domenica 15 luglio 2018

Sulle classi


Un fenomeno può essere definito sia in base al suo aspetto esterno, sia in base alla sua origine reale. L’analisi fenomenologica (empirismo, positivismo, varie derive “marxiste”, ecc.) considera il fenomeno per quanto si mostra nella sua manifestazione esteriore e ne deduce che la forma del manifestarsi coincida col nesso causale che le sta a fondamento. Il caso più frequente riguarda i fenomeni connessi all’economia, ma anche, per esempio, quando si ha a che fare con le classi sociali.

Su quest’ultimo tema s’incontra un errore comune nel sociologismo borghese. È vero che ad un esame puramente fenomenico noi troviamo delle “cose”, e cioè dei gruppi psico-sociali, dei gruppi di status (patrizi e plebei, manovali e artigiani, borghesi e gentiluomini, ecc.) surdeterminati dalle motivazioni più disparate, ma queste aggregazioni, essendo potenzialmente infinite quanto lo sono gli individui, possono essere sciolte da un’infinità di fatti casuali.

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Per fortuna ci soccorre Beppe Grillo, ovvero un suo ghostwriter, probabilmente M. M., che in un post del noto blog scriveva: “Una classe sociale secondo Marx è un insieme di individui con lo stesso rapporto con i mezzi di produzione”.

Come si fa a dargli torto? È lampante che l’appartenenza degli individui a una classe sociale sia determinata dal rapporto che essi hanno con i mezzi di produzione.

È invece tale realtà non è così scontata come appare, e questo è un esempio concreto di come viene correntemente e quotidianamente mistificato il marxismo – non solo da parte di Beppe Grillo e compagnia cantante, che sarebbe poca cosa – e di come e con quanta facilità si può intortare anche un pubblico che passa per essere intellettualmente “evoluto” (quello che “legge libri”).

Cliccando nel testo grillesco sulla parola “Marx” c’è il rinvio alla fonte, ossia la voce Karl Marx di Wikipedia. Però lì non troverete nulla che corrobori la citazione. Per un semplice motivo: Marx non avrebbe mai fatto, sic et simpliciter, un’affermazione del genere.

Dove effettivamente ha tratto tale definizione il pensatore genovese (o chi per lui)? Da Wikipedia, certo (oltre non si va), ma da una voce diversa da quella alla quale il post di grillo rinvia il lettore. Precisamente alla voce “Classe sociale”, ove si legge:

“Una nota definizione di classe sociale è quella marxiana, intendente per classe un insieme di individui che hanno lo stesso rapporto con i mezzi di produzione.”

Da intendersi: “nota definizione” per quelli che prendono per oro colato Wikipedia e poi imbrattano la rete e anche altri media.

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Se per appartenere a una determinata classe sociale bastasse avere un determinato rapporto con i mezzi di produzione, ciò significherebbe: che chi non possiede i mezzi di produzione appartiene al proletariato (o, se vi piace di più, all’evanescente classe media), e chi, per contro, di tali mezzi di produzione è proprietario, appartiene invece alla classe dei capitalisti, alla borghesia. E ciò, ripeto, sembra esatto, ma di per sé non è sufficiente e porta fuori strada, cioè nel fosso dell’ideologia borghese.

Chi di noi può negare che un artigiano, un idraulico, un falegname, un elettricista, un meccanico d’auto o un gommista, non siano proprietari dei loro mezzi di produzione? Oppure un piccolo contadino proprietario di un appezzamento di terra? Appartengono oggettivamente alla classe sociale dei capitalisti e dei borghesi? Certamente, stando alla definizione che Grillo attribuisce a Marx, essendo essi in rapporto ai mezzi di produzione come proprietari.

È difficile far comprendere al senso comune che due forme identiche possono avere contenuti diversi, e viceversa.

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Le classi sociali sono delle strutture oggettivamente motivate e determinate dalla base economica e dai rapporti complessivi storico-sociali nei quali gli individui, volenti o nolenti, si generano e ricadono. C’è voluto un po’ di tempo ma orma tale assioma non lo contesta (quasi) più nessuno. Veniamo a una definizione più stringente: il criterio fondamentale che distingue le classi è il loro posto nella produzione sociale e in conseguenza il loro rapporto con i mezzi della produzione.

