mercoledì 28 agosto 2024

L’interesse dello Stato!

 

Servono soldi? Passa alla cassa! Le casse dello Stato sono vuote? Taglia la spesa sociale! Per esempio, nuove finestre per le pensioni; nuovi tagli alle rivalutazioni delle pensioni stesse; eccetera. Il resto del tempo, chi governa lo passa in chiacchiere, previsioni strampalate, beghe politiche, a ricevere inchini e salamelecchi. Sotto scorta e resort di lusso.

Ti chiedi a che cosa serve la tua sovranità, se non puoi usarla? Loro ti rispondono: la democrazia rappresentativa esiste per evitare di mettere in discussione il sistema, l’interesse dello Stato, minacciato dal fatto che il popolo abuserebbe dei suoi diritti, che non è intelligente, che non capisce niente di politica, di economia e finanza.

L’interesse dello Stato! E da qui che deriva tutto lo scorbuto morale che affligge le nostre società. Credere che l’interesse dello Stato sia l’interesse di tutti. Spalmato come la Nutella.

martedì 27 agosto 2024

"La Russia non vincerà"

 

Ecco a cosa punta Biden e altri sanguinari come lui. Che ci vadano di mezzo milioni di persone in questa guerra assurda più di altre, non importa loro assolutamente nulla. Loro sono dalla parte della ragione e ciò basta. È un’altra volta la lotta del bene contro il male. Non importa quanto male comporti questo preteso bene perseguito con determinazione ostinata e armata.

Stiamo assistendo alla rinascita del fascismo, all’utilizzo del genocidio come strumento di politica statale e all’escalation dei conflitti militari verso una terza guerra mondiale nucleare. E la colpa di tutto ciò è sempre degli “altri”. Tutto ciò nel quadro di un capitalismo infantile e morboso. La cosa meravigliosa della crisi di questo sistema è che ci permette di chiamare le cose con il loro nome: il mercato non è altro che capitalismo.

In tutto questo bailamme mediatico la cosa che si tende a nascondere di più è la lotta di classe. Come, non c’è più? Ce lo fanno credere le consumate dichiarazioni dei politicanti, ma in Italia e anche altrove il debito finanziario contro il debito sociale è una questione di classe contro classe. Lo vedremo ancor meglio e una volta di più con i prossimi documenti economici, col fare cassa tagliando ciò che resta dello stato sociale. Chi parla dell’insostenibilità della spesa sociale, adducendo vari motivi, è solo uno spregevole infame. Tirano in ballo la demografia, che è un problema reale, ma tacciono sul fatto che gran parte della ricchezza sociale prodotta è appannaggio di una sparuta minoranza di speculatori. E questa ricchezza, meglio ripartita (chiaro che il capitalismo non è  solo un problema di distribuzione e allocazione delle risorse), risolverebbe molti problemi.

Basta vedere con quale avidità unita a spaventato servilismo politici ed economisti pronunciano “i mercati”, come se fossero divinità superiori con i quali ci deve comportarsi bene. Ed effettivamente sono i detentori di capitale finanziario a comandare la società, divinità superiori, impositori di ordini, il cui obiettivo è far crescere il loro capitale. Del resto è la legge dell’accumulazione, come processo naturale, che lo impone. Lo scopo è guadagnare di più, tutto qui. Come il cancro, il capitalismo vive solo di metastasi: sopravvive solo trasformando in denaro tutto ciò che tocca.

Di tutto il resto, non importa nulla. Per trent’anni il capitale è riuscito a disperdere la produttività del lavoro esternalizzando. La deindustrializzazione deriva dagli aumenti di produttività imposti al lavoro per garantire rendimenti sul capitale del 10, 15 o 20 e più per cento.

Basta vedere la Germania, quale esempio tra tutti: la strategia tedesca in Cina si è rivelata per lungo tempo molto redditizia, facendo di questo Paese il suo primo sbocco. Passano pochi lustri e la Germania, con una popolazione del 6% rispetto a quella cinese, risulta economicamente invischiata con la Cina a tal punto che esporta più del doppio rispetto a dieci anni fa. Le sue esportazioni sono più del doppio di quelle di Francia, Regno Unito e Italia. La creazione o l’acquisizione di aziende teutoniche in Cina, quelli che si chiamiamo “investimenti esteri diretti”, sono più importanti del totale degli altri 26 paesi membri dell’UE. Tutto bene, dunque?

Se non è una follia questa, ditemi che cos’è. Bosch, BASF e Volkswagen investono decine di miliardi in Cina, ma chiudono le loro fabbriche nella madrepatria. Non solo, per le aziende tedesche in Cina è sempre più difficile rimpatriare i propri profitti, che sono obbligate a reinvestire localmente. Dunque la questione centrale, anche in questo secolo è quella di

sempre: il capitalismo. Ma chi ha più voglia e interesse a discutere di questo, di mettere in chiaro che la questione delle questioni è e resta proprio questa?

lunedì 26 agosto 2024

Una questione democratica

 

Ascoltare un bel rumore continuo, fatto di silenzio. Ascoltare ciò che si sente quando non si sente nulla. Ma il silenzio non è il nulla, è la percezione del sottile, ci apre il mondo sconosciuto dei rumori infinitamente piccoli, ma a volte anche fastidiosi. Perché gli uccelli, le rane e gli insetti fanno così tanto rumore? Beh, come tutti noi: soprattutto per scopare. Nel linguaggio scientifico si dice attrarre il partner sessuale. Perché in campagna non proporre una petizione contro il gracidio delle rane, il frinire delle cicale, oppure, su a Fiera di Primiero, per vietare i campanacci alle mucche alle prime luci dell’alba?

