sabato 30 marzo 2024

Come quelle monete d'argento




Indipendentemente da ciò che potrebbero dire gli analisti del mercato azionario, i sondaggisti politici e gli astrologi, non possiamo prevedere il futuro. In effetti, non possiamo nemmeno prevedere che cosa sarebbe potuto accadere in passato. Non solo per l’economia, non è possibile prevedere che cosa accadrà o sarebbe potuto accadere sul piano geopolitico e di tanto altro.

La realtà, ossia l’esistenza delle cose, è indipendente dall’atto del conoscere (pensiero riflettente). Che le cose esistano al di fuori della mente umana e indipendente da essa lo riconosceva anche il realismo empirico di Kant. Sennonché, eliminando la “cosa in sé” come oggetto di conoscenza e sostituendola con i “fenomeni”, l’esistenza dei quali faceva dipendere dalla possibilità dell’intelletto umano, l’Immanuel cadeva nel soggettivismo.

L’idea stessa della realtà di un mondo esterno, indipendente dalla coscienza, è diventava pericolosa. Se non ne prendiamo atto, magari non abbastanza, vuol dire che gli specialisti hanno lavorato bene. Ne abbiamo avuto la prova durante la pandemia. Sia chiaro, non nego la pericolosità o la morbilità del virus. Mi riferisco alla narrazione mediatica che se ne è fatta, al tacito complotto (senza virgolette) non solo attraverso le parole, ma con le immagini e perfino le colonne sonore. Non è stato come creare una falsa realtà?

Venendo all’oggi, al presente immediato, chi prospetta una realtà di un mondo esterno diversa, anche solo in parte, da ciò che ci raccontano, diventa ipso facto un individuo aderente a un campo psicologico sospetto, un simpatizzante di questo o di quello, un complottista, perfino un antisemita, quindi un nemico del sistema, potenzialmente pericoloso.

Perciò, prima di iniziare un discorso, è sempre più spesso necessario fare delle lunghe premesse, in modo che il proprio interlocutore si senta rassicurato, che tutt’al più ci consideri eccentrici, ma non paranoidi, ossia dei complottisti cervellotici che hanno fatto della libera insolenza il loro modello comunicativo.

Insomma è necessario far emergere la nostra critica come una differenza che si distingue chiaramente dal cospirazionismo, non quello patologico dei terrapiattisti o di chi immagina Stanley Kubrick filmare un finto sbarco sulla Luna, va da sé, ma quello di coloro, e sono moltissimi e più di quanto si creda, che sono convinti che i grandi eventi che scuotono il mondo siano orchestrati nell’ombra da persone potenti, che tirano le fila della politica, dell’economia, dei media, alla faccia della buona sovranità che i popoli avrebbero conquistato (attraverso il voto!).

Già questo tipo di cautela messa in campo la dice lunga sullo stato dell’arte. E comunque non è un fenomeno nuovo se prendiamo in considerazione ciò che avveniva un tempo in tema religioso, di costume e di morale. Fenomeno che rimbalza in ogni momento di “crisi”, ma si arriva persino a sostenere che le credenze irrazionali (così è classificato tout court il “cospirazionismo” e tutto ciò che può assomigliargli) sarebbero la conseguenza del blocco di un recettore che regola la comunicazione a livello delle sinapsi, eccetera.

A seconda della situazione, c’è un ulteriore modo di affrontare l’argomento, ossia chiedersi se il complottismo è “normale”, e in questo caso saremmo “tutti cospirazionisti”, almeno un po’, almeno potenzialmente, oppure un po’ tutti “anormali”. E ciò che è normale e ciò che si ritiene non lo sia, non possiamo farcelo dire né da Vannacci (un pilastro della nostra identità nazionale e di quella maschile) e però nemmeno da Stefano Cappellini (al quale il saio da Bernardo Gui va a pennello). Trovo divertente constatare che queste macchiette hanno, ognuno per la propria parte politica e ideologica, esattamente gli stessi difetti, solo peggiori, di quelli che denunciano: mescolano tutto e vanno in tutte le direzioni.

Resta la questione. I grandi eventi che scuotono il mondo non sono orchestrati nell’ombra da persone potenti, che tirano le fila della politica, dell’economia, dei media? Sarebbe questa una visione un po’ troppo soggettivistica di considerare le cose, perché c’è indubbiamente qualcosa di più strutturale e che va oltre le singole volontà dei potenti.

E però negare l’esistenza di questi orchestratori smentisce, almeno in parte, tutto ciò che sappiamo sul piano storico delle vicende politiche, diplomatiche, economiche, militari, eccetera eccetera eccetera. Inoltre non spiega né i circoli esclusivi, né perché i servizi d’intelligence siano così numerosi e pervasivi, né perché Assange e altri come lui siano perseguitati o in carcere per aver in fondo rivelato cose tuttalpiù riservate ma non segrete.

Bisogna ammettere che la questione è un po’ più complessa, e tuttavia non si può negare che molte, troppe cose, vengono decise nell’ombra o almeno nella penombra. Pensiamo solo alle spesso cervellotiche decisioni prese a Bruxelles. C’è da chiedersi a che cosa serve la nostra sovranità, se non puoi usarla, se è come quelle monete d’argento che i nostri nonni a volte davano ai bambini il giorno di festa, a condizione che non le spendessero.

venerdì 29 marzo 2024

Il confine tra geopolitica e psichiatria


Ognuno di noi ha appreso la terribile notizia che ha colpito l’Europa la scorsa settimana: Kate Middleton ha il cancro. La mattina del 23 marzo gli inglesi si sono svegliati storditi da questo dramma che ha colpito la famiglia reale. Oggi, invece, apprendiamo che “caccia a italiani hanno intercettato aerei russi nel Mar Baltico”.

A Repubblica spacciano per italiani degli F16 dei quali l’aeronautica italiana non dispone.

È con notizie come queste che ci rendiamo conto di quanto le teste coronate d’Europa siano argomento nei nostri media e vi occupino un posto sproporzionato e osceno. Questi scimpanzé incoronati, spesso stupidi come pochi, riempiono pagine e pagine di giornali per esibire il vuoto siderale della loro esistenza. Tuttavia, se i media se ne occupano in tale misura, significa che riscontrano un interesse non marginale.

Allo stesso modo, che degli aerei russi sorvolino il Mar Baltico non è una notizia, mentre in un mondo normale dovrebbe stupire che caccia italiani si trovino a volare a tali latitudini. Qualunque cosa di spiacevole accada, la Russia ne è sempre responsabile. Da due anni, ma anche più, il confine tra geopolitica e psichiatria non esiste più. In un batter d’occhio, una società si trasforma in una caserma dove tutti stanno sull’attenti.

Non credo si possa ridere di tutto, ma lasciamo fare a “loro” e tra un po’ non rideremo più di nulla. Senza sprofondare nelle paranoie, dobbiamo prepararci a tutto. Anche se riuscissimo a trovare il rimedio al cancro, tuttavia non troveremo mai una terapia per curare in modo efficace sia la stupidità che l’indifferenza, due patologie che vanno di pari passo.

Furbissimi

 

Mentre stiamo tutti col fiato sospeso per le candidature alle elezioni europee (che vedranno il tasso di partecipazione più basso) di varie personalità, compresa una inossidabile ex comunista esperta in balletti latino-americani, Stellantis, la multinazionale dal nome ridicolo, ha disposto tagli tra vari stabilimenti: 2510 suddivisi tra Mirafiori (1560), Cassino (850) e Pratola Serra (100), quindi altri 500 a Melfi, 424 a Pomigliano, 121 a Termoli, 30 a Cento e 12 a Verrone. Si chiamano licenziamenti “volontari incentivati”.

Per quanto riguarda la produzione di veicoli, va rilevato che nel 2000 l’Italia era il quinto Paese europeo e il nono al mondo per produzione di auto. Nel 2022, ultimo dato completo, è scesa dal quinto all’ottavo posto in Europa e dal nono al ventesimo posto nel mondo. Dettagli, abbiamo pur sempre

L’amministratore delegato Carlos Tavares, quello che un paio settimane fa vantava dei profitti record della società nel 2023 (18,6 miliardi) e un tasso di sfruttamento di +9,6%, ha potuto fare affidamento sulle burocrazie sindacali per ottenere questi licenziamenti, salvo la Fiom, che è comunque e altrimenti un sindacato molto collaborativo. Come riporta La Stampa, Tavares ha detto a febbraio che “per fare volumi servono incentivi”. Quelli del governo, cioè i nostri soldi (abbiamo mai visto un bene di consumo come l’auto così pesantemente sovvenzionato con i nostri soldi?).

Nonostante gli incentivi, nel 2023 le immatricolazioni di veicoli in Italia non hanno raggiunto i livelli prepandemia (un picco di oltre 2,2 milioni nel 2017), raggiungendo quota 1,5 milioni. Stellantis meno di 600.000. Complessivamente, le immatricolazioni si sono ridotte di quasi il 20% rispetto al 2019. Forse per acquistare auto e altre merci servono stipendi e salari più alti? È solo un’ipotesi, per carità (ci sono sempre quelli che osservano che però bisogna migliorare la “produttività”; sono costoro individui che andrebbero nutriti con l’imbuto fino a farli scoppiare).

