Quelli
ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo
mio, il luogo mio, che vaca
nella
presenza del Figliuol di Dio,
fatt’ha del
cimitero mio cloaca
del sangue e
della puzza; onde’l perverso
che cadde di
qua su, là più si placa.
(Paradiso,
c. XXVII, vv. 22-27).
Non dev’essere casuale che fra i 126 papi del secondo
millennio solamente cinque siano stati proclamati santi: Leone IX (1049-1054),
Gregorio VII (1073-1085), Celestino V (1294), Pio V (1566-1572) e Pio X
(1903-1914). Per settecento anni, eccetto Pio V, non sono stati canonizzati
papi. La lunga pausa è stata interrotta recentemente con Pio X, il papa
analfabeta (cit.).
A beati stanno un po’ meglio, sono 8: Vittore III
(1086-1087), Urbano II (1088-1099), Eugenio III (1145-1153), Gregorio X
(1271-1276), Innocenzo V (1276), Benedetto XI (1303-1304), Urbano V (1362-1370)
e Innocenzo XI (1676-1689). Diventati 10 grazie alle due new entries di Pio IX
(1846-1878) e Giovanni XXIII (1958-1963). Anche in tal caso da notare che negli
ultimi seicento anni, prima del revival wojtyliano, solo uno, Innocenzo XI, era
stato beatificato.
Veniamo a quel porco Pio IX che fu proclamato beato nel
2.000 da quel Wojtyla (mischiando la faccenda con la beatificazione di Giovanni XXIII) che nel suo pontificato procedette sempre nel segno della continuità con la
tradizione, del rinnovamento solo a parole e nella perfetta coerenza con i
misfatti di sempre.
Leggiamo dal Sillabo,
dove, come tutti sanno, sono elencati gli
errori della civiltà moderna, nel senso che in essi non si combatte
semplicemente lo stato moderno, ma la modernità come tale:
X - Errori che si riferiscono all’odierno liberalismo
LXXVII. In questa nostra età non conviene più che la
religione cattolica si ritenga come l’unica religione dello Stato, esclusi
tutti gli altri culti, quali che si vogliano.
Alloc. Nemo
vestrum, 26 luglio 1855.
LXXVIII. Però lodevolmente in alcuni paesi cattolici
si è stabilito per legge che a coloro i quali vi si recano, sia lecito avere
pubblico esercizio del culto proprio di ciascuno.
Alloc.
Acerbissimum, 27 settembre 1852.
LXXIX. È assolutamente falso che la libertà civile di
qualsivoglia culto, e similmente l’ampia facoltà a tutti concessa di
manifestare qualunque opinione e qualsiasi pensiero palesemente ed in pubblico,
conduca a corrompere più facilmente i costumi e gli animi dei popoli, e a
diffondere la peste dell’indifferentismo.
Alloc.
Numquam fore, 15 dicembre 1856.
LXXX. Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e
venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà.
Alloc.
Iamdudum cernimus, 18 marzo 1861.
L’ateismo è la condizione di ogni autentico processo di liberazione umana. Alla luce di tale assunto si comprende il carattere fondativo che assume la critica
RispondiEliminamarx-engelsiana della religione (“il presupposto di ogni critica è la critica della religione”): «Il fondamento della critica irreligiosa è che è l’uomo a fare la religione, e non la religione a fare l’uomo. La religione, in altre parole, è l’autocoscienza e la consapevolezza di sé dell’uomo che o non si è ancora conquistato o è già tornato a perdersi. Ma l’uomo non è una essenza astratta, che stia rannicchiata fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. […] La miseria religiosa è in un senso l’espressione della miseria reale, e in altro senso la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di situazioni in cui lo spirito è assente. Essa è l’oppio del popolo. Togliere la religione, che è la felicità illusoria del popolo, significa avanzare l’esigenza della felicità reale di esso. L’esigenza di togliere le illusioni sulla propria situazione implica togliere una situazione che ha bisogno di illusioni. […] La critica ha strappato i petali dei fiori immaginari che coprivano la catena, e non perché l’uomo continui a portare una catena, e questa volta senza fantasia e senza consolazione, ma perché egli possa strappare la catena e cogliere fiori viventi» (Introduzione a "Per la critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico").
Altrettanto significativo è quanto rilevano Marx ed Engels in un passo dell’“Ideologia tedesca” dedicato a queste forme, oggi risorgenti, di apologia indiretta del capitalismo, e cioè che esse meritano soltanto di essere qualificate come espressione della “pretesca sete di potere”, del “fanatismo religioso”, della “ciarlataneria”, della “ipocrisia pietista” e delle “pie frodi” di quei “Dalai Lama idealistici i quali vorrebbero persuadersi che il mondo, dal quale traggono nutrimento, non potrebbe esistere senza i loro sacri escrementi”, santoni il cui idealismo, quando “passa nella pratica, rivela subito il suo carattere maligno” (una riprova di ciò è la recente presa di posizione di papa Bergoglio sulla crisi venezuelana).
Nel lontano settembre 2009 un comunista scrisse un articolo “Una ripresa pagata dai lavoratori” (in un giornale che non è stato mai degno di lui e di cui mi riservo di farne il nome) e per voi, Olympe ed Eros Barone, ne traggo un insegnamento facendone quindi di quello uno stralcio.
EliminaPlinio il Vecchio.
« IRRAZIONALITÀ E FIDEISMO
Una delle attenuanti più invocate dagli economisti nella propria autodifesa è la natura umana. È vero che i modelli economici non l’hanno sufficientemente considerata ma, sostengono in molti, essendosi essa dimostrata largamente irrazionale, in fondo era impossibile farlo.