L’assenza di rumore può essere assolutamente deliziosa o profondamente inquietante, dipende. Il silenzio di Proust nella camera da letto di zia Léonie, per esempio. Il silenzio non è solo fonte di piacere, è anche una questione di salute. Perciò almeno ogni tanto è salutare allontanarci dal rumore di fondo delle intrusioni umane, ma anche da quelle bestiali, dunque specie anche quelle della cosiddetta “informazione” (la cosa brutta del suo rumore è che arriva ovunque).

In effetti, ci sono silenzi buoni e cattivi. Se da un lato l’assenza di rumore procura benessere, dall’altro il silenzio può rivelare ben altro. Durante la reclusione per il Covid, alcuni hanno trovato il silenzio angosciante. È una questione di equilibrio.

Poi, alle 4,30 del mattino si sente il rumore di aerei o di macchine agricole, alle cinque in punto si avvicina minaccioso e rombante come un razzo impazzito il camion della nettezza (?) urbana e l’incanto svanisce. Del resto, qualcuno gli scarti del nostro benessere li deve pur raccogliere. Quindi i preti con le loro campane, come se non fossero stati ancora inventati gli orologi.

Il diritto al silenzio come questione democratica è uno dei messaggi di cui potrebbe farsi promotrice la sinistra, per esempio. Esiste la segregazione sonora: rumore per i poveri, silenzio per i ricchi. Dunque anche questa una questione che rientra nel novero di diritti civili. Tanto, di che altro ha da occuparsi la sinistra?


sabato 24 agosto 2024

Esiste ancora un luogo ...?

 

È davvero possibile essere liberi oggi? Fino a che punto puoi spingere l’idea di libertà nella tua vita? Che cosa facciamo veramente della nostra vita? Non è intessuta di vincoli di ogni tipo? Possiamo vivere assolutamente liberi, distaccati da tutto, aperti a ciò che viene? In realtà siamo tutti delle finzioni viventi.

Era il primissimo autunno, il cielo era ancora bianco e caldo. Nel 1966, la città non era ancora gentrificata. Una città operaia, laboriosa, che ammiravo; ho sonnecchiato al sole, con la mente concentrata, su una panchina della Bissuola. Andavo al cinemino di Carpenedo, costava poco, solo 200lire, ma per me significava qualche altra rinuncia. Splendore della povertà, che non era ancora diventata la miseria del nostro odierno benessere.

Per tutta la giornata non facevo altro che annotare i dettagli, lo scorrere dei colori, dei volti. Avevo la sensazione di essere alla fine di un mondo antico, liberato, aperto, sull’orlo di una calma estasi. Non avevo di me la più pallida idea di utilità. Ero un essere crudo, come si può esserlo a quell’età, mi sentivo trasparente. Non fare altro che essere disponibile all’emozione di un luogo, non è forse il lato migliore di quell’età, di cui sento ancora l’influsso benefico a distanza di quasi sessant'anni? Guardavo, ascoltavo, immaginavo: la città cresceva dentro di me come un paesaggio interiore. Stavo diventando come uno dei suoi abitanti.

Già vent’anni dopo, non la riconoscevo più. Figuriamoci oggi, che la città è totalmente un’altra cosa. Urbanisticamente, sociologicamente, antropologicamente. Ci hanno imposto un’altra narrazione delle cose e della vita in generale. Esiste un luogo, nel mondo, dove la distruzione non ha preso piede, dove non ha preso il posto dei vivi trasformandoli in spettri, dove si resiste ancora ai promotori della furia planetaria del “mercato”, alias del capitalismo più rapinoso e sfacciato?

mercoledì 21 agosto 2024

La felicità segreta del tempo

 

Mi pare fosse Marco Aurelio a dire: “Devi vivere tutto come se lo stessi rivivendo”. Mi capita sempre più spesso, specie con gli odori. Sono come l’indizio di una possibilità che non sempre è diventata realtà.

Era un vecchio sogno: volevo vederle, finalmente, le tombe che gli Etruschi scavarono nella roccia, non lontano dal Mar Tirreno. Dipingevano l’interno delle loro tombe affinché i morti potessero continuare a banchettare e la continuità tra la vita e la morte non fosse altro che un unico bagliore blu.

