martedì 6 agosto 2024

La bomba

 

«Se l’avessi saputo, non avrei firmato quella lettera»

Nel settembre 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti contavano un minimo di 190.000 uomini delle forze armate, spalleggiati da una guardia nazionale di 200.000 uomini.

Nell’ottobre 1940, l’ammiraglio Harold Stark, capo di S.M. della Marina, e il segretario della marina Frank Knox, ebbero conversazioni importanti che si conclusero, d’intesa con il generale George Marshall, capo di S.M. generale dell’esercito, con un progetto conosciuto con il nome di Piano Dog (nov. 1940). Questo piano prevedeva che lo sforzo massimo, in caso di guerra, fosse rivolto direttamente e compattamente contro la Germania, mentre contro il Giappone ci si sarebbe accontentati di operazioni relativamente limitate. Questa doveva rimanere la teoria americana durante tutta la guerra.

Per quanto riguarda la forza aerea, al 1° settembre 1939, il totale della produzione degli Stati Uniti non raggiungeva neanche i 1000 velivoli al mese (ne erano stati forniti 1600 alla Gran Bretagna, la quale ne aveva ordinati all’industria americana altri 12.000 da aggiungere ai 14.000 già ordinati in precedenza). Nel 1940-’41, i grandi stanziamenti della legge degli affitti e prestiti (Lend-Lease Act) avevano stimolato enormemente la produzione bellica. Già oltre sei milioni di lavoratori erano stati aggiunti e la disoccupazione di massa era una cosa del passato.

Tuttavia, gli operai, durante i sei mesi che precedettero Pearl Harbor, moltiplicarono gli scioperi. Ve ne fu uno molto duro, nel novembre 1941, condotto da John L. Lewis, che paralizzò le miniere di carbone. Solamente la guerra avrebbe potuto mettere fine a questi “disordini”, alle esitazioni dell’opinione pubblica e alle reticenze politiche verso l’entrata nel conflitto.

Il 27 maggio 1941, il presidente Roosevelt aveva proclamato lo “stato di emergenza nazionale illimitato”. Il servizio militare aveva fornito 1.600.000 uomini; il programma di preparazione degli ufficiali era sulla buona strada, con oltre 100.000 già promossi; venti scuole stavano addestrando per l’artiglieria, alla guerra chimica, alla difesa corazzata e contraerei e ad altri rami specialistici. Oltre 900.000 avevano partecipato a manovre campali nella Carolina e nella Lousiana.

Nel luglio 1941, su richiesta di Roosevelt, i capi militari responsabili misero a punto un programma generale che prese il nome di Victory Program. Si pianificò la mobilitazione di 8.795.000 uomini – 215 divisioni – dei quali 200.000 per l’aviazione, 5.000.000 sarebbero stati trasportati oltremare, impegnando simultaneamente 2500 navi al massimo. Secondo quanto indicato da Roosevelt nel suo messaggio al Congresso nel gennaio 1942, si sarebbero costruiti 60.000 aeroplani nel 1942 e 125.000 nel 1943, 45.000 carri armati nel 1942 e 75.000 nel 1943, otto milioni di tonnellate di navi mercantili e poi dieci milioni, ecc. (Morison e Commager, St. degli S.U. d’A., vol. II, p. 928). Alla fine della guerra, erano arruolati nella marina, nella guardia costiera e nelle truppe da sbarco oltre quattro milioni di uomini e donne, facendo diventare la marina statunitense la più potente di tutte le marine del mondo riunite.

La sola aeronautica militare doveva addestrare 75.000 piloti e 80.000 artiglieri all’anno, oltre a formare centinaia di migliaia di tecnici e amministratori. Per quanto riguarda la marina militare, essa aveva avuto una mentalità aeronautica fin dal 1919, quando si accinse a fornire alla flotta un’adeguata arma aerea, composta non solo di veicoli di tipo Catalina, ma di caccia, di bombardieri da picchiata e di aerosiluranti che avevano per base dapprima delle chiatte e poi delle portaerei, di cui cinque grandi erano state terminate prima della guerra.

Le spese statali salirono da 13,1 miliardi di dollari nel 1939 a 71,3 miliardi nel 1944. Gli introiti dello Stato aumentarono di sette volte grazie soprattutto l’imposta sul reddito, ed il debito pubblico aumentò di 236 miliardi di dollari, senza che vi fosse bisogno di offrire dei tassi di interesse superiori al 3%. Così, progressivamente, e non senza contraccolpi, l’immensa macchina da guerra fu messa in movimento.

