidi quelli? Forse. Magari non il 90 per cento, ma come percentuale siamo vicini.

Ieri ho letto un articolo che sostanzialmente conferma la tesi di Oddifreddi, anche se non parla esplicitamente di stupidità, bensì di una sua parente di primo grado. Il titolo dell’articolo: “Il 70 per cento degli italiani è analfabeta (legge, guarda, ascolta, ma non capisce)”. Racconta:

«Non è affatto un titolo sparato, per impressionare; anzi, è un titolo riduttivo rispetto alla realtà, che avvicina la cifra autentica all'80 per cento. E questo vuol dire che tra la gente che abbiamo attorno a noi, al caffè, negli uffici, nella metropolitana, nel bar, nel negozio sotto casa, più di 3 di loro su 4 sono analfabeti: sembrano “normali” anch'essi, discutono con noi, fanno il loro lavoro, parlano di politica e di sport, sbrigano le loro faccende senza apparenti difficoltà, non li distinguiamo con alcuna evidenza da quell'unico di loro che non è analfabeta, e però sono “diversi”.»

Confermo. Il guaio non deriva tanto da fatto che “parlano di politica”, ma che vanno a votare.

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Stamani. Guardo il mio interlocutore negli occhi e intuisco che non sta capendo una mazza di quello che gli sto dicendo. Allora semplifico, vado con gli esempi terra-terra e poi, complice il fatto che nessuno mi vede, conto con le dita. Lui fissa le mie dita ma si capisce che gli si è estinto anche l’ultimo barlume di pensiero. Quando si riprende dal suo torpore è solo per insistere nella sua posizione, come se non avesse ascoltato. E trovo così immediata conferma dell’inutilità dei miei sforzi. Non gli stavo parlando del rasoio di Occam, ma spiegando con cortesia e pazienza che le sue congetture sulla lettura della bolletta dell’acqua vanno a fondo e annegano non appena le confronti con i numeri riportati nella bolletta stessa. E prendersela con l’operatore del call center, gli dico, è sbagliato, e bene ha fatto a riattaccare. Quest’ultima frase l’ha capita benissimo e si è adontato. Fanculo.

mercoledì 11 gennaio 2017

Il lungo e doloroso viaggio verso il disordine mondiale



Una delle lezioni tratte dalle classi dirigenti statunitensi a seguito dei disastri prodotti dalla crisi degli anni 1930, quando la divisione dell'economia mondiale in blocchi valutari e commerciali ha portato alla seconda guerra mondiale, è stata la necessità di basare l'ordine postbellico sul libero scambio e contro il protezionismo.

Gli Usa uscivano relativamente indenni dalla carneficina del secondo conflitto mondiale, mentre l’Europa e gran parte dell’Asia ne erano distrutte. La guerra aveva anzi amplificato la posizione già dominante dell'industria degli Stati Uniti e della sua finanza, favorito la ripresa della produzione e il riassorbimento della disoccupazione. Il capitalismo americano aveva modo di sponsorizzare la creazione di una serie d’istituzioni e programmi basati su un sistema monetario imperniato sul dollaro, come il General Agreement on Tariffs and Trade (1947), e l’European Recovery Program (1948), che oltre a consentire la ricostruzione dell’Europa avevano per scopo non secondario di aprire il mercato mondiale per le esportazioni e gli investimenti americani. La Nato è del 1949, ben prima del Patto di Varsavia (1955).

Anche se quella degli Usa rimane la prima forza economica (e militare) mondiale, l'egemonia degli Stati Uniti è cosa che appartiene passato. Il capitalismo americano si ritrova minacciato da un lato dalla crisi e dall’altro dalla crescita, in particolare, della Cina. Questo – come ho avuto modo di scrivere più volte – è fondamentalmente ciò che sta alla base della rottura dell'ordine economico del dopoguerra, ed è ciò che ora spinge almeno una parte della classe dirigente americana verso un marcato nazionalismo economico.

martedì 10 gennaio 2017

Superati gli stadi preliminari, siamo al dunque



La cosa che più incisivamente fa sentire al borghese, uomo pratico, il movimento contraddittorio della società capitalistica sono le alterne vicende del ciclo periodico percorso dall'industria moderna, e il punto culminante di quelle vicende: la crisi generale. Essa è di nuovo in marcia, benché ancora sia agli stadi preliminari … (Karl Marx, Il Capitale, critica dell’economia politica, Libro I, Poscritto alla seconda edizione).

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C’è tanta gente convinta che il porre in luce le contraddizioni del capitalismo significhi colpevolizzare il modo di produzione capitalistico, oppure, peggio ancora, colpevolizzarne i suoi agenti. Il concetto di sfruttamento a danno dell’operaio non vive nella coscienza dei padroni, questo è notorio. Sul piano generale l’estorsione di valore nella sua determinazione materiale non è altro che l’espressione economica peculiare di un modo di produzione dove domina la legge del valore. Si può dunque “colpevolizzare” il singolo e il sistema? Si tratta di un processo storico di cui la critica marxista ricerca la logica nei suoi nessi interni prefigurando scopi diversi della semplice "condanna".