Non esistono affreschi così delicati, così felici. Ciò che è dipinto sulle pareti di queste morbide nicchie di stucco sono feste con danzatori dalla pelle vermiglia che si muovono tra gli ulivi, calzando sandali pregiati; altri soffiano nel doppio flauto. Il vino scorre liberamente. Le coppie, sdraiate sui letti della festa, alzano le coppe e si sorridono. Questo è importante: gli Etruschi sorridono. Il loro sorriso, quando condiviso, è la firma della vita più vibrante.

Ci offrono una verità sul mondo con una semplicità che ci è sconosciuta. Gli Etruschi ci invitano nel luminoso mondo della passione. Vivere è essere ardenti: l’esistenza è un banchetto scarlatto e azzurro dove gioia e malinconia si armonizzano. Il piacere è straziante: questi cavallini che non possiamo più vedere, questi delfini, leopardi e cervi maculati, questi uccelli azzurri che svolazzano come anime che godono.

Penso che anche la loro servitù domestica fosse più felice di quella odierna. Che viene tassata anche sulle mance.


giovedì 8 agosto 2024

Una medaglia per Netanyahu

 

Ti sfrecciano da un lato e dall’altro, in andata e ritorno, qualcuno vorrebbe addirittura passarti tra le gambe, altri sopra la testa. Hanno fretta, non possono perdere il ritmo, rallentare la performance, interrompere il loro sogno. In questi giorni in particolare, si sentono tutti atleti alle olimpiadi. Da parte mia, salgo agevolmente il podio delle gare d’imprecazione.

Con queste olimpiadi, la Francia avrebbe voluto ripristinare la sua immagine agli occhi del mondo. I francesi hanno sempre molto talento per la superficialità, secondi solo agli italiani. Non appena ci sarà l’ultimo tuffo nella fogna che attraversa Parigi e l’ultima medaglia sarà appesa al collo dell’ultimo atleta, la crisi politica ricomincerà con violenza. I nodi arrivano al pettine, vedi anche quanto accade nell’ex impero britannico.

La festa delle olimpiadi finirà e scopriremo che, in questo periodo, il mondo ha avuto l’insolenza di continuare a girare. Sugli spalti c’è un’atmosfera pazzesca. I tifosi sostengono le loro squadre con fervore. Mentre tutti sono entusiasti delle medaglie vinte alle olimpiadi, le ambasciate consigliano ai propri connazionali di lasciare il Libano.

Tutto è nato questa volta da un primo ministro israeliano – a capo di un governo di estrema destra – coinvolto in affari di corruzione che avrebbero dovuto mandarlo in galera, il quale apprende dai suoi servizi segreti che un attacco avrà luogo nel territorio del suo paese. Non viene fatto nulla per impedirlo. Si verifica e uccide quasi 1.300 civili. Una medaglia anche a lui.

martedì 6 agosto 2024

La bomba

 

«Se l’avessi saputo, non avrei firmato quella lettera»

Nel settembre 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti contavano un minimo di 190.000 uomini delle forze armate, spalleggiati da una guardia nazionale di 200.000 uomini.

Nell’ottobre 1940, l’ammiraglio Harold Stark, capo di S.M. della Marina, e il segretario della marina Frank Knox, ebbero conversazioni importanti che si conclusero, d’intesa con il generale George Marshall, capo di S.M. generale dell’esercito, con un progetto conosciuto con il nome di Piano Dog (nov. 1940). Questo piano prevedeva che lo sforzo massimo, in caso di guerra, fosse rivolto direttamente e compattamente contro la Germania, mentre contro il Giappone ci si sarebbe accontentati di operazioni relativamente limitate. Questa doveva rimanere la teoria americana durante tutta la guerra.

Per quanto riguarda la forza aerea, al 1° settembre 1939, il totale della produzione degli Stati Uniti non raggiungeva neanche i 1000 velivoli al mese (ne erano stati forniti 1600 alla Gran Bretagna, la quale ne aveva ordinati all’industria americana altri 12.000 da aggiungere ai 14.000 già ordinati in precedenza). Nel 1940-’41, i grandi stanziamenti della legge degli affitti e prestiti (Lend-Lease Act) avevano stimolato enormemente la produzione bellica. Già oltre sei milioni di lavoratori erano stati aggiunti e la disoccupazione di massa era una cosa del passato.

Tuttavia, gli operai, durante i sei mesi che precedettero Pearl Harbor, moltiplicarono gli scioperi. Ve ne fu uno molto duro, nel novembre 1941, condotto da John L. Lewis, che paralizzò le miniere di carbone. Solamente la guerra avrebbe potuto mettere fine a questi “disordini”, alle esitazioni dell’opinione pubblica e alle reticenze politiche verso l’entrata nel conflitto.

Il 27 maggio 1941, il presidente Roosevelt aveva proclamato lo “stato di emergenza nazionale illimitato”. Il servizio militare aveva fornito 1.600.000 uomini; il programma di preparazione degli ufficiali era sulla buona strada, con oltre 100.000 già promossi; venti scuole stavano addestrando per l’artiglieria, alla guerra chimica, alla difesa corazzata e contraerei e ad altri rami specialistici. Oltre 900.000 avevano partecipato a manovre campali nella Carolina e nella Lousiana.