La produzione di veicoli negli stabilimenti italiani Stellantis ha visto una media di circa 930 mila unità nei cinque anni precedenti la pandemia, 2015-2019, ridursi a 730 mila unità nel triennio successivo.

Questo per quanto riguarda la voce “veicoli” (autovetture e autoveicoli commerciali), ma se ci soffermiamo alla voce “autovetture” la situazione è ancora più tragica. La produzione italiana è passata da 796.394 autovetture nel 2018 a circa 350 mila autovetture in meno nel 2022.

Pertanto, la dinamica negativa ha riguardato principalmente la produzione di vetture, i cui volumi medi sono stati di 660 mila nel periodo 2015-2019 per poi scendere a 455 mila nel triennio successivo. Sarà per questo motivo che Tavares punta tutto sull’esportazione? Il Tavares peraltro annuncia di raggiungere un milione di vetture prodotte in Italia nei prossimi anni (precisando d’astuzia: “se la produzione continuerà a crescere del 10% l’anno”).

Dal canto suo, il ministro delle imprese o come cazzo si chiama ora, in audizione alla Camera ha affermato: “Siamo consapevoli del fatto che è impossibile per Stellantis raggiungere da sola l’obiettivo del milione di vetture prodotte in Italia e non possiamo certo chiedere a un solo produttore di farsi carico dell'intera componentistica italiana e di offrire al mercato quei modelli che il mercato, che i consumatori, che i cittadini richiedono”.

Nei prossimi anni, si ridisegnerà totalmente la filiera dell’automotive nazionale e si definirà la sua competitività in Europa e nel mondo. Tuttavia le nuove auto avranno una dotazione di componenti nettamente inferiore rispetto ai veicoli a combustione interna, inoltre va ricordato che la catena del valore della batteria è oggi per l’80 per cento di dominio asiatico.

Ci salveranno “dazi” europei più alti, come auspicato dal cittadino semplice e socialista liberale Mario Draghi? Che riprende quella di Tavares nel 2022. Diciamocelo chiaramente, una proposta ridicola. Le guerre dei dazi non hanno mai portato bene, soprattutto ai Paesi che non hanno proprie materie prime.

Prendiamo il caso della Germania, un paese che sa quali sono i suoi interessi. I suoi investimenti diretti in Cina hanno raggiunto nel 2023 un nuovo massimo, mentre verso gli altri Paesi sono scesi da quasi 170 a 116 miliardi di euro nello scorso anno. Non penso che alle imprese tedesche interessi perdere un mercato di vendita chiave come la Cina e molte catene di approvvigionamento. Quanto all’Italia, noi siamo notoriamente più furbi.

Una soluzione sarebbe quella d’includere una clausola di acquisto nazionale per le auto, come ha fatto Biden negli Stati Uniti. Ma oltreatlantico sono comunisti e i Paesi europei hanno bisogno che i loro mercati rimangano aperti. La mia proposta è basata su dei vincoli: prezzi fissi, quantità predeterminate e soprattutto una “verticalità” della vita economica dove è lo Stato a decidere e le imprese a obbedire. Troppo marxista, ammetto. E poi non basterebbero delle “riforme”, servirebbe un vero bagno di sangue.

giovedì 28 marzo 2024

Azionisti di tutti i paesi, rallegratevi!

 

I padroni del mondo traggono “valore aggiunto” come mai prima d’ora dalle braccia, dalle schiene, dal cervello e dalle anime dei loro dipendenti, che a volte muoiono anche sul lavoro, questi maldestri. E gli amministratori delegati trasmettono quanto più possibile questo valore aggiunto ai loro azionisti (*).

Un esempio: il gruppo Banca Ifis è un istituto bancario italiano attivo principalmente nei servizi di acquisizione/gestione di portafogli di crediti deteriorati. La banca è stata fondata nel 1983 da Sebastien Egon Fürstenberg, figlio di Clara Agnelli, un cognome che è una garanzia. Ebbene, per il 2023 la Banca prevede di distribuire 110 milioni di euro di dividendi, pari a 2,1 euro per azione in circolazione. Nei primi 9 mesi del 2023, la Banca aveva deliberato la distribuzione di un acconto sul dividendo 2023 pari a 63 milioni di euro. Argent de poche per le piccole spesucce.

Secondo il Global Dividend Index il valore complessivo delle distribuzioni ai soci ha raggiunto la cifra record di 1.660 miliardi di dollari nel 2023 (nel 2019 erano 1.395,2). Stiamo parlando di soli dividendi, senza che l’azionista, tra un pisolino e l’altro, muova un dito. L’86% delle società ha aumentato i propri dividendi. Le banche si sono accaparrate la metà di questi dividendi.

La Borsa italiana ha chiuso il 2023 con dividendi per oltre 18 miliardi. La borsa di Milano è piccola cosa in rapporto al resto. Il 40° report di Janus Henderson Global Dividend Index, del novembre scorso, annunciava: “Le prospettive per il quarto trimestre sono favorevole e potrebbero comportare dividendi record per l’Italia quest’anno”. Previsione confermata dal 41° report, quello di marzo 2024: “le distribuzioni sono balzate del 17,9% nell’anno per raggiungere l’importo record di 20,1 miliardi di dollari (18,5 miliardi di euro). Le banche italiane contribuiscono ai tre quarti della crescita” (p. 10).

La parte migliore (o peggiore, secondo i punti di vista) sono i riacquisti di azioni proprie da parte delle società. Normalmente, una società riceve denaro dai suoi azionisti. In tal caso accade esattamente il contrario. Uno degli obiettivi del riacquisto? L’aumento dei prezzi delle azioni: meno azioni circolano, più ciascuna di esse rende.

In breve, le nostre stupide giornate di lavoro, tutto inutile. Da dove viene gran parte del patrimonio dei milionari di tutto il mondo? Dal loro lavoro? Ingenui che siete. No: eredità. Gli azionisti di cui sopra sono anche, per la maggior parte, persone che ricevono eredità, che possiedono immobili. Ricevere dividendi, affitti e roba simile, non è lavoro. La chiamano meritocrazia.

Cari azionisti, quando i vostri soldi “funzionano”, secondo l’ipocrita espressione a cui siete tanto affezionati, non c’entrate niente con la produzione di quella ricchezza. Gli affitti esorbitanti che chiedi ai tuoi inquilini non sono un servizio che fornisci loro. I dividendi di cui ti vanti, sono anche il prodotto del rincaro del prezzo delle merci, dei servizi e delle bollette. C’è povertà a causa tua e della tua ricchezza. Anche voi siete parte dei veri nemici della società e della libertà. Togliervi di torno, come già diceva Brecht, è una faccenda che riguarda la bontà.

(*) Secondo gli adulatori del sistema, il valore aggiunto sarebbe ottenuto dall’impiego dell’intero capitale. Provassero senza l’impiego dei loro schiavi a far fruttare il loro capitale! C’è ovviamente un motivo ideologico al fondo nei loro deliri: calcolato sul capitale complessivo e non solo sulla parte variabile (quella pagata all’operaio), il saggio di sfruttamento viene diluito tra tutti i “fattori” fino a scomparire (una voce tra le altre). La cosa comporta poi altre stupefacenti stupidaggini teoriche. Di dove origina realmente il cosiddetto “valore aggiunto”, non gl’importa proprio nulla. Interessa intascarlo e metterlo nel circuito finanziario.

mercoledì 27 marzo 2024

Aviso de servisio

 

Causa robe diaboliche a me incomprensibili e indipendenti dalla volontà dell'interessato, cioè di Luca Massaro, per chi volesse seguire il suo blog, uno dei più antichi e prestigiosi (ne esiste una copia autografa alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), da oggi può farlo, sempre a gratis, al seguente link:

https://lucamassaro.blogspot.com/

Luca, non ringrasiarme, xe el minimo che podesse far par n'amigo come ti. Ricordate comunque che la quaresima xe finia e semo sotto pasqua. El vin che non va bevudo entro majo va in aseo e xe un pecà.

«Questo avrà un prezzo»

Siamo immersi in una realtà che ci angoscia, ci schiaccia e in cui ci sentiamo impotenti. Ma non ci sentiamo mai personalmente responsabili. La colpa è sempre degli altri, di qualcuno o di qualcosa. Decine di migliaia di persone scendono in piazza su invito di un prete per manifestare contro la mafia. E va bene, ma quando cazzo vogliamo occuparci del resto? Ci vogliamo rendere conto di ciò che sta accadendo e di ciò che si sta preparando? Lasciamo ai ragazzini delle medie la questione della strage sionista, ai quattro sgangherati attorno a Santoro la questione della guerra, così come pensiamo che la questione dell’islam non ci riguardi, sia roba di quattro fanatici low cost-low tech (e del resto è sufficiente cogliere il malcelato compiacimento dei media occidentali per la strage di Mosca).

Sempre più aperta è l’opzione che le contraddizioni del sistema, la lotta per la supremazia, si possano oggi risolvere e decidere con il riarmo, la minaccia bellica e senza escludere il ricorso alla guerra, fosse pure quella nucleare.