E a proposito di colpevolizzazioni, si tende a colpevolizzare ora questo aspetto ora quell’altro, l’euro e la Germania, le politiche di austerità, il blairismo incarnato da quel pirla di Matteo Renzi (ora dovrebbe essere chiaro a tutti che si tratta di personaggio assai modesto sotto ogni punto di vista). La storia che stiamo vivendo ci parla d’altro: della crisi generale di monsieur le capital, della massima divaricazione della sua contraddizione fondamentale. Paradossalmente ciò sta avvenendo nel momento del suo trionfo, del dominio totalitario dello “spirito del capitalismo” su ogni aspetto del sociale. Al punto che ci stiamo interrogando di quale materiale umano ha bisogno questo sistema. Mentre pare non interessi la domanda sul tipo di società e sulla necessità di costruirne una nuova.


lunedì 9 gennaio 2017

È già domani

Colpa (retroattiva ) del No al referendum

Venerdì scorso, i lavoratori italiani erano quasi tutti in festa per l’Epifania. Questi sfaticati. Non così negli Stati Uniti, laddove si sgobba, secondo i rigidi canoni calvinisti (salvo il 4 di luglio, poi a novembre per fare la festa a decine di milioni di tacchini). A tale riguardo apro una piccola parentesi storico-bibliografica. La Religionis christianæ institutio, più comunemente nota come Institutiones, opera del Calvino, fu edita per la prima volta nel 1534, rielaborata nel 1559, ebbe un’enorme diffusione nel mondo protestante, non meno della bibbia nella versione ginevrina, tanto che nel 1617 nella sola Inghilterra ne erano state fatte più di 100 edizioni! Quest’opera codificava i vari aspetti della teoria politica dal punto di vista del riformatore religioso ginevrino. È dunque un’opera molto importante per comprendere il modo in cui influenzò profondamente i primi coloni della Nuova Inghilterra.

Bando alle digressioni, veniamo ai numeri. L’US Bureau of Labor Statistics ha registrato una crescita di posti di lavoro più lenta del previsto nel mese di dicembre. Si sono aggiunti 156.000 posti di lavoro il mese scorso, la stragrande maggioranza nel settore dei servizi con bassi salari. Thomas Perez, segretario del Lavoro di Obama, ha salutato questo dato con la stessa enfasi con la quale qui da noi si celebrano gli scostamenti decimali in qualsiasi settore economico. Perez ha detto che ciò mostra la forza dell'economia americana. In realtà non vi è stato alcun recupero per milioni di americani che, vivendo da stipendio a stipendio e indebitati fino al collo, devono affrontare la costante minaccia della perdita del lavoro. Come del resto accade in Italia.

domenica 8 gennaio 2017

Senza che un figlio di puttana pendesse dal lampione



In nome di Marx sono state costruite società dove la libertà non era di casa. Marx non c'entrava nulla. Per me (noi) è cosa ovvia, ma per moltissimi altri non è così. Questi ultimi, la maggioranza, seguendo una mistificazione ben consolidata e diffusa a piene mani dai produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del nostro tempo, pensano che Marx abbia idealizzato e prescritto una ricetta del “comunismo”, magari ne Il Capitale, opera che però ha per sottotitolo: Critica dell’economia politica. Dove di comunismo non si parla e il termine non vi compare mai. Una sola vota compare “società comunista”, ma senza alcun’altra specificazione.

Tuttavia una riflessione su questo è necessaria, partendo da una domanda minima: su quali basi economico-sociali sono state costruite quelle società che si sono poi chiamate “comuniste” o del “socialismo reale”? Intendo la Russia zarista, la Cina dei signori della guerra, il regime cubano di Batista e le società postcoloniali africane e asiatiche, poggiavano su adeguate condizioni di sviluppo per un passaggio a una qualche forma di socialismo avanzato? La risposta è molto semplice: nessuna di queste società aveva una struttura economica, produttiva e di mercato, tale che si potesse immaginare di realizzarvi, attraverso una rivoluzione sociale, qualcosa che non fosse diverso da un’altra distribuzione della povertà e del lavoro.

mercoledì 4 gennaio 2017

Stati Uniti: il paese più violento del pianeta


Almeno 1.152 persone sono state uccise nel 2016 dalla polizia negli Stati Uniti d’America, secondo il sito di monitoraggio killedbypolice.net. Il dato è leggermente più basso rispetto al 2015, quando se ne contarono 1.208.