Nel luglio 1941, su richiesta di Roosevelt, i capi militari responsabili misero a punto un programma generale che prese il nome di Victory Program. Si pianificò la mobilitazione di 8.795.000 uomini – 215 divisioni – dei quali 200.000 per l’aviazione, 5.000.000 sarebbero stati trasportati oltremare, impegnando simultaneamente 2500 navi al massimo. Secondo quanto indicato da Roosevelt nel suo messaggio al Congresso nel gennaio 1942, si sarebbero costruiti 60.000 aeroplani nel 1942 e 125.000 nel 1943, 45.000 carri armati nel 1942 e 75.000 nel 1943, otto milioni di tonnellate di navi mercantili e poi dieci milioni, ecc. (Morison e Commager, St. degli S.U. d’A., vol. II, p. 928). Alla fine della guerra, erano arruolati nella marina, nella guardia costiera e nelle truppe da sbarco oltre quattro milioni di uomini e donne, facendo diventare la marina statunitense la più potente di tutte le marine del mondo riunite.

La sola aeronautica militare doveva addestrare 75.000 piloti e 80.000 artiglieri all’anno, oltre a formare centinaia di migliaia di tecnici e amministratori. Per quanto riguarda la marina militare, essa aveva avuto una mentalità aeronautica fin dal 1919, quando si accinse a fornire alla flotta un’adeguata arma aerea, composta non solo di veicoli di tipo Catalina, ma di caccia, di bombardieri da picchiata e di aerosiluranti che avevano per base dapprima delle chiatte e poi delle portaerei, di cui cinque grandi erano state terminate prima della guerra.

Le spese statali salirono da 13,1 miliardi di dollari nel 1939 a 71,3 miliardi nel 1944. Gli introiti dello Stato aumentarono di sette volte grazie soprattutto l’imposta sul reddito, ed il debito pubblico aumentò di 236 miliardi di dollari, senza che vi fosse bisogno di offrire dei tassi di interesse superiori al 3%. Così, progressivamente, e non senza contraccolpi, l’immensa macchina da guerra fu messa in movimento.

Questi preparativi di riarmo e di guerra incipiente avvenivano con l’approvazione del Congresso e su mandato di Roosevelt, in barba alle sue promesse elettorali di non intervento nel conflitto in atto. Per quanto riguarda il Pacifico e l’Oriente, non si trattava semplicemente della lotta tra la democrazia e il dispotismo, dunque tra due modelli sociali e politici, bensì dello scontra tra gli interessi di due imperialismi. L’uno improntato al liberalismo e alla sua simulazione democratica, l’altro sull’aperto dispotismo di classe e l’esaltazione nazionalistica, e tuttavia entrambi convergenti per quanto riguarda la sostanza dei rapporti di produzione (cambiano le forme del dominio di classe, non la sostanza, per quanto le forme abbiano una loro indubbia rilevanza sociale).

Si era determinato il contesto per la guerra, mancava il pretesto. Il Giappone si trovava a regolare due questioni essenziali: quella di ottenere dalle Indie olandesi gran parte delle materie prime di cui Giappone aveva bisogno, l’altra di tagliare le vie di rifornimento a Ciang Kai Scek e metter fine alla guerra sino-giapponese che teneva impegnati centinaia di migliaia di uomini e ingenti quantità di mezzi e materiali.

Intanto, Tokyo aveva firmato il 13 aprile 1941 il trattato di non aggressione con l’Urss. La flotta giapponese avrebbe dovuto proteggere gli enormi ed incessanti convogli verso tutte le isole e penisole. In tal modo, dal 1940 a luglio 1941, il Giappone non adottò che progressivamente e con esitazione i provvedimenti atti a realizzare la sua politica sud orientale.

Èè del 2 luglio il National Defense Act, votato dal Congresso americano, che mise Roosevelt nella possibilità di porre sotto licenze le esportazioni verso il Giappone. Il 21 luglio, i fondi giapponesi negli Usa vennero “congelati”, ciò che permise a Washington di dosare gli acquisti giapponesi.

È vero che tra questi materiali non figuravano ancora né il petrolio né i rottami di ferro dei quali il Giappone aveva urgente bisogno, ma già il 25 luglio queste due risorse strategiche entrarono nella lista dei prodotti sottoposti a licenza e dunque ad embargo (effettivo dal 25 settembre 1941). L’ammiraglio Yamamoto preparava già da gennaio i piani per un attacco contro Pearl Harbor.

Il mattino del 7 dicembre, ora di Washington, veniva decifrata una nota giapponese così concepita:

«Il governo giapponese è spiacente di dover informare il governo americano che, a causa dell’atteggiamento di quest’ultimo, egli non può che constatare l’impossibilità di raggiungere un accordo mediante la continuazione delle trattative».

