La crisi trasforma le classi
sociali e anche il senso di appartenenza ad esse, perciò anche l’identità di
ciascuno di noi. Un esempio lo traggo da una statistica Usa, laddove in cinque
anni (2008-2013) il numero di coloro che ritengono di non appartenere più alla
classe media, bensì alle classi più basse, è aumentato del 28 per cento, ossia il
loro numero è sceso dal 53 al 25 per cento. Un dato impressionante che disegna
nitidamente più di ogni altra considerazione l’impatto che la crisi ha prodotto
nella popolazione americana. Anche la percentuale di chi si considerava
appartenere alle classi superiori è passata dal 21 al 15 per cento. È un bel
rimescolamento sociale, la fine di un’epoca e di tante illusioni riposte nelle
sorti magnifiche e progressive di questo sistema.
Per quanto riguarda l’Italia, la
situazione è ben nota. Scrivevo qualche giorno fa: Noi vediamo come l’economia capitalistica non riesca in alcun modo a
garantire le promesse di sviluppo e benessere per tutta la popolazione, poiché
i bisogni economici e politici del proletariato non potranno mai essere a lungo
soddisfatti entro il quadro dei rapporti basati sul valore di scambio e del
profitto, nemmeno spingendo la spesa statale oltre ogni ragionevole possibilità
finanziaria.
Parole al vento, i più pensano che
si tratti di considerazioni personali e non tratte dai risultati di un’analisi
scientifica stringente che ha ad oggetto proprio quei rapporti basati sul
valore di scambio e del profitto, ossia le leggi su cui poggia il modo di
produzione capitalistico. Credono, i più, che il capitalismo consista nella
produzione di merci, anzi nella sempre maggiore produzione di esse per rendere
più confortevole la nostra vita, non capendo che anche quando ciò accade si
tratta di un effetto incidentale, l’illusione feticistica del modo di
produzione capitalistico.
La produzione capitalistica non è
soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di
plusvalore. Lo scopo del capitalista non è produrre beni, merci per il consumo;
il suo scopo è produrre un valore di scambio, un articolo destinato alla
vendita, una merce, il cui valore sia più
alto del capitale investito, ossia maggiore della somma delle merci necessarie
alla sua produzione (stabilimenti, macchinari, materiali e forza-lavoro) e per
le quali ha anticipato sul mercato il suo buon denaro (*).
Il lavoro, la forza-lavoro
dell’operaio, è l’unica fonte creativa di valore, perciò egli, il capitalista,
ci tiene tanto ad abbassarne il valore, ossia il suo costo. Più abbassa il
costo del lavoro, ossia più lo sfrutta intensificando i ritmi e allungandone i
tempi, più rende a buon mercato la forza-lavoro abbassando il valore delle
merci destinate alla sua riproduzione, e maggiore sarà il plusvalore estorto,
ossia il profitto, la parte di lavoro erogato e non pagato. Nel plusvalore, nel furto di lavoro non pagato, è l’origine di ogni contraddizione, quindi anche delle crisi.
Tendenzialmente tanto maggiore
sarà la capacità produttiva raggiunta, tanto maggiore sarà la massa di valori
di scambio (merci) nella loro forma di valori d’uso che resterà invenduta. Tale
fenomeno di sovrapproduzione (non solo di merci, ma anche di capitale), appare
palesemente come la causa delle crisi; crisi che si manifesta quando il
capitalista non è più in grado di
realizzare il plusvalore contenuto nelle merci (**).
Tutto il lavorio pseudoscientifico degli economisti borghesi consiste,
per l’essenziale, nel mascherare, nei modi più comici, il motivo reale di questo
semplice fatto.