Questi preparativi di riarmo e di guerra incipiente avvenivano con l’approvazione del Congresso e su mandato di Roosevelt, in barba alle sue promesse elettorali di non intervento nel conflitto in atto. Per quanto riguarda il Pacifico e l’Oriente, non si trattava semplicemente della lotta tra la democrazia e il dispotismo, dunque tra due modelli sociali e politici, bensì dello scontra tra gli interessi di due imperialismi. L’uno improntato al liberalismo e alla sua simulazione democratica, l’altro sull’aperto dispotismo di classe e l’esaltazione nazionalistica, e tuttavia entrambi convergenti per quanto riguarda la sostanza dei rapporti di produzione (cambiano le forme del dominio di classe, non la sostanza, per quanto le forme abbiano una loro indubbia rilevanza sociale).

Si era determinato il contesto per la guerra, mancava il pretesto. Il Giappone si trovava a regolare due questioni essenziali: quella di ottenere dalle Indie olandesi gran parte delle materie prime di cui Giappone aveva bisogno, l’altra di tagliare le vie di rifornimento a Ciang Kai Scek e metter fine alla guerra sino-giapponese che teneva impegnati centinaia di migliaia di uomini e ingenti quantità di mezzi e materiali.

Intanto, Tokyo aveva firmato il 13 aprile 1941 il trattato di non aggressione con l’Urss. La flotta giapponese avrebbe dovuto proteggere gli enormi ed incessanti convogli verso tutte le isole e penisole. In tal modo, dal 1940 a luglio 1941, il Giappone non adottò che progressivamente e con esitazione i provvedimenti atti a realizzare la sua politica sud orientale.

Èè del 2 luglio il National Defense Act, votato dal Congresso americano, che mise Roosevelt nella possibilità di porre sotto licenze le esportazioni verso il Giappone. Il 21 luglio, i fondi giapponesi negli Usa vennero “congelati”, ciò che permise a Washington di dosare gli acquisti giapponesi.

È vero che tra questi materiali non figuravano ancora né il petrolio né i rottami di ferro dei quali il Giappone aveva urgente bisogno, ma già il 25 luglio queste due risorse strategiche entrarono nella lista dei prodotti sottoposti a licenza e dunque ad embargo (effettivo dal 25 settembre 1941). L’ammiraglio Yamamoto preparava già da gennaio i piani per un attacco contro Pearl Harbor.

Il mattino del 7 dicembre, ora di Washington, veniva decifrata una nota giapponese così concepita:

«Il governo giapponese è spiacente di dover informare il governo americano che, a causa dell’atteggiamento di quest’ultimo, egli non può che constatare l’impossibilità di raggiungere un accordo mediante la continuazione delle trattative».

La guerra nipponico-americana si può dividere in tre fasi principali. Quella delle folgoranti fulminee vittorie dei nipponici, da Pearl Harbor all’aprile 1942 (i nipponici avevano, tra l’altro, stabilito al Sud una linea di basi nella Nuova Guinea e nella Nuova Bretagna), seguita da una fase di equilibrio fino all’autunno 1943 (da parte degli Stati Uniti il problema fu quello di resistere in attesa di preparare i mezzi per la controffensiva); quindi la terza fase, quella della gigantesca controffensiva statunitense nell’Oceano Pacifico, la cui causa profonda non fu altro che la vittoria dell’industria americana su quella giapponese.

L’arrivo e il dispiegamento, nella primavera del 1943, di diverse portaerei e di altre unità navali di “nuova generazione”, cambiò le sorti della guerra nel Pacifico. Alle portaerei si aggiunsero tutti i mezzi logistici la cui mancanza era stata così penosamente risentita nei primi mesi di guerra. Nell’estate del 1943 si videro apparire le prime chiatte da sbarco per la fanteria e i carri armati. Nell’autunno 1943, l’ammiraglio Nimitz, comandante in capo del Pacifico centrale, disponeva di una possente flotta d’attacco, di mezzi logistici soddisfacenti e di 9 divisioni. Il generale Mac Arthur, comandante in capo del sud Pacifico, disponeva di 4 divisioni americane e di 6 divisioni australiane.

Vi è da notare che, nonostante questo enorme dispiegamento di forze, solo il 15% delle risorse degli alleati erano utilizzate nel Pacifico, mentre l’85% era destinato contro la Germania.