La guerra nipponico-americana si può dividere in tre fasi principali. Quella delle folgoranti fulminee vittorie dei nipponici, da Pearl Harbor all’aprile 1942 (i nipponici avevano, tra l’altro, stabilito al Sud una linea di basi nella Nuova Guinea e nella Nuova Bretagna), seguita da una fase di equilibrio fino all’autunno 1943 (da parte degli Stati Uniti il problema fu quello di resistere in attesa di preparare i mezzi per la controffensiva); quindi la terza fase, quella della gigantesca controffensiva statunitense nell’Oceano Pacifico, la cui causa profonda non fu altro che la vittoria dell’industria americana su quella giapponese.

L’arrivo e il dispiegamento, nella primavera del 1943, di diverse portaerei e di altre unità navali di “nuova generazione”, cambiò le sorti della guerra nel Pacifico. Alle portaerei si aggiunsero tutti i mezzi logistici la cui mancanza era stata così penosamente risentita nei primi mesi di guerra. Nell’estate del 1943 si videro apparire le prime chiatte da sbarco per la fanteria e i carri armati. Nell’autunno 1943, l’ammiraglio Nimitz, comandante in capo del Pacifico centrale, disponeva di una possente flotta d’attacco, di mezzi logistici soddisfacenti e di 9 divisioni. Il generale Mac Arthur, comandante in capo del sud Pacifico, disponeva di 4 divisioni americane e di 6 divisioni australiane.

Vi è da notare che, nonostante questo enorme dispiegamento di forze, solo il 15% delle risorse degli alleati erano utilizzate nel Pacifico, mentre l’85% era destinato contro la Germania.

La controffensiva dell’amm. Nimitz fu diretta contro le isole Gilbert, Caroline, Marianne, Bonin e poi contro l’arco delle isole Ryukyu a sud del Giappone, e quella del gen. Mac Arthur nel Pacifico meridionale, tendente a riconquistare tutta la Nuova Guinea e l’arcipelago delle Filippine, partendo dalle isole Salomone e dall’Australia. Aveva ai suoi ordini la VII flotta dell’ammiraglio Kinkaid.

Nel febbraio 1944, il comandante della V flotta, ammiraglio, Spruance, lanciò di sorpresa un attacco aereo navale sulla grande base giapponese di Truk (oggi Chuuk), nelle Caroline. Fu una Pearl Harbor al contrario, le perdite nipponiche furono enormi.

I giapponesi, per i quali le Filippine rappresentavano un caposaldo irrinunciabile, decisero immediatamente di giocare il tutto per tutto: inviarono in gran fretta tre squadre, che furono intercettate l’una dopo l’altra e distrutte. Non era la fine della marina giapponese, ma questa si vedeva ormai ridotta quasi esclusivamente a piccole unità, ed era andata distrutta anche gran parte dell’aeronautica nipponica. Anche gli americani registrarono perdite di portaerei e altre imbarcazioni, ma la superiorità navale degli Stati Uniti era ormai incontestabile.

Il 9 gennaio 1945 gli americani sbarcarono a Locon, protetti da una formidabile concentrazione di 850 navi, a totale sorpresa dei nipponici. Manila cade il 23 febbraio. Le tappe seguenti furono la conquista di Iwo Jima nelle isole Bonin, la “Gibilterra giapponese”, poi Okinawa. Il Giappone era ormai bombardato quotidianamente.

Tutto porta a credere che nel 1945, e anche prima, i governanti nipponici avessero ben chiaro che la situazione era disperata. Disponevano ancora di grandi eserciti praticamente intatti, con riserve ancora non mobilitate, dotati di armamento moderno e vasto approvvigionamento. L’esercito della Manciuria contava 800.000 uomini; quello della Cina circa 1.000.000 e quello del Giappone propriamente detto 1.150.000 uomini. Nelle isole e nei territori lontani (solo alcune singole isole degli arcipelaghi erano state conquistate dagli Usa), il Giappone poteva ancora contare in centinaia di migliaia di uomini (J.B. Duroselle, St. diplomatica, 1919-1970, p. 383).

Tuttavia la flotta era stata praticamente distrutta e la flotta americana poteva operare in prossimità delle coste giapponesi e bombardarle. L’aviazione giapponese mancava di piloti e aveva subito delle perdite che l’industria non era in grado di ricolmare, sia per la crescente penuria delle materie prime e sia perché i bombardamenti americani aumentavano di intensità.

Il generale Mac Arthur, che in aprile era stato nominato comandante in capo delle forze terrestri americane per tutto il Pacifico, si predisponeva a un prossimo sbarco in territorio nipponico (isola Kyusciu). I gerarchi di Tokyo avevano davanti a loro questa opzione: una lunga disperata guerra che avrebbe annientato completamente il Giappone, oppure una capitolazione che salvasse almeno l’imperatore.

A differenza della Germania, fu scelta questa seconda strada, in attesa che si presentasse un’occasione. Questa occasione fu fornita da due avvenimenti. Il primo avvenne il 6 agosto con un seguito tre giorni dopo. Il secondo, l’8 agosto. Come concordato con gli altri alleati, l’Urss entrò in guerra con il Giappone. Non penso Stalin abbia accolto volentieri le notizie che gli provenivano in quei giorni.