Gli Stati Uniti hanno mantenuto la dottrina di poter effettuare attacchi nucleari preventivi: questa “è la nostra politica da molto tempo e fa parte dei nostri piani per il futuro”, ha dichiarato il Segretario alla Difesa americano alla fine di settembre 2016 presso la base aerea di Kirtland, Nuovo Messico, che ospita il centro di ricerca atomica. Inoltre, la nuova strategiadi difesa nazionale del Pentagono adottata alla fine di ottobre 2022 ha superato un nuovo limite autorizzando l’uso di armi nucleari contro minacce non nucleari. Evidentemente certi documenti (dove si parla anche “the risk of inadvertent escalation”) sono ignorati di proposito dalla nostra libera stampa (*).

Il ministro tedesco dell’Economia, Robert Habeck, ha dichiarato che la guerra terrestre è tornata in Europa e per questo motivo è necessario aumentare la produzione di armi e riattivare gli scenari di dispiegamento per la difesa nazionale. “E questo avrà un prezzo. Dobbiamo essere chiari su questo”. Sì, chiarissimo, il prezzo lo paghiamo noi e sarà il più alto.

La ministra federale dell’Istruzione, Bettina Stark-Watzinger, intende mandare i giovani ufficiali nelle scuole e introdurre esercitazioni di protezione civile in caso di guerra. Il ministro della Sanità, Karl Lauterbach, intende preparare il sistema sanitario tedesco ai “conflitti militari”. Sostiene che la Germania potrebbe diventare un hub per la cura dei feriti provenienti da altri paesi.

Parlano di preparativi di guerra come se si trattasse di organizzare un evento sportivo o culturale di rilievo internazionale. C’è chi dichiara che la Germania deve essere “pronta alla guerra” entro cinque anni. Tutto ciò passa pressoché in silenzio, come se due guerre mondiali non fossero bastate. Come se stessero prefigurando conflitti da combattersi con lance e scudi in sella a dei cavalli.

Della Francia sappiamo. Macron vuole ruolo in Europa, smarcarsi per quanto possibile da Washington. Sciovinismo e grandeur sono un tratto tipico. I francesi siedono nel consiglio di sicurezza dell’ONU, festeggiano la “vittoria” nella II GM, dimentichi che loro la guerra l’hanno persa nel 1940, che la loro assemblea nazionale votò quasi all’unanimità i pieni poteri a Pétain, che si alleò coi nazisti in accordo con la maggioranza dei francesi, che del loro antisemitismo non hanno fatto mai mistero.

Sembra anacronistico, quasi comico, dover ricordare queste cose a quasi un secolo da quegli eventi. Epperò si prevede Trump alla Casa Bianca, Le Pen all’Eliseo e, per quanto ci riguarda, abbiamo i missini ai vertici dello Stato. Anche non ci fossero loro al potere, ci fossero gli “altri”, la sostanza non cambierebbe. Sono degli Seyss-Inquart di Washington e Bruxelles. Esecutori di ordini, da sempre.

Quanto al terrorismo islamico dei gruppi jihadisti, il loro scopo è quello di provocare il maggior numero di morti possibile in modo indiscriminato. Non esiste più alcun obiettivo politico comprensibile, nessun messaggio su un argomento specifico, nessuna trattativa. Prevale il desiderio di scuotere l’intero mondo musulmano seminando il caos, facendo proseliti utilizzando i loro santuari informatici e le loro capacità di controllare la popolazione islamica sul nostro territorio.

(*) Oltre ai suoi missili balistici continentali “classici”, la Russia si è dotata di un missile balistico intercontinentale pesante chiamato “RS-28 Sarmat” (o Satan 2 per gli occidentali), operativo dalla fine di agosto 2023. Si tratta di un missile in grado di colpire qualsiasi regione della Terra con una potenza di fuoco devastante e senza precedenti.

Questo missile può trasportare fino a 10 grandi testate nucleari o 16 piccole testate, ciascuna delle quali può essere diretta verso un bersaglio. Questo missile da 200 tonnellate, 35,5 metri di lunghezza e 3 metri di diametro, con una velocità pari a 20 volte quella del suono (26.000 km/h), ha una potenza totale compresa tra 8 e 12 milioni di tonnellate di TNT (450 volte la potenza della bomba atomica sganciata su Hiroshima), che trasforma un paese delle dimensioni della Francia o della Gran Bretagna in un deserto inabitabile in meno di 5 minuti.

Nessun sistema di difesa antimissile, anche il più moderno, può intercettarlo, e anche in tal caso la sua distruzione in volo sarebbe ancora più devastante. Dal 2023 almeno 50 sistemi di lancio Sarmat sono stati schierati sul territorio russo.

La Russia ha un sistema “Perimetrale”, soprannominato “Mano Morta” dagli esperti della NATO. Si tratta di un attacco nucleare di ritorsione finale. Anche se la Russia è bombardata da attacchi nucleari ed è sull’orlo dell’annientamento, questo sistema di notifica automatica e di emissione di ordini per il lancio di armi nucleari strategiche verrà attivato se tutti i sistemi di difesa della Federazione Russa verranno distrutti da attacchi nucleari. In altre parole, l’ultima parola spetterà alla Russia, che lancerà automaticamente i suoi ultimi missili nucleari contro l’attaccante, distruggendolo completamente. Ecco perché Vladimir Putin ha affermato che non ci saranno vincitori in una guerra nucleare.

Ecco perché ho giudicato Volodymyr Zelenskyj un pericoloso idiota quando, il 6 ottobre 2022, ha chiesto di colpire la Russia con armi nucleari.


martedì 26 marzo 2024

La lista della spesa per la guerra e a sostegno dei massacri

 

Dopo il voto bipartisan alla Camera di venerdì scorso, e dopo quello del Senato di sabato, il disegno di legge di bilancio è stato firmato lo stesso giorno dal presidente Joe Robinett Biden. Prevede il più massiccio stanziamento della storia per le spese militari statunitensi. Pochi minuti dopo aver firmato il disegno di legge, Biden ha chiesto alla Camera di adottare un disegno di legge supplementare sulla sicurezza nazionale precedentemente approvato dal Senato, che comprende oltre 60 miliardi di dollari per l’esercito ucraino, oltre 14 miliardi di dollari per Israele e raddoppia i finanziamenti militari a Taiwan.

Nella lista della spesa federale sono inclusi i finanziamenti per l’Immigration and Customs Enforcement (ICE) per espandere le proprie strutture di custodia di altri 42.000 posti letto. Il disegno di legge prevede inoltre finanziamenti per altri 2.000 agenti della polizia di frontiera e taglia i finanziamenti del 20% alle organizzazioni non governative che forniscono servizi sociali agli immigrati.

Dei 1.200 miliardi di dollari stanziati a sei dipartimenti federali, il Pentagono ne ha rivendicato più di due terzi, circa 825 miliardi di dollari. Il disegno di legge di bilancio separato firmato da Biden l’8 marzo, per gli altri sei dipartimenti federali, prevede 23,8 miliardi di dollari per i programmi statunitensi sulle armi nucleari gestiti dal Dipartimento dell’Energia.

Alcuni dettagli su come verranno investiti questi soldi in gioiellini di guerra: 33,5 miliardi di dollari per costruire otto navi, altri miliardi per la costruzione di 86 aerei da combattimento F-35 e 24 F-15EX, nonché 15 navi cisterna KC-46° (si guarda lontano). Altri 2,1 miliardi di dollari sono stanziati per l’“Arma ipersonica a lungo raggio dell’esercito” e il “Sistema di arma ipersonica convenzionale a attacco rapido della Marina”. Quindi contratti pluriennali per sei sistemi missilistici avanzati: il missile d’attacco navale, il sistema missilistico a lancio multiplo guidato, il Patriot Advanced Capability-3, il missile anti-nave a lungo raggio, il missile aereo congiunto, missili di superficie e missili aria-aria avanzati a medio raggio.

La legge fornisce ai funzionari del Dipartimento della difesa la libertà di negoziare contratti pluriennali per i sottomarini di classe Columbia e Virginia. La classe Virginia è focalizzata sulla guerra antinave/antisommergibile, la classe Columbia sostituirà la piattaforma di attacco nucleare della classe Ohio e sarà dotata di 16 tubi per il lancio dei missili balistici Trident II D5 (ho già accennato in un post recente sulle capacità distruttive di questi missili).

Allo stesso tempo, la legge vieta “che qualsiasi finanziamento dei contribuenti vada all’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (UNRWA)” ed elimina i finanziamenti alla “Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite contro Israele”. La legge obbliga l’Autorità Palestinese a non avviare o sostenere alcuna indagine della Corte Penale Internazionale contro cittadini israeliani “per presunti crimini contro i palestinesi” se desidera qualsiasi sostegno economico da parte degli Stati Uniti.