La controffensiva dell’amm. Nimitz fu diretta contro le isole Gilbert, Caroline, Marianne, Bonin e poi contro l’arco delle isole Ryukyu a sud del Giappone, e quella del gen. Mac Arthur nel Pacifico meridionale, tendente a riconquistare tutta la Nuova Guinea e l’arcipelago delle Filippine, partendo dalle isole Salomone e dall’Australia. Aveva ai suoi ordini la VII flotta dell’ammiraglio Kinkaid.

Nel febbraio 1944, il comandante della V flotta, ammiraglio, Spruance, lanciò di sorpresa un attacco aereo navale sulla grande base giapponese di Truk (oggi Chuuk), nelle Caroline. Fu una Pearl Harbor al contrario, le perdite nipponiche furono enormi.

I giapponesi, per i quali le Filippine rappresentavano un caposaldo irrinunciabile, decisero immediatamente di giocare il tutto per tutto: inviarono in gran fretta tre squadre, che furono intercettate l’una dopo l’altra e distrutte. Non era la fine della marina giapponese, ma questa si vedeva ormai ridotta quasi esclusivamente a piccole unità, ed era andata distrutta anche gran parte dell’aeronautica nipponica. Anche gli americani registrarono perdite di portaerei e altre imbarcazioni, ma la superiorità navale degli Stati Uniti era ormai incontestabile.

Il 9 gennaio 1945 gli americani sbarcarono a Locon, protetti da una formidabile concentrazione di 850 navi, a totale sorpresa dei nipponici. Manila cade il 23 febbraio. Le tappe seguenti furono la conquista di Iwo Jima nelle isole Bonin, la “Gibilterra giapponese”, poi Okinawa. Il Giappone era ormai bombardato quotidianamente.

Tutto porta a credere che nel 1945, e anche prima, i governanti nipponici avessero ben chiaro che la situazione era disperata. Disponevano ancora di grandi eserciti praticamente intatti, con riserve ancora non mobilitate, dotati di armamento moderno e vasto approvvigionamento. L’esercito della Manciuria contava 800.000 uomini; quello della Cina circa 1.000.000 e quello del Giappone propriamente detto 1.150.000 uomini. Nelle isole e nei territori lontani (solo alcune singole isole degli arcipelaghi erano state conquistate dagli Usa), il Giappone poteva ancora contare in centinaia di migliaia di uomini (J.B. Duroselle, St. diplomatica, 1919-1970, p. 383).

Tuttavia la flotta era stata praticamente distrutta e la flotta americana poteva operare in prossimità delle coste giapponesi e bombardarle. L’aviazione giapponese mancava di piloti e aveva subito delle perdite che l’industria non era in grado di ricolmare, sia per la crescente penuria delle materie prime e sia perché i bombardamenti americani aumentavano di intensità.

Il generale Mac Arthur, che in aprile era stato nominato comandante in capo delle forze terrestri americane per tutto il Pacifico, si predisponeva a un prossimo sbarco in territorio nipponico (isola Kyusciu). I gerarchi di Tokyo avevano davanti a loro questa opzione: una lunga disperata guerra che avrebbe annientato completamente il Giappone, oppure una capitolazione che salvasse almeno l’imperatore.

A differenza della Germania, fu scelta questa seconda strada, in attesa che si presentasse un’occasione. Questa occasione fu fornita da due avvenimenti. Il primo avvenne il 6 agosto con un seguito tre giorni dopo. Il secondo, l’8 agosto. Come concordato con gli altri alleati, l’Urss entrò in guerra con il Giappone. Non penso Stalin abbia accolto volentieri le notizie che gli provenivano in quei giorni.

Tokio ignorava l’accordo segreto di Yalta e le promesse fatte a Stalin da Harry Hopkins, il braccio destro di Roosevelt, in occasione del suo viaggio a Mosca. Ad ogni modo, il 10 agosto Tokio annunciava che il Giappone era pronto a capitolare. Terminava la seconda guerra mondiale (1939-1945) e si apriva la Guerra Fredda (1945-1989).

Ai primi di agosto del 1939, Albert Einstein aveva firmato la famosa lettera a Franklin Roosevelt (la lettera era stata scritta da due colleghi dello scienziato), che verrà consegnata al Presidente da Alexander Sachs, però solo al “momento opportuno”, ossia il 12 ottobre 1939.


2 commenti:

  1. https://www.officinadeisaperi.it/eventi/le-bombe-su-hiroshima-e-nagasaki-non-erano-necessarie-per-la-resa-del-giappone-da-il-manifesto/

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  2. I suoi post storici sono sempre fra i miei preferiti.
    Grazie.

    Dario

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