Tokio ignorava l’accordo segreto di Yalta e le promesse fatte a Stalin da Harry Hopkins, il braccio destro di Roosevelt, in occasione del suo viaggio a Mosca. Ad ogni modo, il 10 agosto Tokio annunciava che il Giappone era pronto a capitolare. Terminava la seconda guerra mondiale (1939-1945) e si apriva la Guerra Fredda (1945-1989).

Ai primi di agosto del 1939, Albert Einstein aveva firmato la famosa lettera a Franklin Roosevelt (la lettera era stata scritta da due colleghi dello scienziato), che verrà consegnata al Presidente da Alexander Sachs, però solo al “momento opportuno”, ossia il 12 ottobre 1939.


lunedì 5 agosto 2024

Non c’è alcuna differenza


Non ci sono tre motivi, ma uno solo: il mercato finanziario è nient’altro che speculazione. Rubamazzo. Il Nasdaq negli ultimi cinque anni è passato da circa 7.500 punti ai 18.000 di fine luglio. Ed era già quasi raddoppiato durante il Covid. Il Dow Jones negli stessi ultimi cinque anni è aumentato di 13.500 punti. Pura follia giustificata dall’enorme estorsione di plusvalore e da una classe di pavidi salariati dibattuti tra Trump e Harris, tra Le Pen e Mélenchon oppure, colmo della catastrofe, tra la nostalgica Meloni e l’obamiana Schlein.

Che poi le vendite siano una ripicca contro la Federal Reserve di Jerome Powell che non vogliono tagliare i tassi, o perché (altra balla) il mercato degli schiavi negli Usa è stato sotto le attese, o per la caduta del produttore di chip Intel, o ancora per l’aumento dell’indice di volatilità Vix, noto come “indicatore della paura” o infine perché la frenesia speculativa attorno all’intelligenza artificiale sta iniziando ad affievolirsi (l’avevo scritto che è in gran parte un bluff), sono quisquilie. La verità è che tra questa gentaglia e Bernard Madoff, tra quest’ultimo e i suoi facoltosi clienti, tra chi specula legalmente e chi no, non c’è alcuna differenza. Proprio nessuna. Salvo che Madoff è stato “sfortunato”.

domenica 4 agosto 2024

Il Capitale, un'opera "ininfluente" di un "falso profeta"

 

Nell’inserto domenicale de Il Sole, quotidiano della Confindustria, compare la recensione all’edizione, nuova di zecca, einaudiana de Il Capitale di Carl Marx. I recensori, come sempre capita, dimenticano di scrivere il titolo dell’opera per intero (*), cosa che di per sé forse indurrebbe gli scribacchini a una maggiore attenzione su ciò che vanno scrivendo.

Essendo l’inserto più commerciale che culturale, la recensione è stata affidata a un giornalista, Salvatore Carrubba, che della materia non conosce nulla. Ed infatti si premura a mettere le mani avanti: “Non so a chi abbiano qui voluto fare più dispetto – se al recensito o al recensore – proponendo a un vecchio liberale di presentare niente meno che Il Capitale di Karl Marx. Excusatio non petita, accusatio manifesta.

Carrubba sottolinea che l’opera è “sicuramente la più pensata” da Marx, ma “probabilmente la meno letta”. E qui il recensore coglie nel segno, perché Il Capitale è l’opera più citata e meno letta in assoluto. A cominciare proprio dal sig. Carrubba, che al massimo l’ha sfogliata (ma anche su questo tipo d’approccio minimale nutro dei dubbi).

Per capire che una persona non ha avuto a che fare davvero con quest’opera di Marx, è sufficiente che essa pronunci la parola “profeta”, o anche “falso profeta”, come fa quell’asino di Popper che Carrubba cita. Prima ancora, il recensore cita le parole sprezzanti di un noto latifondista, il più tronfio degli intellettuali italiani del Novecento: Benedetto Croce. Un ex fascista pentito che, a riguardo di Marx, ha completamente frainteso una grande scoperta marxiana, ovvero la legge sulla caduta del saggio di profitto (oltre al tentativo di ridurre il marxismo a mero canone storicistico e deterministico insieme).

Quindi chi altro cita il nostro recensore? Immancabilmente il “più ed ambizioso epigono di Marx, l’autore de il capitale nel XXI secolo, Thomas Piketty”. Epigono di Marx! Un tizio che sproloquia e che candidamente ammette di non aver letto Il Capitale di Marx, perché lo trova ostico e, udite, ininfluente!

Lo dice in una intervista:

Chotiner: Can you talk a little bit about the effect of Marx on your thinking and how you came to start reading him?
Piketty: Marx?
Chotiner: Yeah.

Piketty: I never managed really to read it. I mean I don’t know if you’ve tried to read it. Have you tried?
Chotiner: Some of his essays, but not the economics work.
Piketty: The Communist Manifesto of 1848 is a short and strong piece. Das Kapital, I think, is very difficult to read and for me it was not very influential.