La spesa militare totale degli Stati Uniti, anche sulla base delle cifre disponibili al pubblico, fa impallidire quella di qualsiasi possibile combinazione di paesi. Gli Stati Uniti da soli rappresentano quasi il 40% della spesa militare totale mondiale, equivalente in classifica a quella dei successivi 11 paesi messi insieme. Rispetto al totale statunitense di 877 miliardi di dollari per il 2022, l’ultimo anno per il quale sono disponibili dati globali completi, lo Stockholm International Peace Research Institute ha stimato che la Cina ha speso 292 miliardi di dollari e la Russia, in guerra, 86,4 miliardi di dollari.

La spesa combinata degli alleati americani della NATO, più di 300 miliardi di dollari, degli alleati asiatici degli Stati Uniti nel cosiddetto Quad (India, Giappone e Australia, 160 miliardi di dollari messi insieme), e degli stati clienti degli Stati Uniti nel Medio Oriente (Arabia Saudita, Israele, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, 130 miliardi di dollari messi insieme), non lascia dubbi in proposito: con queste cifre, non c’è modo di valutare la posizione militare americana come qualcosa di diverso da un programma per la guerra mondiale.

Un articolo del Financial Times (FT) di ieri riportava che gli Stati Uniti e il Giappone stanno “pianificando il più grande miglioramento della loro alleanza di sicurezza da quando hanno firmato un trattato di mutua difesa nel 1960”. Il rafforzamento del patto in preparazione ad una guerra guidata dagli Stati Uniti contro la Cina sarà annunciato, secondo il FT, quando il presidente americano ospiterà il primo ministro giapponese Fumio Kishida alla Casa Bianca il prossimo 10 aprile.

Il Giappone ospita il più grande contingente statunitense di qualsiasi altro paese al mondo, con circa 55.000 addetti di tutti i rami delle forze armate – Esercito, Marines, Marina e Aeronautica – ospitati in basi permanenti in tutto il paese. Allo stesso tempo, i governi del Giappone hanno indebolito le restrizioni imposte dalla sua Costituzione alle forze armate.

A dicembre, il governo Kishida ha annunciato il raddoppio delle spese militari e sta acquisendo armi offensive, compreso l’acquisto di missili da crociera come il Tomahawk della Lockheed Martin e il Joint Air-to-Surface Standoff Missile (JASSM). Prevede inoltre di produrre i propri aerei da combattimento avanzati in collaborazione con il Regno Unito e l’Italia, oltre ai caccia F-35 acquistati dagli Stati Uniti.

Il conflitto tra le maggiori potenze non può che avvenire con le armi più avanzate, comprese quelle nucleari, e richiede ovviamente il più stretto coordinamento in tempo reale. A complemento di una più stretta cooperazione con gli Stati Uniti, l’anno prossimo le forze armate giapponesi istituiranno anche un “Comando operativo congiunto”.

lunedì 25 marzo 2024

Lo scisma demografico

 

Uno studio pubblicato mercoledì 20 marzo sulla rivista The Lancet prevede un calo della fertilità umana più rapido del previsto a livello globale. Lo studio è il risultato del progetto collaborativo internazionale Global Burden of Disease (GBD) e l’Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME), e conclude che intorno al 2050 l’indice medio di fertilità potrebbe aggirarsi intorno a 1,8 figli per donna su scala globale. Ovvero al di sotto della soglia di rinnovamento della popolazione.

Un indice che, secondo questo lavoro, potrebbe scendere a 1,6 figli per donna alla fine del secolo. In confronto, le ultime proiezioni delle Nazioni Unite, pubblicate nel 2022, prevedevano un numero medio di figli per donna di circa 2,1 nel 2050 e 1,8 nel 2100.

Il GBD si basa sull’analisi dell’evoluzione demografica globale tra il 1950 e il 2021 e modellava l’evoluzione del tasso di fertilità, paese per paese, fino alla fine del secolo. Negli ultimi settant’anni, il tasso di fertilità si è più che dimezzato, passando da 4,8 figli per donna nel 1950 a 2,2 nel 2021 (*).

La fertilità sta diminuendo a livello globale, con tassi in più della metà di tutti i paesi e territori nel 2021 al di sotto del livello di sostituzione. Le tendenze dal 2000 mostrano una notevole eterogeneità nella rapidità del declino, e solo un piccolo numero di paesi ha sperimentato anche un leggero rimbalzo della fertilità dopo il tasso più basso osservato, senza che nessuno abbia raggiunto il livello di sostituzione.

Inoltre, la distribuzione dei nati vivi in tutto il mondo sta cambiando, con una percentuale maggiore che si verifica nei paesi a basso reddito. I futuri tassi di fertilità continueranno a diminuire in tutto il mondo e rimarranno bassi anche in caso di attuazione efficace delle politiche pro-natali.

Questi cambiamenti avranno, come è facile intuire, conseguenze economiche e sociali di vasta portata a causa dell’invecchiamento della popolazione e del calo della forza lavoro nei paesi a reddito più elevato, combinati con una quota crescente di nati vivi tra le regioni già più povere del mondo.

I ricercatori hanno condotto la loro analisi paese per paese: prevedono un calo più o meno generale. Non solo nei paesi del Nord, in genere già al di sotto della soglia di sostituzione – l’Europa occidentale è, nel 2021, intorno a 1,5 figli per donna (1,24 in Italia nel 2022) –, ma anche nei paesi del Sud, dove le popolazioni si urbanizzano, man mano che le donne ottengono l’accesso all’istruzione e ai mezzi contraccettivi, man mano che la mortalità infantile diminuisce, ecc. Nel 2021, circa il 46% dei 204 Paesi o regioni considerati erano al di sotto della soglia di rinnovo; questa percentuale potrebbe salire al 76% nel 2050 e al 97% nel 2100 (qui una tabella di dettaglio).

Gli autori prevedono uno scisma nel tasso di natalità, con l’Africa sub-sahariana che rimarrà l’unica grande regione dinamica del mondo per gran parte del secolo attuale. “Mentre la civiltà umana converge verso la realtà della bassa fertilità”, scrivono i ricercatori, “tassi relativamente alti in alcuni paesi e territori a basso reddito si tradurranno in un chiaro divario demografico tra un sottoinsieme di paesi a basso reddito e il resto del mondo.»

I ricercatori prevedono che entro il 2100 solo Samoa, Somalia, Isole Tonga, Niger, Ciad e Tagikistan rimarranno al di sopra della soglia di rinnovamento della popolazione. All’estremità opposta dello spettro, Bhutan, Nepal, Bangladesh e persino l’Arabia Saudita potrebbero vedere il loro indice di fertilità scendere al di sotto di un figlio per donna.

Pertanto, stando ai dati attuali e alle proiezioni, il rapido declino della fertilità suggerisce un miglioramento generalizzato del tenore di vita.

A me viene in mente una domanda: come farà il famoso “Mercato” a sostenere la domanda effettiva? Malthus, come già Ricardo, teneva conto del rischio di una crisi generale legata ad un’insufficienza della domanda effettiva, ed egli perorava l’incremento quanto più grande possibile delle classi improduttive ma non diceva nulla sul modo in cui esse si dovessero procurare i mezzi di acquisto. Il rischio di insufficienza della domanda effettiva aveva minato l’ottimismo liberale anche negli anni Trenta riguardo al futuro del capitalismo (tra tutti: Keynes).

Ricordo che fu la guerra mondiale a togliere le castagne dal fuoco. Nel tempo lungo il problema si ripresenta, anche perché la classe salariata stessa produce gli strumenti del suo pensionamento. E dunque la contraddizione si presenta nei suoi due classici aspetti di tendenza: deficit di offerta di lavoro mediamente qualificato (ne vedremo delle belle) pur in una situazione di calo demografico; calo della domanda pur in presenza di sovrapproduzione.

In sostanza, pur astenendomi su previsioni puramente economiche del collasso del capitalismo, mi chiedo: come pensano i social-liberali di alimentare la pompa dell’accumulazione capitalistica stante un tasso demografico tendenzialmente in picchiata?

Altra domanda: certamente l’economia continuerà per anni a governare i comportamenti demografici, essendo la povertà la prima causa dell’emigrazione, tuttavia il saldo migratorio, a un certo punto, potrà ancora giocare un ruolo importante in considerazione del fatto che il livello di sostituzione sarà deficitario nella quasi totalità dei Paesi?

Infine: la società capitalista occidentale si sta caratterizzando con un movimento di impoverimento e con un generalizzato decrescere del tenore di vita nelle ex classi medie; ciò potrebbe influire sui comportamenti socio-demografici e frenare la tendenza?

Come solito, pongo domande. Per le risposte, rivolgersi a quelli che ne hanno sempre un cassetto pieno.


Notare i rettangolini color seppia quanto sono minuscoli.

