«Il governo giapponese è spiacente di dover informare il governo americano che, a causa
dell’atteggiamento di quest’ultimo, egli non può che constatare l’impossibilità di raggiungere un
accordo mediante la continuazione delle trattative».
La guerra nipponico-americana si può dividere in tre fasi principali. Quella delle
folgoranti fulminee vittorie dei nipponici, da Pearl Harbor all’aprile 1942 (i nipponici
avevano, tra l’altro, stabilito al Sud una linea di basi nella Nuova Guinea e nella Nuova
Bretagna), seguita da una fase di equilibrio fino all’autunno 1943 (da parte degli Stati Uniti
il problema fu quello di resistere in attesa di preparare i mezzi per la controffensiva); quindi
la terza fase, quella della gigantesca controffensiva statunitense nell’Oceano Pacifico, la cui
causa profonda non fu altro che la vittoria dell’industria americana su quella giapponese.
L’arrivo e il dispiegamento, nella primavera del 1943, di diverse portaerei e di altre unità
navali di “nuova generazione”, cambiò le sorti della guerra nel Pacifico. Alle portaerei si
aggiunsero tutti i mezzi logistici la cui mancanza era stata così penosamente risentita nei
primi mesi di guerra. Nell’estate del 1943 si videro apparire le prime chiatte da sbarco per
la fanteria e i carri armati. Nell’autunno 1943, l’ammiraglio Nimitz, comandante in capo del
Pacifico centrale, disponeva di una possente flotta d’attacco, di mezzi logistici soddisfacenti
e di 9 divisioni. Il generale Mac Arthur, comandante in capo del sud Pacifico, disponeva di
4 divisioni americane e di 6 divisioni australiane.
Vi è da notare che, nonostante questo enorme dispiegamento di forze, solo il 15% delle
risorse degli alleati erano utilizzate nel Pacifico, mentre l’85% era destinato contro la
Germania.
La controffensiva dell’amm. Nimitz fu diretta contro le isole Gilbert, Caroline, Marianne,
Bonin e poi contro l’arco delle isole Ryukyu a sud del Giappone, e quella del gen. Mac
Arthur nel Pacifico meridionale, tendente a riconquistare tutta la Nuova Guinea e
l’arcipelago delle Filippine, partendo dalle isole Salomone e dall’Australia. Aveva ai suoi
ordini la VII flotta dell’ammiraglio Kinkaid.
Nel febbraio 1944, il comandante della V flotta, ammiraglio, Spruance, lanciò di sorpresa un
attacco aereo navale sulla grande base giapponese di Truk (oggi Chuuk), nelle Caroline. Fu
una Pearl Harbor al contrario, le perdite nipponiche furono enormi.
I giapponesi, per i quali le Filippine rappresentavano un caposaldo irrinunciabile, decisero
immediatamente di giocare il tutto per tutto: inviarono in gran fretta tre squadre, che furono
intercettate l’una dopo l’altra e distrutte. Non era la fine della marina giapponese, ma questa
si vedeva ormai ridotta quasi esclusivamente a piccole unità, ed era andata distrutta anche
gran parte dell’aeronautica nipponica. Anche gli americani registrarono perdite di portaerei
e altre imbarcazioni, ma la superiorità navale degli Stati Uniti era ormai incontestabile.
Il 9 gennaio 1945 gli americani sbarcarono a Locon, protetti da una formidabile
concentrazione di 850 navi, a totale sorpresa dei nipponici. Manila cade il 23 febbraio. Le
tappe seguenti furono la conquista di Iwo Jima nelle isole Bonin, la “Gibilterra giapponese”,
poi Okinawa. Il Giappone era ormai bombardato quotidianamente.
Tutto porta a credere che nel 1945, e anche prima, i governanti nipponici avessero ben chiaro
che la situazione era disperata. Disponevano ancora di grandi eserciti praticamente intatti, con riserve ancora non mobilitate, dotati di armamento moderno e vasto
approvvigionamento. L’esercito della Manciuria contava 800.000 uomini; quello della Cina
circa 1.000.000 e quello del Giappone propriamente detto 1.150.000 uomini. Nelle isole e nei
territori lontani (solo alcune singole isole degli arcipelaghi erano state conquistate dagli
Usa), il Giappone poteva ancora contare in centinaia di migliaia di uomini (J.B. Duroselle,
St. diplomatica, 1919-1970, p. 383).