Ma basta con questa robaccia, ho speso fin troppe parole per gente senza vergogna. Segnalo solo, da ultimo, che invece dell’edizione einaudiana, ovviamente molto costosa, è disponibile l’edizione de La città del Sole, due poderosi tomi in cui c’è tutto e di più del famoso libro del “falso profeta”.

(*) Il Capitale. Critica dell’economia politica. Libro primo. Il processo di produzione del capitale.

(**) Croce, Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, poi raccolto in Materialismo storico ed economia marxistica, Laterza, Bari 1946, pp. 149-61. Al riguardo soggiungo solo che se, oltre il cap. 13 del III Libro, Croce si fosse preso la briga di leggere anche i capp. 14 e 15, forse avrebbe evitato di aggiungere al suo curriculum altre miserabili sciocchezze. Ad ogni modo l’imbecille pone a presupposto della sua “critica” un presunto “errore del Marx”, il quale avrebbe attribuito “inavvedutamente” un valore maggiore al capitale costante che viene messo in movimento dalla stessa forza-lavoro, e ciò nonostante, obietta Croce, il progresso tecnico faccia scendere il valore delle materie prime ed ausiliarie impiegate come capitale costante in rapporto al valore della forza-lavoro.

A quest’asino sfuggiva un fatto assolutamente elementare, e cioè che allo stesso modo che il progresso tecnico fa scendere il valore delle merci impiegate come capitale costante, in modo altrettanto progressivo consente all’operaio di mettere in movimento una quantità notevolmente maggiore dello stesso capitale. È questa una nozione così elementare che anche un qualsiasi operaio, per quanto “inavveduto” di filosofia crociana, può illustrare facilmente.

Se Croce si fosse data la briga di leggere anche il cap. 15°, avrebbe scoperto che tale legge non funziona solo in presenza di un aumento della composizione organica del capitale, ma anche, come sa qualsiasi padroncino, con la diminuzione del numero degli operai impiegati sulla base di un determinato capitale. Si tratta della tendenza del capitale alla massima riduzione possibile del numero degli operai da esso occupati, da un lato, in contrasto con la sua assoluta necessità, quella di produrre la maggior massa possibile di plusvalore. Ecco a cosa serve la dialettica materialista applicata alla scienza economica.

venerdì 2 agosto 2024

Esperti

 

Il provincialismo e l’analfabetismo italico (con giusto una punta di razzismo, involontario ovviamente). Quando leggeremo di un volo Gran Bretagna – Roma, oppure Francia – Venezia o anche Spagna – Milano? La superficie della Repubblica del Madagascar è quasi il doppio di quella della Repubblichina italiana. È la quarta isola del mondo, tanto per dire (e la prima, qual è?). Chissà quanti italiani conoscono il nome della sua capitale. Il 5 per cento? Incorreggibili ottimisti. Il 3 per cento? Suvvia, restiamo ancorati alla realtà del paese. L’uno per cento? Un po’ di meno. Diciamo all’ingrosso uno su mille, ma non mettiamoli alla prova. Soprattutto non mettiamo alla prova i componenti della commissione esteri di Camera e Senato. Che magari in casa hanno dei mobili in palissandro. Il valore del palissandro esportato illegalmente raggiunge almeno i 400.000 euro al giorno. I clienti principali sono di gran lunga gli stronzi di Hong Kong e i cinesi nuovi ricchi, seguiti da quelli che stampano dollari. Non parliamo poi del traffico delle specie di animali protette.

Ma che ce ne importa del Madagascar, noi siamo esperti di sesso. Soprattutto quello degli atleti olimpici.

Il bue che dà del cornuto all'asino

 

Chi dà il diritto agli Stati Uniti d’ingerirsi di prepotenza negli affari interni degli altri Paesi? Chi dà il diritto a Washington di dare lezioni di democrazia elettorale al Venezuela e a qualsiasi altro Paese dove il risultato elettorale non è gradito ai gangster statunitensi? E ciò prima ancora che la Corte Suprema venezuelana si esprima in merito ad eventuali brogli, denunciati da un certo Edmundo González, un diplomatico precedentemente sconosciuto che si è candidato come sostituto della leader fascista della Piattaforma Unitaria finanziata dagli Stati Uniti, María Corina Machado?

Lo rivela il Washington Post: “Gli Stati Uniti e altre democrazie hanno investito molto in una pacifica transizione democratica per il Venezuela. In questo senso, anche queste elezioni vengono rubate a loro”. Vengono loro rubate dalla volontà popolare, e “investito” sta per la montagna di dollari versati per promuovere un’opposizione di destra e fomentare la violenza.

Maduro non deve piacere per forza, basta amare un po' troppo vistosamente limperialismo americano. Chi ha dato agli Stati Uniti, il paese dei principi astratti ma realmente tra i meno democratici del pianeta (non si dimentichi che è la strapotenza militare che garantisce loro la supremazia mondiale in materia monetaria, finanziaria e commerciale) il diritto d’intervenire con golpe (falliti) e il finanziamento diretto nelle elezioni venezuelane? Di quale democrazia stanno parlando il segretario di Stato e l’attuale vicepresidente?