(*) Per gli amanti dei dettagli: «Durante il periodo dal 1950 al 2021, il TFR [tasso di fertilità globale] si è più che dimezzato, da 4,84 (95% UI 4,63–5,06) a 2,23 (2,09–2,38). I nati vivi annuali globali hanno raggiunto il picco nel 2016 con 142 milioni (95% UI 137-147), scendendo a 129 milioni (121-138) nel 2021. I tassi di fertilità sono diminuiti in tutti i paesi e territori dal 1950, con il TFR che rimane al di sopra di 2,1, canonicamente considerata fertilità a livello di sostituzione: in 94 (46,1%) paesi e territori nel 2021. Ciò includeva 44 dei 46 paesi dell'Africa subsahariana, che era la superregione con la quota maggiore di nati vivi nel 2021 (29,2 % [28,7–29,6]). 47 paesi e territori in cui la fertilità stimata più bassa tra il 1950 e il 2021 era inferiore alla sostituzione hanno sperimentato uno o più anni successivi con una fertilità più elevata; solo tre di queste località sono riuscite a superare i livelli di sostituzione. Si prevedeva che i futuri tassi di fertilità continuassero a diminuire in tutto il mondo, raggiungendo un TFR globale di 1,83 (1,59–2,08) nel 2050 e 1,59 (1,25–1,96) nel 2100 nello scenario di riferimento. Si prevede che il numero di paesi e territori con tassi di fertilità che rimarranno al di sopra della sostituzione sarà di 49 (24,0%) nel 2050 e solo sei (2,9%) nel 2100, con tre di questi sei paesi inclusi nel rapporto 2021 della Banca Mondiale. definito gruppo a basso reddito, tutti situati nella superregione GBD dell’Africa sub-sahariana. Si prevedeva che la percentuale di nati vivi nellAfrica subsahariana aumenterà fino a raggiungere più della metà dei nati vivi nel mondo nel 2100, al 41,3% (39,6–43,1) nel 2050 e al 54,3% (47,1 –59,5) nel 2100. Si prevede che la percentuale di nati vivi diminuirà tra il 2021 e il 2100 nella maggior parte delle altre sei superregioni, diminuendo, ad esempio, nell’Asia meridionale dal 24,8% (23,7–25, 8) nel 2021 al 16,7% (14,3–19,1) nel 2050 e al 7,1% (4,4–10,1) nel 2100, ma si prevede che aumenterà modestamente nel Nord Africa e nel Medio Oriente e superregioni ad alto reddito. Le stime previsionali per lo scenario combinato alternativo suggeriscono che il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile per l’istruzione e il soddisfacimento dei bisogni di contraccettivi, nonché l’attuazione di politiche pro-natali, comporterebbe un TFR globale di 1,65 (1,40–1,92) nel 2050 e 1,62 (135–1,95) nel 2100. I valori metrici delle abilità di previsione per il modello IHME erano positivi in tutti i gruppi di età, indicando che il modello è migliore della previsione costante».

domenica 24 marzo 2024

Il modo di stare al mondo

 

Ieri sera mi è stato segnalato un post di Pier Luigi Fagan, un appassionato di “complessità”. La sua critica è molto articolata e seducente, rivolta a un’Europa e ai suoi abitanti “semplicemente in fuga dal reale”. La tesi centrale e generale del post è che siamo incapaci di prendere coscienza del dramma del nostro tempo. Privi di orizzonte, viviamo un’epoca pervasa dal soggettivismo e da una negazione nevrotica che sta volgendo in psicosi. Scrive Fagan:

«Illusa nella propria sfera protettiva di esser divenuta immune al tempo ed alla storia, Europa s’è svegliata di colpo una mattina scoprendo che le magnifiche sorti del globalismo liberale all’occidentale erano state di notte sostituite dal ritorno della storia ovvero delle logiche di potenza che presuppongono Stati, strategie, armi, visione geopolitica».

Come non essere d’accordo sul fatto che la natura delle relazioni internazionali non è cambiata radicalmente in mille anni. Fagan denuncia la “finanziarizzazione”, le nuove ricchezze che determinano diseguaglianze sociali inarrivabili e l’ulteriore crisi ontologica di quella cosa che chiamano “democrazia”, che ne è ovvia conseguenza.

Denuncia vera, non senza aver premesso «che per almeno sessantacinque anni (1945-2010), la società europea ha vissuto in un ordinamento sociale sufficientemente stabile e funzionante basato su una sostanziale affidabilità e costanza degli indici di crescita economica, una tendenza continuata allo sviluppo».

Impossibile smentire gli “indici di crescita economica”. Poi “un decennio iniziato con l’11/09 e terminato con gli effetti dello scoppio di una gigantesca bolla di valore finanziario”, la cui natura nuova s’inquadra tra gli altri nel concetto di “finanzcapitalismo”.

Tuttavia, e potrà sembrare paradossale, la fotografia di Fagan mi ha convinto meno per il suo contenuto che per le sue intenzioni, che presumo senz’altro oneste. Elude un fatto: la crisi attuale è il prodotto naturale e conseguente di quello sviluppo e di quegli “indici di crescita economica”, pertanto non dovuta semplicemente allo scoppio della “bolla” finanziaria e dal volgere l’economia verso il “finanzcapitalismo”.

Non c’è stata nessuna discontinuità con l’immanenza delle leggi che reggono il capitalismo. Che procede per fasi, ma la cui natura essenziale non muta e alla cui base vi è la necessità di valorizzare il capitale. La speculazione finanziaria è solo un mezzo, quello più rapido. Le crisi una conseguenza inevitabile. Quella del primo decennio di questo secolo non è stata la prima dal dopoguerra e non sarà l’ultima.

Fagan parla di realismo, ma il suo pragmatismo allude alla ridefinizione di ruolo dell’Europa nell’ambito della competizione globale; critica il liberalismo e la finanziarizzazione, ma non mette in discussione gli attuali rapporti sociali. Invoca cambiamenti “radicali”, più di mentalità e di approccio, ma che tutto resti nella sostanza come è oggi.

Quanta passione e preoccupazione per il declino dell’Europa, che non riesce ad avere multinazionali (e relativi piani di ricerca) di “dimensione competitiva con quelle statunitensi e cinesi”. Ed è appunto assumendo il punto di vista più avanzato dell’élite padronale europea che Fagan professa di essere “realista”. Glielo concedo.

Le multinazionali creano il proprio spazio economico indipendentemente dagli Stati (o con il sostegno di essi), e la loro flessibilità permette loro di sfruttare le disparità nella legislazione sociale e ambientale. In questo contesto, le multinazionali possono sfruttare in modo massiccio le risorse naturali di una regione e localizzare lì le attività più inquinanti.

A tale riguardo, Fagan scrive: «Si assiste alla paradossale riduzione del problema di fattura epocale in un alacre fervore “verde” finalizzato a vendere nuove cose sotto improvviso ricatto valorial-morale mentre è evidente che è un intero “modo di stare al mondo” a generare il problema». Epperò il modo in cui stanno al mondo gli individui, quelli di venti secoli or sono così come quelli di oggi, non viene deciso dai soggetti interessati o semplicemente dal marketing.

E arriviamo al punto. Scrive Fagan: «Preferiamo criticare, usiamo “capitalismo” come diagnosi-pattumiera causa di tutte le cause, “neoliberismo” da ultimo ...». Che nella critica del passato vi sia stato un abuso del termine capitalismo, lo concedo. Che il capitalismo, come formazione economico-sociale, non sia la causa prima e fondamentale delle contraddizioni e dei disastri della nostra epoca, è un tentativo di parlare di qualcos’altro (degli atteggiamenti e non del mondo reale).

Scrive ancora Fagan: «Ci sarebbe anche del lavoro da fare sulla immagine storica di noi stessi, dei nostri valori, del nostro valore di civiltà, del nostro troppo stratificato e antico complesso culturale. Forse il nostro “Io di civiltà” ha troppi errati presupposti, troppa idealità e poco pragmatismo concreto, troppi luoghi comuni e categorie oramai sedimentate e divenute strati geologici del pensiero ritenuti irrinunciabili poiché identitari».

Anche in ciò c’è del vero, eccome. Ma siamo ancora lontani dalla radice del problema, e del resto viviamo nell’epoca delle “concezioni del mondo” e della soggettività, dell’individualismo. Fagan, pur invocando pragmatica “concretezza”, resta vincolato a una critica laterale che ha ad oggetto l’ecclettismo politico e degli atteggiamenti soggettivi, dei “troppi luoghi comuni”, eccetera.

Rivendica l’identità europea, il ruolo dell’Europa, della sua cultura e “civiltà” in opposizione all’importazione demografica e di altre culture. Su altri registri, sicuramente estranei a Fagan, è ciò che rivendicano i movimenti di destra e populisti. Fagan, paladino del realismo e critico dell’ideologismo, diventa lui stesso un sostenitore dell’ideologia dello “scontro di civiltà”.

Nella misura in cui questo approccio di stampo ideologico e soggettivistico non appare a Fagan, si tratta di un ideologismo mascherato, inconscio, che Fagan, già imprenditore del marketing e della comunicazione, porta al suo esemplare compimento.

Il post di Fagan si chiude con un appello o quantomeno un auspicio: «Forse la prima cosa che dovremmo accettare almeno per simulare un tentativo di comune speranza, è ammettere quanto grosso è il problema che abbiamo e quanto non abbiamo la più pallida idea di come affrontarlo. Radicalmente. Tutti».

