giovedì 20 novembre 2025

Il futuro prossimo del libro

«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali» (K.M.).

Sono sempre di meno quelli che ricordano l’odore delle vecchie tipografie. E il rumore: quello ritmato delle linotype, la monotonia di una Roland, lo sbuffare di una “platina” Heidelberg o lo sferragliare di un “mezzo elefante” Nebiolo. Archeologia. Venne la fotocomposizione e prevalse l’offset. Addio vecchio e malsano piombo, basta con esami periodici della piombemia. Oggi si avvelena più la mente che i polmoni.

Nessuna tipografia, di allora e di oggi, stamperebbe una sola copia di un libro. Ma nemmeno 50 o 100 copie. E però presto avremo un modello di stampa on demand ad alte prestazioni che avrà un impatto duraturo sul mercato e stabilirà nuovi standard in termini di efficienza, flessibilità e ottimizzazione dei processi. Questo è almeno il peana degli enfatici che non si sono mai sporcate le manine in una tipografia.

L’obiettivo, dicono sempre questi Superman del capitalismo, è ottimizzare la catena del valore del settore librario, alleggerire il carico di lavoro degli editori (che delicatezza umanitaria!) e rendere disponibile ai lettori una varietà di titoli (specialmente di merda) ancora maggiore nel più breve tempo possibile. Cosa si nasconde dietro queste promesse altisonanti?

Print-on-demand significa stampare solo su richiesta specifica. Se un titolo è fuori catalogo, le librerie ti dicono che è disponibile, forse, solo sul mercato dell’usato. In un futuro prossimo, un addetto di una libreria (piuttosto un “assistente automatico”) risponderà: “Il libro richiesto, sebbene fuori catalogo, sarà pronto per il ritiro domani mattina dalle 10”. Dio, che goduria! Anzi, “te lo spediamo a casa”. Doppio orgasmo in “terapia tapioco”.

L’ordine di stampa verrà generato con un clic del mouse, ma probabilmente non ci sarà bisogno nemmeno di quello. Una macchina da stampa digitale completamente automatizzata, ricevuto l’input via Proxima Centauri, produce una singola copia, che viene poi spedita al negozio o direttamente al cliente durante la notte. Prezzo non modico, immagino, almeno finché non si costituirà adeguato background digitale dell’opera richiesta.

L’avessero raccontato anche solo 40anni fa, avrebbero vinto a man bassa il Premio Hugo. Anche oggi, per i piccoli editori, ristampare un titolo esaurito è fuori discussione, e anche i costi unitari per le piccole tirature sono troppo elevati. La stampa-on-demand è una pratica comune per gli album fotografici personalizzati. Ecco, prevedo che la cosa funzionerà esattamente in tal modo anche per la stampa dei libri.

Gli editori si trovano ad affrontare la sfida di qualunque capitalista non monopolista, ossia di poter solo stimare le vendite effettive di un libro. Nessuno sa se una nuova uscita sarà un flop o un bestseller. Un libro di Veltroni può vendere infinitamente di più di Das Kapital, e ciò prova il fatto che anche una merda può avere florido mercato. A volte, il successo commerciale di un libro diventa evidente solo con la seconda o la terza ristampa. A volte, dopo decenni, come Moby Dick. Ma non ci sono più le balene di una volta.

In generale, maggiore è la tiratura, minore è il costo unitario di stampa per libro, questo è ovvio. Ma che si tratti di un libro di cucina o del capolavoro di Melville, si tratta comunque di una merce, quindi di un valore di scambio che prescinde dal suo valore d’uso effettivo. Le tirature sono diminuite, così come il numero complessivo di nuove uscite. Tirature inferiori comportano costi unitari più elevati, il che rende la merce-libro più costosa e può ridurre i profitti.

Gli editori si assumono il rischio principale, poiché i fornitori di servizi e gli stampatori devono essere pagati prima che un libro possa essere venduto. Le spese di distribuzione, stoccaggio e vendita all’ingrosso sono del 15% circa, e possono arrivare fino al 30% dei costi totali. Nel tempo prevedo che anche la figura dell’editore subirà radicali trasformazioni. Forse sarà mandato a spasso pure lui.

Dunque il modello di business è chiaro: espandere la capacità di stampa riducendo al contempo i costi del personale, con la produttività per addetto che farà un altro balzo in avanti. Ulteriore disoccupazione e drastica perdita di qualità professionali. I sistemi di stampa, già ora, sono facili da usare in modo che anche dei pischelli senza aver frequentato scuole di grafica e lungo tirocinio lavorativo possono essere formati rapidamente.

Si perderanno definitivamente secoli di esperienza e arte tipo-litografica, come del resto è già avvenuto per molte altre tipologie professionali (pensiamo, per esempio, ai fotografi). Aumenterà l’investimento di capitale, e dopo le piccole tipografie, scomparse da tempo, anche quelle medio-grandi dovranno fare i conti con la composizione tecnica del proprio capitale investito.

«Il capitalismo, nel suo stadio imperialistico, conduce decisamente alla più universale socializzazione della produzione; trascina, per così dire, i capitalisti, a dispetto della loro coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segna il passaggio dalla libertà di concorrenza completa alla socializzazione completa.

Viene socializzata la produzione, ma l’appropriazione dei prodotti resta privata. I mezzi sociali di produzione restano proprietà di un ristretto numero di persone. Rimane intatto il quadro generale della libera concorrenza formalmente riconosciuta, ma l’oppressione che i pochi monopolisti esercitano sul resto della popolazione viene resa cento volte peggiore, più gravosa, più insopportabile» (V .I.U.).

3 commenti:

  1. Gli ultimi due capitoli virgolettati sono di Marx o Lenin?

    Grazie!

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  2. Un libro di Veltroni può vendere infinitamente di più di Das Kapital, e ciò prova il fatto che anche una merda può avere florido mercato.


    Qui mi sono letteralmente scompisciato dal ridere 😁😁😁

    Un vecchio lettore.

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