Cinque anni fa, esattamente il 22 ottobre, scrivevo
il post che ora qui sotto ripropongo con lievi tagli. Corsi e ricorsi della “behavioural
economics” et simila, in un mondo che è sempre più corroso dalla schizofrenia e
dall’opportunismo. Del resto sono quasi due secoli che l’economia politica non
indaga più la realtà ma si limita a descrivere le ombre proiettate sul fondo
della caverna. Perché ciò avvenga è presto detto: almeno a livello ufficiale
dev’essere mantenuto il silenzio sul segreto della società borghese, ossia sul
fatto che essa, sotto qualunque bandiera, è una società che poggia sulla
schiavitù.
*
Dopo che l’utopia neoclassica dell’equilibrio perfetto si dimostrò per quel
che era, iniziarono a farsi strada, presso gli apologeti del capitalismo J.A.
Schumpeter e W.C. Mitchell, i primi abbozzi di una “teoria dei cicli” che altro
non era che una presa d’atto della natura ciclica del capitalismo. La crisi
generale del 1929, infine, con la sua sconvolgente drammaticità, rendeva necessaria
una nuova teoria tale da spiegare ciò che stava avvenendo e proponendo a sua
volta dei rimedi.
Ad assumersi il compito teorico di tranquillizzare la
borghesia offrendole in pasto nuove idiozie, provvide Y.M. Keynes, uno del
pensatoio di Cambridge, con la sua Teoria
Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel
1935. Tale teoria rappresenterà, per parecchi decenni, una specie di catechismo
negli atenei occidentali e una nuova religione per i saltafossi del riformismo
che con essa potranno beatificare il capitalismo.
La Teoria
generale inizia con la critica alla “teoria neo-classica”:
“Dimostrerò
che i postulati della teoria neo-classica si possono applicare soltanto ad un
caso particolare e non in senso generale, la situazione da essa supposta
essendo un caso limite delle posizioni di equilibrio possibili. Avviene inoltre
che le caratteristiche del caso particolare, supposto dalla teoria
neo-classica, non sono quelle della società economica nella quale
effettivamente viviamo; e che quindi i suoi insegnamenti sono ingannevoli e
disastrosi, se si cerca di applicarli ai fatti dell’esperienza”.
In altri termini, Keynes sostiene che la teoria
neo-classica, della quale egli in passato era stato uno degli più eminenti
esponenti, è un’invenzione, una fola che non ha nulla a che vedere con il mondo
reale. Keynes nel suo “modello” della Teoria
generale prende atto che il sistema capitalistico, lasciato alla sua
spontaneità, non tende all’equilibrio, ma allo squilibrio dei vari fattori a
causa della divaricazione tra domanda e offerta. Invece di indagare a fondo le
cause di tale “disarmonia”, peraltro scoperte da Marx, s’inventa a sua volta
una bizzarra “legge psicologica” che
chiama della “diminuzione della
propensione al consumo”.
Che Keynes sia un ciarlatano al pari degli altri suoi
colleghi, compresi quelli venuti dopo, è evidente. Egli sostiene che per
ricondurre il sistema all’equilibrio di piena occupazione, è necessario
produrre una domanda aggiuntiva, “aggregata”, tramite l’intervento dello Stato,
che si esplica essenzialmente mediante la definizione del saggio d’interesse,
la politica fiscale, forme di controllo sulla massa complessiva degli
investimenti per determinarne il volume complessivo (aggiungo, a chiarimento,
che le politiche di sostegno della domanda da parte dello Stato sono vecchie
come il cucco. Del resto il New Deal
cominciò ben prima della pubblicazione della Teoria generale, opera di cui non si tenne conto in Germania, ecc.).
Appare chiaro come Keynes, nonostante la sua critica
ai neo-classici, rimane sostanzialmente tutto interno al loro quadro di
pensiero. Anche per lui, infatti, alla base dei movimenti economici stanno non
ben definiti “elementi psicologici”, che, mentre dai neo-classici vengono
utilizzati per risolvere il “misterioso” problema della determinazione dei
prezzi, per lui giustificano la tendenza, ugualmente “misteriosa”, del sistema
allo squilibrio.
Keynes prende atto di una contraddizione reale, ma
impossibilitato (data la sua posizione di classe) ad individuarne le cause effettive,
non può far altro che rifugiarsi, come i suoi predecessori, nella “psicologia”.
Così facendo, infatti, la contraddizione
perde il carattere oggettivo, capitalistico, per assumere quello soggettivo,
ossia “umano”: non è il modo di produzione capitalistico che contiene in sé
le cause dello squilibrio, viceversa è tale squilibrio espressione del
comportamento umano, di scelte di ordine psicologico.
Pertanto, anche quando si assume e riassume il punto
di vista di Keynes per criticarlo, sostenendo che lo “stimolo artificiale della
domanda” produce guasti al sistema provocando infine un enorme debito, cosa
alla quale avrebbero contribuito “in ugual modo la propaganda pubblicitaria e
la filosofia dei maîtres à penser della sinistra sessantottina”, si rimane
esterni e lontani dalle cause reali della crisi capitalistica, e nel concreto
si prendono lucciole per lanterne. Ancora una volta la contraddizione perde il
carattere capitalistico per assumerne uno “umano”, in questo caso quello
dell’avidità, “l’incontinenza di Bassanio e di Antonio, la loro incapacità di adattare
le loro aspirazioni alle loro risorse”. E così via, farneticando senza sosta.
non è l'uomo corrotto , ma sono i vestiti del'imperatore che non troveranno mai più quel bambino " l'imperatore è nudo !!!!!!
RispondiEliminapure l'imperatore è nudo?! non c'è più la monarchia di una volta
EliminaMi interessa molto.
RispondiEliminaQuando pubblicherà la seconda parte?
Grazie.
domani, ma non parla di Keynes
Eliminamistificazione.
RispondiEliminaLa propaganda borghese, sempre basata sullo scambio, fa scambiare, per esempio:
lavoro con schiavitù.
Autonomia con meno tasse.
Pensioni con vitalizio.
Ingegneria con laurea.
e psicologia con coazione.
Infine l'umano con il disumano.
L'interesse borghese è sempre in avere e fare numeri.
Bisogna ripartire da una resistenza umana. Iscrivetevi tutti a lettere se ne avete il coraggio. D'altra parte, visto la vulgata, i ponti e le autostrade si faranno da soli...
Mai cedere al meccanicismo, neanche nel senso opposto. Gli uomini - e gli italiani in particolare - devono ripartire dalla consapevolezza del proprio non sapere, dalla consapevolezza delle proprie debolezze. Dal fare cose irriproducibili. Dal fare cioè lavorare, non chiacchierare, non scrivere commentini sui blog. Dall'amare: "noi vogliamo amare e lavorare" è Slataper, ricordi? ciao.
io credo di aver lavorato abbastanza, ciao
Eliminaallora non era lavoro.
Eliminaqueste note che scrivi qui, questo sì è lavoro. buona continuazione e grazie.