Le elezioni statunitensi non sono nemmeno determinate dal voto popolare, ma da un Collegio elettorale antidemocratico (Diane Rodham ha preso 3 milioni di voti più di Trump). Nel 2000, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha impiegato più di un mese per emettere una sentenza che assegnava la vittoria alla parte perdente, mentre nel 2020, gli Stati non hanno risolto le controversie per settimane mentre il Partito Repubblicano cercava di ribaltare la sua netta sconfitta alle urne con una aperta rivolta, concretizzatasi con un assalto al Campidoglio. Senza dimenticare la più grande frode elettorale del 1876, tra Rutherford B. Hayes e Samuel J. Tilden.

Di quale democrazia stiamo parlando quando le elezioni americane sono così pesantemente truccate dal peso della propaganda comprata a centinaia di milioni di dollari? Secondo la Federal Election Commission (FEC), i candidati hanno speso un totale di 1,6 miliardi di dollari durante il ciclo elettorale presidenziale del 2016. Tale importo è balzato a 4,1 miliardi di dollari per il ciclo 2020. Probabilmente quest’anno sarà molto più alto.

Queste donazioni fanno spesso parte di una strategia che consiste nel “coprirsi” versando soldi ad entrambi gli schieramenti (due fazioni della stessa élite che governa gli Usa dalla loro fondazione) per non ritrovarsi nel mirino del vincitore se si è commesso l’errore di scommettere esclusivamente sul proprio avversario sconfitto. Ad esempio, il sito OpenSecrets, dedicato alla circolazione del denaro nella vita politica americana, mostra che nel 2020 ExxonMobil ha destinato il 58% delle sue donazioni politiche ai repubblicani e il 42% ai democratici.

Nel 2020, le donazioni anonime di persone molto ricche tramite organizzazioni descritte come “super Pacs” (i Pacs sono i cosiddetti Comitati di azione politica) hanno favorito in maniera massiccia i democratici piuttosto che i repubblicani. Nel 2020, questi versamenti hanno superato il miliardo di dollari: la loro distribuzione è quindi una questione essenziale.

Secondo OpenSecrets, durante la campagna del 2020 Biden ha ricevuto 174 milioni di dollari di questo “denaro oscuro” e Trump solo 25 milioni di dollari. Biden si è dimesso non perché glielo ha chiesto Obama o altri esponenti della cricca democratica, ma solo quando ha avuto notizia della minacciata sospensione dei finanziamenti.

Servono particolari “studi” per sapere ciò che è ovvio a chiunque, e cioè che la spesa per la campagna elettorale influenza i risultati elettorali? È dunque questa la democrazia che ci fa preferire un Trump o una Harris da un Maduro da un González?

giovedì 1 agosto 2024

Soltanto la morte

 

Centodieci anni fa, se l’autista dell’arciduca erede al trono d’Austria-Ungheria, Francesco Ferdinando, non avesse sbagliato strada, se non avesse imboccato quel vicolo, se non avesse poi fatto quella manovra, ebbene si sarebbe dovuta attendere un’altra occasione per scatenare la carneficina mondiale che ebbe inizio nell’agosto del 1914. Che, a parte l’orrore delle trincee, fu ancora più letale a causa di un virus.

L’aristocrazia di un tempo. Quella della Belle Époque. Bella per chi? Per loro sicuramente. “I nostri peccati, i nostri terribili peccati!”, disse uno di loro, piangendo per la propria incoscienza. Troppo tardi. Gli ultimi giorni dell’aristocrazia russa offrirono un quadro immenso e fantastico di questo antico ordine, del suo crepuscolo anticipato e predetto, poi dell’epopea della sua distruzione.

Pushkin, Gogol, Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij aleggiavano sulle ceneri e sui cadaveri del mondo in cui abitavano. Si metta il cuore in pace Ezio Mauro, la violenza si scatenò un po’ ovunque e ben prima dell’arrivo dei bolscevichi che la teorizzarono, la accentuarono, la concentrarono e la diffusero. Almeno non massacrarono a colpi di cannone, come fece Joseph Fouché. La borghesia, grande maestra in tutto.

I rari sopravvissuti e i loro discendenti continuarono ad avere una classe fatalista, una cultura poliglotta, tutta l’eleganza delle rose che crescevano su un mucchio gigantesco di sterco. Molti amano denunciare l’equivalente contemporaneo di questi privilegiati, per giocare con l’idea di espropriare e liquidare i semidei attuali. Auguri di buon lavoro.

L’aristocrazia internazionali di oggi, priva di titoli nobiliari ma infinitamente più ricca, più potente, meno istruita di quanto lo fossero le grandi famiglie aristocratiche d’un tempo, a differenza loro, non rischia nulla. Il progresso tecnologico e le loro fortune immateriali la proteggono meglio di un esercito. I suoi membri sono invisibili e intoccabili. Non sappiamo dove siano le loro dimore, le loro terre, i loro soldi. Nessuno di loro finirà in povertà o in punta di baionetta. Soltanto la morte li renderà, non certo nostre vittime, nostri pari.