Invece secondo il sito del quotidiano The Guardian, il dato del 2015 è inferiore da quanto riportato da killedbypolice.net: 1.077 persone uccise dalla polizia, delle quali 207 erano disarmate e 18 erano minorenni. Sempre secondo questo sito, nel 2016 le uccisioni della polizia negli Usa sono state 1.085. Il sito pubblica anche le foto e i nomi degli uccisi, suddivisi per anno e mese. Se ne potrebbe fare un bel calendario da appendere nelle redazioni dei telegiornali italiani.

I “neri” sono di gran lunga in testa alla classifica, seguiti dagli ispanici. Le uccisioni per mano della polizia americana sono mediamente circa 100 volte superiori a quelle della polizia tedesca, mentre nel Regno Unito, nel 2014, erano state uccise 14 persone dalla polizia.

La polizia Usa spara e uccide con un rapporto di 3,42 persone per milione di abitanti per anno. Al contrario, la Danimarca ha un rapporto di 0,187; la Francia 0,17; la Svezia 0,133; il Portogallo 0,125; la Germania lo 0,09; la Norvegia e i Paesi Bassi dello 0,06; la Finlandia 0,034; Inghilterra e Galles dello 0,016.


Domanda: la libera televisione italiana informa di questo stato di cose negli Usa? Giovanna Botteri, inviata del Tg3 negli Usa fa mai menzione nei suoi servizi a questo genere di dati, oppure alla faccenda dei food stamps con i quali sopravvivono quasi 50 milioni di statunitensi?

martedì 3 gennaio 2017

Deliberata falsificazione



La notizia dello pseudo attacco hacker alla rete elettrica dello Stato del Vermont ad opera dei “russi” è stata data con grande evidenza dalla stampa borghese. L’accusa era partita dalle pagine del Washington Post. Lo stesso foglio ieri ha pubblicato una smentita. L’avete letta sui fogliacci italiani?

Spesso il lavoro nei giornali è una mera faccenda di copia incolla del “foraggio” che passano le agenzie, di redazionali pubblicitari o lobbistici camuffati da articoli specialistici, di comunicati stampa governativi fatti di annunci volutamente contraddittori e di contraddittorie smentite, di prove tecniche di confusione per sondare le reazioni. È un comportamento conforme al mercato e necessario per garantirsi i contributi governativi per l’editoria.

Ma non sempre si tratta solo di insipienza, servilismo, marchette. Su talune questioni “scottanti”, “strategiche”, entrano in gioco gli specialisti della disinformazione, dell’intossicazione sistematica dell’opinione pubblica. Sanno che le successive smentite non avranno nemmeno lontanamente la presa che hanno avuto le menzogne. Il parlamento degli Stati Uniti, ossia Senato e Congresso, hanno appena stanziato decine di milioni di dollari per il Countering Disinformation and Propaganda Act, ossia per raccontarci la loro verità.


Non si spacci per giornalismo libero la sottomissione alle leggi di mercato, e l’arte della disinformazione come l’arte di portare la “verità” tra la gente. La libertà di stampa dei quotidiani, la libertà d’informazione delle tivù, venga riconosciuta per ciò che è: fattore di profitto, inganno ai lettori, quando non è, appunto, deliberata falsificazione, oppure opportunismo. L'opportunismo non fa altro che offrire l'alibi a una classe dominante che poggia il proprio strapotere su dei rapporti sociali illiberali e schiavisti.

lunedì 2 gennaio 2017

Ogni esperimento è stato fatto ed è fallito



Le pensioni saranno pagate il primo giorno di ciascun mese o il giorno successivo se festivo o non bancabile, con un unico mandato di pagamento ove non esistano cause ostative, eccezion fatta per il mese di gennaio in cui il pagamento avviene il secondo giorno bancabile. A decorrere dall'anno 2018, tali pagamenti sono effettuati il secondo giorno bancabile di ciascun mese (Articolo 3, comma 3 lettere a e b).

Quando un governo, e poi un altro e un ennesimo, per far quadrare in qualsiasi modo dei conti squinternati, arriva a questi mezzucci, allora vuol dire che siamo arrivati all’ultimo show, al sottovuoto spinto del pensiero e dell’iniziativa politica.

Per avere un saggio completo del fallimento di questa classe dirigente è sufficiente sentirli parlare, da ciò si comprende che non hanno le istruzioni per l’uso dell’intelligenza. Le loro apparizioni sono frammenti caricaturali, imitazioni di chi fa loro il verso.

Hanno evocato tutte le spettacolarizzazioni dell’illusione per intossicarci davanti alla tv, contando che la nostra indulgenza fosse senza limiti, ma infine il 4 dicembre abbiamo dimostrato, se non altro, che un limite c’è. Nella nostra ingenua presunzione che quelle merde non lo ignorino più, e invece siamo daccapo al punto di partenza.