La nostra cecità non dipende solo da una coscienza che rifiuta, per comodità e abitudine, di vedere e reagire alla realtà. Crediamo che mettendoci di fronte alla questione delle questioni del nostro tempo e concentrandoci, una risposta uscirà dalla nostra testa, attraverserà l’aria e andrà a materializzarsi in un nuovo e sanificato capitalismo?

sabato 23 marzo 2024

Chi manovra chi

 

Stamane ho provato un certo divertimento nel leggere nei social a me accessibili alcune opinioni dei milioni di esperti di terrorismo e di geopolitica in merito ai fatti di ieri sera alla Crocus City Hall di Mosca. Se aggiungo anche il mio post non penso di peggiorare la situazione.

Indipendentemente dai responsabili immediati dell’attacco terroristico di ieri, è chiaro che esso ha avuto luogo in un contesto di una guerra in espansione contro la Russia e in estensione ben oltre l’Ucraina. Responsabili politici di primo livello dichiarano che “per ora” non è prevista una guerra mondiale. Dichiarazioni che passano nel silenzio più totale.

Veniamo al fatto di ieri sera almeno per quanto se ne sa. L’attacco terroristico alla sala da concerto di Mosca a provocato decine di morti e oltre cento feriti. L’organizzazione definita Stato islamico-Khorasan con sede in Afghanistan ha rivendicato la responsabilità di quello che è il più grande attacco terroristico avvenuto in Russia negli ultimi due decenni.

L’attacco ha coinvolto un gruppo di almeno quattro elementi armati che hanno iniziato a sparare contro una folla di migliaia di persone poco prima dell’inizio del concerto del popolare gruppo rock “Piknik” (Picnic), alle 20 ora locale.

Il 7 marzo scorso, l’ambasciata americana a Mosca aveva emesso un allarme di sicurezza, invitando gli americani a evitare luoghi affollati nella capitale russa per le prossime 48 ore in vista dei piani “imminenti” dei terroristi di prendere di mira grandi raduni, compresi i concerti. Diverse ambasciate occidentali hanno ripetuto gli avvertimenti. Martedì Putin ha denunciato questi avvertimenti come “dichiarazioni provocatorie” e “ricatti” volti a “destabilizzare” il Paese.

Secondo il New York Times, che normalmente funge da portavoce dei servizi segreti statunitensi, i funzionari statunitensi “avevano riferito in privato ai funzionari russi che i servizi segreti indicavano un attacco imminente”. Interrogato sull’avvertimento del 7 marzo lanciato dall’ambasciata americana, John Kirby coordinatore per le comunicazioni per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, ieri ha dichiarato: “Non penso che [l’avvertimento] fosse collegato a questo attacco specifico” [But I don’t think that was relatedto this specific attack].

Sarà stato anche un modo per levarsi dall’impiccio, ma è comunque una dichiarazione significativa, che ovviamente non servirà per coloro che alzano il ditino e sanno già tutto.

A febbraio, i servizi segreti russi, l’FSB, affermavano di aver smantellato una cellula dell’Isis a Kaluga, città a sud-ovest di Mosca, e di aver ucciso due membri dell’Isis provenienti dall’Asia centrale. All’inizio di marzo, l’FSB ha riferito di aver “liquidato” un’altra cellula dell’Isis nella regione di Kaluga, composta da militanti islamici provenienti dall’Afghanistan.

A Mosca si è sottovalutata la minaccia? V’è da dire che negli ultimi dieci anni si sono verificati anche diversi attacchi terroristici di matrice islamica, ma praticamente tutti hanno avuto luogo nel Caucaso settentrionale, a maggioranza musulmana.

Questa ondata di attacchi terroristici è avvenuta nel contesto di due guerre che il Cremlino ha condotto tra il 1994 e il 2009 contro la Cecenia e contro il movimento separatista islamico per impedire la separazione della repubblica del Caucaso settentrionale a maggioranza musulmana dalla Federazione Russa. Si stima che fino a un decimo della popolazione cecena sia stata uccisa in queste guerre.

Le forze separatiste cecene hanno goduto, quantomeno in passato, del sostegno statunitense che cercava di fomentare tensioni separatiste, etniche e religiose nel paese multinazionale, al fine di provocare la destabilizzazione e la disgregazione della Russia, in cui vivono circa 14 milioni di musulmani (quasi il 10% della popolazione).

È noto che i separatisti islamici del Caucaso settentrionale hanno stretti legami con al-Qaeda, ISIS e i talebani che governano l’Afghanistan dal ritiro delle truppe statunitensi nel 2021. Altri islamici radicali ceceni si sono uniti alle milizie islamiche, appoggiate dagli Stati Uniti, in guerra contro il governo Assad sostenuto dalla Russia nella guerra civile in Siria.

Gli stretti legami tra i separatisti islamici ceceni e vari gruppi fondamentalisti islamici in tutta l’Asia centrale e il Medio Oriente, molti dei quali hanno collegamenti con gli Stati Uniti, sono da molti anni una preoccupazione centrale del Cremlino. Nel 2021, il Wall Street Journal scriveva, senza essere smentito, che agenti dell’intelligence statunitense e truppe d’élite si stavano unendo allo Stato islamico-Khorasan, il gruppo che ora rivendica l’attentato di Mosca.

Che cosa ci sia dietro a questo attacco, ovvero chi manovra chi, non lo sapremo mai con certezza.

venerdì 22 marzo 2024

Siamo tutti russi (o quasi)

 

Mentre c’è chi disputa a torte in faccia se la Crimea sia russa o ucraina, Nature, la rivista scientifica che leggiamo tutte le sere prima di addormentarci, ha pubblicato recentemente quattro articoli che gettano nuova luce sull’origine dei nostri progenitori e altre facezie che indicano come lorigine genetica della sclerosi multipla, lAlzheimer e il diabete tipo 2 siano da ricercare presso una popolazione russa.

Gli europei moderni sono il risultato di tre ondate migratorie, la prima avvenuta circa 45.000 BP (Before Present) da parte di cacciatori-raccoglitori (HG) provenienti dall’Asia. La seconda ondata fu costituita da agricoltori neolitici in espansione dal Medio Oriente, circa 11.000 BP. L’ultima ondata migratoria, intorno 5.000 anni fa, era composta da pastori e allevatori provenienti dalla steppa del Ponto dall’Asia occidentale e dall’Europa orientale.

Le mescolanze furono anche molto più complicate, per esempio l’ascendenza dell’HG orientale (EHG) mostra un’ulteriore mescolanza con una fonte siberiana del Paleolitico superiore (Antico Nord Eurasiatico), eccetera.

Ciò che è importante sottolineare è come si sia giunti a questi risultati. I ricercatori hanno estratto e sequenziato il DNA di 317 antichi scheletri europei di età compresa tra 3.000 e 11.000 anni. Questi sono stati confrontati con un database esistente di 1.300 antiche sequenze genetiche eurasiatiche. In tal modo si è giunti a tracciare una mappa genetica dell’Eurasia, campionando le ossa e i denti di 5.000 esseri umani che vivevano in tutta la massa terrestre 34.000 anni fa. Il DNA antico estratto è stato confrontato con quello delle popolazioni moderne.

L’area di ricerca: Europa centrale, occidentale e settentrionale; Europa orientale, compresa Russia occidentale, Bielorussia e Ucraina; gli Urali e la Siberia occidentale.

Per esempio, si è scoperto che i pastori della steppa si dirigevano principalmente verso il nord Europa, mentre gli agricoltori del Medio Oriente si dirigevano verso sud e ovest. Nell’articolo Genomica delle popolazioni dell'Eurasia occidentale post-glaciale i ricercatori scrivono: «Cambiamenti ancestrali su larga scala si sono verificati nell’ovest quando è stata introdotta l’agricoltura, inclusa la sostituzione quasi totale dei cacciatori-raccoglitori in molte aree, mentre non si sono verificati cambiamenti sostanziali ancestrali a est della zona durante lo stesso periodo”.

Un cambiamento simile si verificò in tutta Europa quando la popolazione di cacciatori- raccoglitori precedentemente esistente fu sostituita dal popolo Yamnaya, che si diffuse nell’Eurasia occidentale circa 5.000 anni fa. Si pensa che il processo abbia avuto luogo nell’arco di un millennio.

Si suppone che il popolo Yamnaya abbia avuto origine in quello che oggi è il bacino del fiume Don, nella Russia occidentale. Sono diventati noti da uno scavo in un cimitero chiamato Golubaya Krinitsa nel 1903 con resti che i ricercatori ritengono risalgano a circa 7.300 anni fa.

Quando il popolo Yamnaya arrivò in Europa, si accoppiò con il popolo conosciuto come la cultura dell’anfora globulare dell’Europa orientale, nota per i suoi caratteristici vasi di ceramica a forma di cupola. La popolazione ibrida risultante, nota come Cultura della ceramica cordata (CWC), divenne dominante nell’area e poi migrò nel nord Europa (dal Reno al Volga,). La CWC “è considerata un probabile vettore per la diffusione di molte lingue indoeuropee in Europa e Asia” (Wikipedia).