(*) La merce è, in primo luogo,
una cosa che soddisfa un qualsiasi bisogno dell’uomo; in secondo luogo, una
cosa che si può scambiare con un’altra. Nell’unita di valore d’uso e di valore
di scambio della merce, è contenuta una contraddizione insanabile, non l’unica in
cui si dibatte il modo di produzione capitalistico, ma quella fondamentale e dalla quale originano tutte le altre. Perciò
c’è tanto interesse a creare confusione su tali determinazioni, poiché essendo,
come detto, la merce un che di duplice, di valore d’uso e di valore di scambio,
anche il lavoro rappresentato nella merce deve avere un carattere duplice,
nella forma di lavoro concreto, materializzato, oggettivato, e in quella di
lavoro astratto, lavoro astrattamente umano. E qui si apre un altro capitolo.
(**) Vedo di volgarizzare al
massimo e perciò si perdoni qualche inevitabile semplificazione concettuale che però non altera la sostanza. Il
buon capitalista dorme su un solo materasso, e al massimo con qualche cuscino,
dunque non su cento materassi e mille cuscini; si nutre a sazietà e dissipa una
certa quantità di cibo, ma non può mangiare e consumare per un milione di
persone e neanche per diecimila; mantiene una pletora di servi e di ruffiani, ma
essa non può essere una schiera infinita. Solo una parte del profitto
accumulato può dunque essere impiegata nel consumo diretto del capitalista e
dei suoi lacchè, solo una quota può essere reinvestita nella produzione (il suo scopo è accumulare e perciò allargare la produzione, ecco anche perché non può dissipare tutto il suo profitto).
Insomma, l’enorme quantità di merci che il lavoro ha prodotto, desunti i costi
di produzione, costituiscono, come valore, il suo profitto (ossia lavoro non
pagato), e gli stanno di fronte aspirando, in quanto merci, ad un compratore,
cioè a ritrasformarsi in valore, anzi in più valore rispetto al capitale
anticipato; ma non possono farlo che nella misura in cui trovano un acquirente.
Non trovano acquirenti sufficienti
poiché la somma dei salari (e quella parte dei profitti che il capitalista
spende per il proprio consumo e i propri agi), non copre tutto il valore
prodotto dal lavoro, e perciò la parte eccedente i salari e la quota del
profitto spesa nei consumi del capitalista, resta invenduta, il plusprodotto
non si trasforma in plusvalore, in profitto. (Si è astratto qui, per semplicità
espositiva, dalla quota di plusvalore destinata ad altre forme di reddito, cioè di spesa e di consumo).
Il capitalismo ha garantito lo 'sviluppo' (sviluppo e benessere comunque non sono qualitativamente sinonimi) nei suoi termini e presupposti, e diversamente non poteva e non può essere. Lo 'sviluppo sostenibile' è un ossimoro. Peraltro anche gli economisti bocconiani riempiono lavagnate di grafici e formule matematiche per garantire autorevolezza alle loro ipotesi, ma sono i risultati alla fine che possono o non confermare i presupposti.
RispondiEliminaFuori dalle rispettive accademie, in duecento anni ci siamo mangiati quattromila anni di storia biologica.
Sotto l'aspetto sociopolitico è da tempo che avviene la cosiddetta proletarizzazione del ceto medio (teniamo ancora valide queste categorie), quindi le dinamiche materiali del modo di produzione dovrebbero indurre un'alleanza fra sfruttati.
Vedremo se almeno l'insieme degli sfruttati sarà in grado di capire e di rallentare in modo sostanziale il taglio del ramo su cui sono seduti.
E' che la rinuncia arriva quasi sempre per imposizione e quasi mai per scelta.
Grazie per la presente, preziosamente nobile, volgarizzazione.
RispondiEliminaStavo pensando, dopo aver letto quest'ottimo post, che lei dovrebbe spiegare come la produzione di una merce come le droghe di tutti i tipi (in particolare della cocaina) fa concorrenza ai capitalisti ufficiali e in un certo senso quest'economia criminale, redistribuisca redditi, che non vengono registrati nei Pil nazionali. Sbaglio?
RispondiEliminauna merce può essere legale o meno, ciò che conta è che dalla sua produzione, attraverso la vendita, venga tratto un profitto, che poi questa attività venga registrata dalle statistiche è secondario
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