Non è la stessa cosa che scrive Wikipedia e poi ripete Grillo. Ciò che anzitutto distingue le classi è il loro posto nella produzione sociale, ossia il loro posto nella divisione sociale del lavoro, e non semplicisticamente il loro rapporto con i mezzi della produzione.

Un elettricista è proprietario del cacciavite con il quale lavora tutto il giorno, dunque in strettissimo rapporto col proprio mezzo di produzione, ma oggettivamente non appartiene alla classe dei capitalisti. E nemmeno un idraulico con il suo giratubi può essere classificato come borghese, per quanto egli possa sforzarsi di apparire tale nei suoi atteggiamenti e sfrecci su un fuoristrada inseguito da Equitalia.

Viceversa, l’AD di un'industria o altra società può anche non possedere nemmeno un grammo della proprietà della società che dirige, eppure egli ha un ruolo che non è quello degli operai della stessa fabbrica ed è per questa sua diversa posizione nella divisione del lavoro, e quindi non solo per il suo sproporzionato reddito, che egli non appartiene alla classe degli operai.

Perciò dire: “il criterio fondamentale che distingue le classi è il loro posto nella produzione sociale  …”, allude a una determinazione reale e concettuale essenziale.  La divisione sociale del lavoro, ossia il posto che in essa il singolo individuo o la massa degli individui della stessa condizione occupano, determina inoltre le modalità dell’appropriazione della ricchezza socialmente prodotta (*).

Riassumendo: i proletari, quantunque possano sentirsi soggettivamente di non appartenere al proletariato e di far parte invece di una non meglio definita “classe media”, restano incatenati a una sfera di attività determinata ed esclusiva che è loro imposta quasi “naturalmente” e dalla quale non possono sfuggire se non vogliono perdere i mezzi per vivere.

Pertanto, il prius su cui s’innesta la divisione in classi è dato dalla divisione sociale del lavoro e non, meramente, dallo status (vero o presunto), dal reddito, frequentazioni, posto di lavoro e luogo di abitazione, rapporti di vicinanza o lontananza dai partiti e dal potere.

Anche la coscienza degli individui è soggetta alla stessa determinazione, ossia all’antagonismo tra la ricchezza che non lavora e la condizione di chi per vivere deve lavorare, dunque soggetta a un antagonismo non solo economico ma anche del sapere/potere. Scrive Marx:

«Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che dall’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione (Il Capitale, I, VII, 3)

Eccola qui la “classe media”, con le sue virtù e le sue macchie. Che non è la stessa cosa, per dire dell’Italia, al Settentrione e altrove, e ciò vale anche per la “borghesia”, e cioè per la cosiddetta classe dirigente italiana, risultante dalla fusione o meglio dall’accordo di gruppi sociali eterogenei. Un tempo essa era costituita al Settentrione “dai primi gruppi industriali e dai proprietari di terre della valle padana; per il Mezzogiorno di vecchie consorterie politiche basate sopra legami di interessi familiari e di solidarietà camorristica (Togliatti, Sul fascismo, p. 6)”. Ora le cose sono un po’ cambiate, direbbe Tomasi di L., ma la sostanza è rimasta la stessa.

(*) Il capitalista non è tale perché è ricco (gli sciocchi lo credono), non diventa tale solo e semplicemente perché acquista i mezzi di produzione dei quali diventa proprietario, bensì perché trasforma i mezzi di produzione in mezzi di assorbimento del lavoro altrui. E non basta ancora, perché per perpetuarsi, il capitalista non solo deve assoggettare il lavoro altrui, ma mostrare il suo istinto vitale, cioè l’istinto di valorizzare il proprio capitale. Se il valore anticipato non si valorizza, il suo denaro non si trasforma in capitale.

Il proprietario di un bosco non diventa perciò stesso un capitalista, ma diventa un capitalista nel momento in cui assume della manodopera per il taglio degli alberi e dei tronchi e da quel lavoro egli ricava un profitto che si concretizza poi nella vendita del prodotto. Se tagliasse da sé gli alberi, egli sarebbe solo lo schiavo di se stesso, al pari dei tanti padroncini (leghisti e no) che lavorano 7 su 7 nel loro capannoncino.