Il titolo di un altro studio: Eventi preistorici potrebbero spiegare il rischio di sclerosi multipla in Europa. Curiosamente, la migrazione Yamnaya ha introdotto il gene associato alla sclerosi multipla (SM) nelle popolazioni del nord Europa. Gli europei del nord hanno il doppio dell’incidenza della SM rispetto agli europei del sud. Alcuni scienziati ritengono che la SM sia il risultato dell’infezione con il virus Epstein-Barr, ma altri ritengono che esista una base genetica per la malattia.

Quando ci capita qualcosa di cattivo è sempre più probabile che ci sia lo zampino dei russi.

Le nostre sono sacrosante sanzioni, le loro sono ritorsioni. Oh yes.


giovedì 21 marzo 2024

Oligarchie ed elezioni presidenziali

 

Il numero di miliardari negli Stati Uniti è aumentato da 614 a 737 negli ultimi quattro anni. La loro ricchezza complessiva è quasi raddoppiata, in crescita dell’88% nello stesso periodo, da 2.947 trilioni di dollari a 5.529 trilioni di dollari.

Il patrimonio di Steve Ballmer (Microsoft) e Larry Page e Sergey Brin di Google è più che raddoppiato. Bezos di Amazon ha riconquistato il suo status di uomo più ricco del mondo. Avrebbe anche raddoppiato se non fosse stato per un accordo di divorzio da 40 miliardi di dollari con l’ex moglie Mackenzie Scott (disperata e sola).

La Fed ha deciso di non apportare modifiche ai tassi di interesse nella riunione di ieri, ma le proiezioni nel cosiddetto “dot plot”, in cui i membri indicano dove pensano che andranno i tassi, indicano che il tasso 4,6% entro la fine dell’anno dovrebbe attestarsi al 4,6%, in calo rispetto al livello attuale compreso tra il 5,25 e il 5,5%.

I tre principali indici – S&P 500, Dow e NASDAQ – sono a livelli record per la prima volta da novembre 2021.

A novembre prossimo ci saranno le elezioni presidenziali, ossia la farsa delle elezioni. In lizza vi saranno sostanzialmente e come sempre due candidati appoggiati da due fazioni dell’oligarchia del denaro statunitense. Per far vincere i loro candidati, i partiti dominanti utilizzano tutti i mezzi consueti e possibili negli Stati che controllano, essendo un’elezione presidenziale americana una raccolta di schede locali nei 50 stati e nella capitale, e non uno scrutinio organizzato a livello nazionale (*).

L’antiquato meccanismo elettorale produce delle situazioni a dir poco inconcepibili al giorno d’oggi: nel 2000, il repubblicano George W. Bush fu eletto con 500.000 voti in meno del suo avversario Al Gore; nel 2016, Donald Trump fu eletto anche se la sua avversaria Hillary Clinton aveva tre milioni di voti popolari in più.

Altra aberrazione è data dal numero di elettori assegnati a ciascuno Stato, che non è strettamente rappresentativo della popolazione. La California riceve, ad esempio, 55 voti elettorali per 40 milioni di abitanti (1 voto ogni 730mila ab.), quando al Wyoming ne sono assegnati tre per meno di 600.000 abitanti.

Altra assurdità è data dalla regola del vincitore prende tutto: in 48 Stati, il candidato che ha ottenuto più voti popolari vince tutti gli elettori. Solo Nebraska e Maine distribuiscono i loro elettori secondo base proporzionale. Con questa regola teoricamente un candidato può essere eletto solo con il 23% dei voti popolari. Va da sé che la regola del “chi vince prende tutto” impedisce l’emergere di altri gruppi politici, troppo piccoli per ottenere la maggioranza dei voti e quindi un seggio.

Al Senato ogni Stato ha lo stesso numero di senatori (due) indipendentemente dalla sua popolazione, cosicché i 25 meno popolati, che rappresentano matematicamente la metà dei seggi al Senato, rappresentano solo il 16% della popolazione americana, e la maggior parte di loro sono repubblicani. Questo sistema va quindi chiaramente a svantaggio dei democratici, semmai significasse qualcosa per un sistema dominato dall’oligarchia del denaro.

L’insoddisfazione dell’elettorato per questo sistema di voto la si può apprezzare nelle cosiddette elezioni di medio termine, quando il presidente incarica, pur beneficiando di un elevato indice di popolarità pompato dai media e di un contesto economico positivo favorito dallo stampaggio a go-go di dollari, dal 1830 il partito al governo ha sistematicamente perso seggi al Congresso, con tre eccezioni spesso legate a periodi di crisi nazionali (nel Novecento la Grande Depressione e la crisi dei missili di Cuba).

Chissà quali commenti scatenerebbe un’eventuale vittoria di Putin se fosse eletto con lo stesso meccanismo elettorale americano in Russia. Sia chiaro (lo dico per eventuali idioti filoatlantici, che mi stanno tanto a cuore) che gli avversari di Putin erano solo delle macchiette, e del resto per motivazioni storiche e per la funzione sociale Putin è sorto e agisce innanzitutto come difensore dei privilegi dell’oligarchia russa.

Torniamo negli Stati Uniti. Un sondaggio dopo l’altro mostra che la “democrazia” è un argomento prioritario per la stragrande maggioranza degli statunitensi. Secondo uno studio dell’Associated Press, è la loro più grande preoccupazione, seconda solo all’economia. Anche il Gallup Institute ritiene che le questioni legate alla democrazia siano il problema non economico più spesso menzionato dagli americani. Secondo l’Associated Press, solo il 10% degli americani ritiene che la propria democrazia funzioni bene.

Secondo Gallup, che ha osservato la tendenza al ribasso di questo indice dal 1979, ben prima dell’avvento dei social network o di Donald Trump, la fiducia degli americani nella presidenza, nel Congresso, nella Corte suprema, nella giustizia penale e nei cosiddetti media tradizionali (intesi come mezzi di stampa e canali di informazione televisiva) ha raggiunto il livello più basso nel 2022 e nel 2023.

(*) Ogni partito dominante agisce per contrastare la concorrenza interna, cioè i rivali di Biden o Trump alle primarie. Trump boicotta così i dibattiti televisivi tra i suoi rivali per la nomination repubblicana. Biden, come il suo predecessore nel 2020, rifiuta qualsiasi dibattito con gli altri candidati per la nomina del suo partito. Marianne Williamson, Dean Phillips e gli altri suoi concorrenti democratici sono addirittura esclusi dalle votazioni per le primarie in Florida, Tennessee, North Carolina e Massachusetts. Con l’aiuto dei notabili del partito, Biden ha cambiato l’ordine delle primarie ritardando quella dell’Iowa e minando l’importanza di quella del New Hampshire, due stati dove aveva subito amari fallimenti nel 2020. Biden ha inoltre autorizzato i Super Political Action Committees, strumenti opachi di influenza degli ambienti economici sulle elezioni, per finanziare le primarie, contro il parere di Bernie Sanders, dell’ala sinistra del partito. Eccetera.

mercoledì 20 marzo 2024

La nostra aria


Sapete chi costa troppo alla società? La sanità, la scuola, l’assistenza, le pensioni? Dunque gli insegnanti che si prendono cura dei nostri figli, medici e infermieri che si prendono cura di noi, ...?

I padroni e i loro manager. Provate a sommare (se ci riuscite!) i proventi degli azionisti e gli stipendi dei capi e capetti e avrete un’idea del maltolto alla società da parte di questi parassiti.

Tutto ciò che è proprietà privata è un onere per la società. Del resto i servizi pubblici vengono forniti, in media, a un costo inferiore rispetto ai loro equivalenti privati e sono mediamente di qualità superiore (i servizi pubblici in diverse regioni sono deficienti, ma questo è un altro tema). Lo vediamo nella nostra vita quotidiana nel campo della sanità, dell’istruzione o dei trasporti. Le ragioni sono semplici: un servizio pubblico non deve pagare per farsi pubblicità; non paga stipendi stratosferici ai propri manager; non genera profitti; gli stipendi che paga ai suoi dipendenti sono (purtroppo) bassi.

Questo è il vero motivo per cui si fa di tutto per sabotare i servizi pubblici, per metterli in cattiva luce e passarli al privato. Basti pensare a cosa è successo e sta ancora accadendo per quanto riguarda la privatizzazione dell’acqua, dei rifiuti, il cosiddetto libero mercato dell’energia, ecc.. Per non parlare delle banche.

Quando apprendiamo che un filibustiere del settore privato riceve decine di milioni di euro l’anno, non è, per esempio, Stellantis che paga. Quello è il nome ridicolo di un impero automobilistico, ma a pagare non è quella multinazionale, sebbene firmi l’assegno, ma siamo noi quando acquistiamo un’auto o un altro bene. Non solo, a pagare sono gli operai che producono quelle auto, ai quali viene estorto, cioè non pagato nei salari, il cosiddetto valore aggiunto.

In ogni nostro acquisto, dallo yogurt all’auto passando per il frigorifero, siamo costretti a pagare la pubblicità che odiamo, i compensi indecenti degli amministratori delegati, i vergognosi dividendi degli azionisti e tante altre inutilità. Tra queste inutilità anche i giornalisti servi. Mentre il “pubblico” diminuisce, siamo costretti, come consumatori, a contribuire a questo sistema che ce lo mette in culo quotidianamente.