Alan Greenspan sembra trarne conforto per superare lo smarrimento in cui il crollo della Lehman lo aveva gettato un anno fa; intervistato dalla BBC nella trasmissione “The love of money” ha dichiarato che «a meno di non cambiare la natura umana ci saranno altre crisi e nessuna somiglierà a questa, perché due crisi non hanno nulla in comune, eccetto la natura umana». Una dichiarazione d’impotenza da parte dell’ex padrone del dollaro che sembra un “assist” per la dottrina sociale della Chiesa; sembra fatta apposta per valorizzarne la rilettura alla luce della “riconciliazione tra fede e ragione”, che è il marchio di fabbrica del papato Ratzinger.
Hyppolite Simon, arcivescovo di Clermont-Ferrand, ricercando sul “Figaro” le «radici intellettuali della crisi», attribuisce il fallimento del liberismo – e già che c’è mette il comunismo nello stesso sacco – alla sottovalutazione del bisogno umano di credere. La fede nel mercato ha sostituito la fede in dio, «la critica unilaterale della religione ha accecato molta gente […] la vera fede, quand’è cosciente, è il migliore antidoto di questa credenza surrettizia». Come dire che il dio denaro ha preso il posto del dio negato dai razionalisti. Prosegue l’arcivescovo: «I sistemi costruiti solo sulle idee sono in realtà costruiti sulla sabbia. Poiché riposano su idee in apparenza evidenti, questi sistemi dimenticano che l’essere umano e dunque anche le società umane sono in realtà dei misteri.»
SOCIETÀ E NATURA UMANA
Il mistero del denaro non è però più tale. Marx, invece di associarsi all’indignazione di tanti moralisti, ha spiegato perché gli uomini adorino il denaro e ne siano schiavi. Il denaro è l’unico mezzo che oggi ha l’individuo per entrare in relazione con il lavoro sociale e, allo stesso tempo, è lo schermo che gliene nasconde la comprensione. Nel denaro, nelle cose che per suo tramite si ottengono, l’uomo adora, senza riconoscerle, le immense potenzialità del lavoro sociale.
Per emancipare l’umanità da questa schiavitù, le prediche delle tonache valgono quanto i tentativi dei politici di limitare i megabonus dei finanzieri: poco più di nulla. Occorre una società che rimetta nelle mani degli uomini il controllo del lavoro sociale che oggi è affidato al profitto. La “natura umana”, se bisogna scomodarla, consiste nella capacità e nella necessità di lavorare in società, e il comunismo è l’unica forma sociale che vi corrisponde pienamente.»
Grazie, Anonimo, per la ghiotta lettura che ci hai offerto. Circa lo stretto rapporto tra irrazionalità e fideismo, da te evocato nell'intervento, ricordo che nel lontano 1999 l’"Avvenire" dette un particolare rilievo all’apprezzamento positivo che Pier Aldo Rovatti, esponente del ‘pensiero debole’, aveva espresso sull’enciclica papale ‘Fides et ratio’. In effetti, l'intervento di Rovatti era solo un fuoco fatuo generato dalla "notte in cui tutte le vacche sono grigie”, giacché Hegel era ed è il vero bersaglio di quell’irrazionalismo contemporaneo che da Schelling giunge sino a Nietzsche e da Hitler sino a Heidegger? Una simile notte è, ad un tempo, il luogo da cui muove (e in cui è destinato a scomparire) l’attacco dei nipotini di Nietzsche alla ragione umana. Basta un solo raggio di luce affinché questa potente lampada fumivora dissolva i riti misteriosofici di quelli. “Nessuna idea della verità può chiamarsi fuori dall’esperienza del credere”, predicava don Rovatti, il quale subito dopo ci metteva in guardia dalle tentazioni del Maligno aggiungendo che “se [un’idea di verità] si illude di farlo diventano subito manifesti gli effetti autoritari della verità stessa”. Alla quale tesi noi, che preferiamo l’alleanza della verità col Maligno all’alleanza della falsità con gli angeli, rispondemmo che, certamente, la ragione implica la fede in se stessa, esattamente come, per ricorrere ad un esempio tratto dall’esperienza comune, l’uso del martello implica la fede nella sua capacità di battere e conficcare i chiodi. Ché se poi ci venga nuovamente obiettato che in tal modo noi non fondiamo la ragione perché la presupponiamo, risponderemo che un tale rilievo è inetto in quanto noi abbiamo conquistato la ragione attraverso l’esperienza storica e individuale della negazione della ragione, sicché la nostra affermazione della ragione non è altro che un giudizio assertorio, ossia un’affermazione mediata attraverso la negazione della negazione.
EliminaDemmo allora a Rovatti un modesto consiglio: che si interrogasse più sul mestiere del filosofo che non sul mistero (quel “mistero da non svelare" che, secondo il nostro entusiasta enigmofilo, “molti pensatori hanno incontrato col nome di sacro”) e che, per piacere, dopo Kant e dopo Hegel la smettesse di considerare la filosofia come un sermone edificante che deve servire a compensare con investimenti onirici la crescen-e durezza del reale. Infine, dal momento che Rovatti dichiarava di soffrire per “il crampo di un pensiero che non riesce a pensare quanto ci eccede (si tratti di guerra o tecnologia)”, ci permettevamo di ricordargli che la teoria marxista da tempo ha sciolto tale crampo, riconducendo la spiegazione della guerra e della tecnologia agli esistenti rapporti di produzione e di scambio.
Sig. Barone, nel post “Pigliate 'na pastiglia...” del 9 agosto alle 19:52 (in quello che lei parla della cura per “ i quadri militari”), le ho inviato il mio indirizzo di posta elettronica.
EliminaVediamo se, questo semplice quanto innocuo-informale comunicato/richiesta, il proprietario di questo blog, me lo farà passare. E poi toglierò il disturbo se...
Saluti.
Plinio il vecchio (non… Anonimo)