Anche da un punto di vista giuridico, la mera proprietà dei mezzi di produzione non implica ancora quale movimento reale è dato dai rapporti di proprietà nel processo produttivo (vedi la vicenda dell’Urss, ecc.). Solo i coatti dell’anticomunismo possono credere a quel tipo di “comunismo”.

9 commenti:

  1. Dal punto di vista del materialismo storico, le classi sono formazioni oggettive definite da rapporti sociali di produzione e, come giustamente viene sottolineato nell'articolo, dalla divisione sociale del lavoro. Tali rapporti consentono di estrarre pluslavoro e plusvalore ai produttori diretti, e tale sfruttamento, poiché di questo si tratta, può far nascere negli sfruttati (e sottolineo ‘può’, perché questo fatto può anche ‘non’ accadere) un senso di coesione e una percezione dell’interesse collettivo, che dipendono dalle possibilità di azione comune esistenti in un certo luogo, in un certo tempo e in un certo ambiente. Ciò significa, dunque, che la coscienza di classe delle classi dominate varia considerevolmente, mentre, di norma, le classi dominanti ne sono sempre altamente dotate. Ciò che non varia allo stesso modo, invece, è la resistenza allo sfruttamento, che costituisce anch’essa un altro fattore, parimenti oggettivo, che concorre a definire la classe sociale in quanto tale. Tale resistenza, comunque, non è necessariamente né consapevole né collettiva, poiché la lotta di classe è immanente agli stessi rapporti fra le classi, così come lo sfruttamento e la resistenza contro di esso. D’altra parte, aderire ad una concezione sostanzialmente idealistica della lotta di classe, che rifiuta di considerarla tale in assenza di una coscienza di classe e di un conflitto politico in atto, significa diluirla a tal punto che, in molte situazioni, praticamente essa svanisce. Sennonché, una volta svanita la lotta di classe, diventa possibile negarne del tutto l’esistenza, ad esempio, negli odierni Stati Uniti d’America o tra imprenditori e lavoratori in Europa o, ancora, tra padroni e schiavi nell’antichità, poiché in ognuno di questi casi la classe sfruttata non ha, o non aveva, una coscienza di classe né ha intrapreso alcuna azione politica comune, oppure lo ha fatto solo in alcune rare occasioni e in misura limitata. Va detto perciò che questa concezione finisce, in ultima analisi, con lo svuotare di significato non solo il “Manifesto del partito comunista”, ma anche gran parte dell’opera di Marx.

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    1. la resistenza allo sfruttamento non costituisce un fattore oggettivo, e tantomeno concorre a definire la classe sociale in quanto tale. questo è soggettivismo, che tanti guai ha procurato. cmq grazie del commento

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  2. Dovrebbe essere chiaro, poiché mi sono preoccupato di sottolinearlo più volte nell'intervento, che il mio orientamento è anti-soggettivistico (cfr. la critica della concezione idealistica della lotta di classe = il giovane Lukàcs). Sennonché a Lei probabilmente sfugge proprio il fatto che la resistenza allo sfruttamento è un fenomeno oggettivo della condizione e della lotta dei lavoratori salariati, in quanto marxianamente "Trager", ossia portatori oggettivi, con sofferenza e quindi resistenza (il termine tedesco ha proprio questo significato, che la traduzione italiana non restituisce), dei rapporti di produzione imposti dal capitale e dalla conseguente divisione sociale del lavoro. Se non ha mai visto la canottiera intrisa di sudore di un muratore (questo fenomeno oggettivo fu il fattore determinante, quando ero un ragazzino, della mia presa di coscienza soggettiva della durezza del lavoro e del peso dello sfruttamento che grava sui lavoratori nei cantieri edili, che tra l'altro hanno il primato degli 'omicidi bianchi'), provi a guardare le cariatidi o gli omenoni che ornano i palazzi tra '700 e primo '900, e avrà una plastica percezione del carattere costrittivo/coercitivo che è insito nella condizione oggettiva di chi, lavorando sotto padrone in un sistema capitalistico, regge, in quanto "portatore", il peso di tutto il sovrastante edificio.

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    1. anche giocando a tennis si suda, ma non concorre a definire la classe sociale

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  3. Per essere lunedì mattina una gran bella lettura.
    Grazie, Alessandro

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  4. I filosofi finora hanno interpretato il mondo...ed è bene che continuino a farlo.

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