Pertanto, il problema non è solo chi non paga le tasse o ne paga troppo poche rispetto al suo reddito. Il problema è chi ci viene a raccontare, con la dissimulata malevolenza che li anima, che “la spesa pubblica costa troppo”. Questo genere di farabutti non avrebbero motivo e diritto di esistere. Eppure li tolleriamo, ne condividiamo perfino le idee, e soprattutto li manteniamo. Ci lamentiamo, brontoliamo, ma non facciamo nulla per impedire loro di continuare a respirare la nostra aria. 

martedì 19 marzo 2024

Non siamo un colore

 

Che differenza c’è tra chiamare una persona “negro” e chiamarla invece “nero”? Vero è che la parola negro ha assunto, nel tempo, una connotazione dispregiativa, tuttavia non mi pare che indicare l’essenza di una persona (“nero”) legandola alla colorazione del corpo sia un passo avanti. Il “colorismo” è pur sempre un tratto di razzismo. Un cinese non sarebbe sicuramente contento se fosse indicato come “giallo”.

Negli Stati Uniti, la nozione di “colore” ha potuto fungere, e in parte non marginale ancora oggi, da gerarchia sociale interna. Ma non solo negli Stati Uniti, lo vediamo bene anche in Europa a seguito delle migrazioni di massa. Non dimentichiamoci poi dell’India: più pronunciato è il colore della pelle, più determinato sarà il tuo posto nella società. Esistono quindi diversi livelli di gerarchia per colore e non si capisce nulla se non si integrano queste nozioni.

Siamo nell’ambito degli stereotipi e dei retaggi, delle costruzioni storico-sociali che hanno plasmato e modellano ancora i nostri valori, ne influenzano le modalità di rappresentazione. È come un sistema pubblicitario in termini di vocabolario: la rappresentazione di un colore corrisponde a un messaggio. Pensiamo al fatto che una persona nera è una “persona di colore” e la persona bianca non lo è. Persona di colore è un eufemismo per dire “nero”, ma una “negretta” che faceva da scaldaletto a Montanelli non scandalizzava nessuno.

Non mi sorprende che ci possano essere differenze di sensibilità (autentica o solo simulata) nell’approccio a questa questione e divergenze nel modo di affrontarla. Sento già odore di polemica se dico che il noto calciatore, che domenica ha dato del “negro” a un suo collega, in fin dei conti ha usato uno stereotipo per offendere una persona. Nei campi di calcio e di rugby se ne dicono anche di peggio. Non assolvo quello sciocco che merita sanzione, ma non esageriamo, non sentiamoci chiamati a prendere una posizione categorica.

Nell’ipocrisia di un’infinità di stereotipi ci sguazziamo tutti, volenti e nolenti. Nessuno, né intellettualmente né moralmente, ha il diritto di assumere la postura di supremo giudice. Dobbiamo prendere atto, senza giustificare, di una società che continua ad operare secondo una griglia razziale in fenomeni di gerarchizzazione e discriminazione.

lunedì 18 marzo 2024

Quando bruciarono Canzonissima

 

Ogni società costruisce le sue verità e coltiva le più grandi bugie perché servono alla sua leggenda e alla sua memoria collettiva. Nella nostra società, che ci invita alla trasparenza, alla correttezza, che ci informa in tempo reale su tutto ciò che accade nel mondo, assistiamo, allo stesso tempo, al più grande sforzo manipolativo della storia, alla diffusione di menzogne e dell’uso politico dei “misteri”.

Esempio di manipolazione molto attuale: consideriamo del tutto lecito e normale che milioni di coloni emigrino in una terra scacciandone ai margini la popolazione autoctona. Con il pretesto che quella terra era la loro un paio di millenni prima! E prima ancora di chi era quella terra? Siamo interessati al passato solo se è favorevole alle nostre tesi.

Lo spettacolo è dato dalla troppa memoria per certi fatti, che significa il troppo dimenticarne altri. L’influenza delle commemorazioni e degli abusi della memoria (il fenomeno del “recupero”). In questo gioco del ricordo e dell’oblio, quali sono le parti della verità e quelle della menzogna? Se non proprio della menzogna, della manipolazione?

Bisognerebbe poi parlare dell’uso strumentale delle immagini, della loro scelta interessata. Chi raccoglie le immagini può presentarle come desidera, includendo oppure escludendo. E commentarle in un modo o in un altro. I documentari storici sono davvero bravi a mentire, ancora di più oggi, nell’era della tecnologia digitale, delle immagini generate al computer, degli effetti speciali e dei trucchi di ogni genere.

Anche la distruzione e manipolazione degli archivi è una realtà ben nota. In questo gioco si sono addirittura superati fino a distruggere degli archivi e di ricreare dei falsi. La Rai di Ettore Bernabei aveva segretamente distrutto i filmati sull’autunno caldo del 1969. Al macero erano finite milioni di immagini che documentavano un capitolo di storia dell’Italia contemporanea: le aspre vertenze per i rinnovi contrattuali, la mobilitazione e le lotte dei lavoratori del nord industriale e del sud agricolo, la resistenza degli industriali, i primi sanguinosi successi degli strateghi della tensione, le bombe di Stato, l’arresto di Valpreda, la recrudescenza tragica e feroce dei fascisti, gli scontri tra dimostranti e polizia, la criminalizzazione dell’antagonismo sociale.

È in nel contesto politico e sociale di quel regime, quello delle stragi e delle ombre golpiste, che la violenza politica, veniva percepita da molti come inevitabile (nessuno dell’area della nuova sinistra la escludeva a priori) e diventava una risorsa legittima. Lo stesso Pci venne a convincersi che non si potesse più salire al governo, divenendo maggioranza alle elezioni, senza prima allearsi con quello stesso partito-regime.

Andarono distrutte perfino le Canzonissima di Dario Fo e Franca Rame, per dire di quel regime che si paludava come democratico. Era l’ottobre del 1975 quando fu eseguito l’ordine. Un rogo in piena regola. Il Partito comunista di Berlinguer si accordava con quella razza di porci, con quel regime corrotto e stragista. In definitiva avevano in comune lo stesso fine, tacito o esplicito: mantenere perpetuare il potere della borghesia.

Ancora una volta, l’ultima, fu Moro a ricomporre le contraddizioni strutturali interne tra borghesia di Stato e privata, mediandole anche a livello internazionale (checché ne dicano gli idioti, gli storci da birreria e altre bestie interessate). Sotto interrogatorio Moro dichiarava:

«Di fronte a molteplici richieste circa gli assetti economico-sociali dell’Europa di domani, ed in essa dell’Italia, devo dire onestamente che quello che si ha di mira è il ringiovanimento su base tecnocratica del modo di produzione capitalistico, ovviamente temperato dalle moderne tecniche razionalizzatrici e con opportuna consistenza di piccole e medie imprese e di botteghe artigianali. Ma il nerbo della nuova economia, assunto con convinzione di efficienza, è l’imprenditorialità privata ed anche pubblica con opportuna divisione del lavoro. Questo modo di essere dell’Europa strettamente legata all’America e da essa condizionata, non varia col mutare in generale degli assetti interni dei vari paesi, come si riscontra nella fiducia parimenti accordata a governi laburisti e conservatori in Inghilterra, come a governi socialdemocratici o democristiani nella RFT. Anzi, qualche volta il maggior favore è andato alle forme socialdemocratiche nell’affermarsi di un’idea logica di fondo, produttivistica e tecnocratica mitteleuropea. È noto come questo indirizzo è questo spirito siano coltivati da libere organizzazioni para governative come la nota Trilateral.»

Non deve stupire che il Partito comunista si adoperasse di fare apparire coincidenti gli interessi della classe che nominalmente diceva di rappresentare con quelli dell’intera struttura sociale. Fu un vero e proprio salto di qualità, che vide il Pci assumere progressivamente alla sua funzione di partito della classe lavoratrice quella di effettivo partito degli imprenditori e della borghesia.

Da quel momento si corresponsabilizza il Pci nella gestione della ristrutturazione imperialista in atto, affidandogli l’ambizioso compito di controllare le spinte della classe operaia e di incanalarle all’interno delle istituzioni. Bastò un anno e otto giorni di governo per far uscire la borghesia e la Democrazia cristiana dall’impasse. Si aprì una nuova fase, l’ultima stagione della prima repubblica, che durò dieci anni.

Il progetto di Moro è stato il massimo storicamente possibile per la borghesia. Esso teneva conto di tutto ciò che questa è in grado di capire e controllare, mirando essenzialmente alla ricomposizione dell’unità della borghesia e del quadro istituzionale.

A distanza di anni ci ritroviamo con i fascisti al governo, che possono rifarsi una verginità addossando il “male” al comunismo e al marxismo. La damnatio serve a questo, a cancellare dalla memoria gli anni delle bombe e delle stragi. Anche a giustificare i manganelli odierni, mentre dei responsabili delle stragi dei depistaggi nessuno si ricorda più. Come per esempio di Franco Freda, il quale vive tranquillamente quello che gli resta della sua esistenza ignorato, dimenticato, senza che nessuno gli ricordi quello che è stato.