venerdì 27 dicembre 2024

Il taccuino di un pragmatico reazionario

 

Per sapere chi sia stato Ettore Conti (1871-1972) nella sua veste di imprenditore “elettrico” e di politico, si può consultare la Treccani e ancor meglio, per una volta, Wikipedia. Per quanto riguarda i suoi rapporti con vari personaggi della sua epoca, segnatamente nel periodo 1895-1940, si può leggerli Dal taccuino di un borghese, ossia dalle sue memorie pubblicate per la prima volta nel 1946 e in seguito riedite più volte.

Il punto è proprio questo: quanto sono genuine queste memorie posto che sono state pubblicate ex post, ossia dopo la caduta del fascismo e la fine della monarchia? Quanto sono state “purgate”, a mo’ dei Diari di un Galeazzo Ciano?

Ed infatti, nella sua Introduzione del 1986, Piero Bairati scrive: «È anche stato sottolineato il carattere alquanto “artificioso” che il libro di Ettore Conti verrebbe ad assumere, in quanto un “taccuino” dovrebbe essere annotazione giorno per giorno di eventi ed esperienze in corso, non ricostruzione o rivisitazione a posteriori, concentrata nel tempo e compressa nella struttura di una stesura unitaria, che sarebbe caratteristica di un’autobiografia e non di un diario. Mancando la possibilità di fare un confronto tra questa versione e i materiali originari, è difficile stabilire l’entità e l’importanza delle revisioni apportate da conti agli appunti su cui è basato.»

Resta il fatto che questo libro ha la sua importanza, anche perché Ettore Conti è tra i pochi imprenditori italiani ad averci lasciato un’autobiografia imprenditoriale. Al contrario di ciò che avviene negli Stati Uniti e in Inghilterra, così come in altri paesi, questo è un genere letterario che in Italia non gode di grande popolarità, come dice lo stesso Bairati. Oppure, ciò è dovuto al fatto che gli imprenditori italiani in genere non hanno dimestichezza con la penna, e non desiderano mettere in piazza cose che è meglio il pubblico ignori? Preferiscono le interviste col giornalista in ginocchio.

Giovanni Agnelli senior, per esempio, semmai avesse voluto scrivere le sue memorie, avrebbe potuto raccontare della truffa ai danni degli azionisti Fiat all’inizio del secolo? E suo nipote, Giovanni detto l’Avvocato, non aveva certo in animo di raccontarci altre storie economiche e finanziarie scabrose, peraltro in parte messa in luce in questi anni e dalle liti ereditarie.

Un esempio, sul quale mi sembra di poter rilevare la “reticenza” di Conti, che fu molto e a lungo legato professionalmente alla società Edison. Conti si dilunga nella commemorazione di Giuseppe Colombo, già presidente della Edison (dal 1884), quindi cita innumerevoli volte Carlo Esterle, dal 1896 al 1918 consigliere delegato della medesima società elettrica, e altri. Ma non cita neanche una volta Giacinto Motta. Leggo dalla Treccani: «Nella primavera del 1918, Motta ed Esterle iniziarono a lavorare all’ipotesi di una fusione tra la Edison e la Società per imprese elettriche Conti e C., un’idea della quale discussero con Ettore Conti (creatore dell’omonima società). Il progetto non andò però in porto per divergenze circa il nome della nuova società (Esterle non voleva aggiungere il nome della Conti a quello della Edison, mentre Conti spingeva per vederli abbinati). Il 7 settembre 1918 Esterle morì e Motta fu eletto al suo posto amministratore delegato della Edison».

Forse Giacinto Motta fu troppo compromesso con il fascismo? O forse i due personaggi, Conti e Motta, non si “tagliavano” affatto? Il perché di questa non casuale omissione lo sapeva solo Ettore Conti. Il quale, peraltro, non ci racconta nulla di un fatto rimarchevole svoltosi nel 1918, ossia il tentativo di scalata alla Edison da parte del trust siderurgico Terni-

Ilva, degli industriali Attilio Odero e Giuseppe Orlando, vicini alla Commerciale, della quale Conte entrò a far parte come consigliere proprio in quei mesi (in seguito ne divenne uno dei due vice presidenti).

Tra i molti personaggi citati nel libro dall’ingegnere e poi senatore Conti, spicca quello di D’Annunzio Gabriele, del quale Conti ci offre un suo ritratto, che ritengo azzeccato in pieno:

Interessante anche il racconto di Conti sulla missione commerciale italiana (febbraio-marzo 1920) nelle tre repubbliche della Transcaucasia (Georgia, Azerbaigian, Armenia russa), della quale il Conti stesso venne messo a capo. La questione del possibile affidamento all’Italia della Transcaucasia fu discussa ed approvata dalla Sezione Militare del Consiglio Supremo che aveva sede a Versailles durante la 53° seduta della commissione, che ebbe luogo il 4 e 5 febbraio 1919. L’argomento principale di quella riunione fu la necessità di stabilire dei mandati provvisori sui territori dell’ex Impero Ottomano (tutto ciò non è specificato nel libro di Conti).

Le tre repubbliche dichiararono la propria indipendenza il 26 maggio 1918 (nel 1922 si uniscono in federazione e passano sotto l’URSS; nel 1936 la federazione venne sciolta) [*]. I loro governi tendevano a sottolineare le immense ricchezze disponibili per tentare di attrarre possibili investitori stranieri e spingere i governi alleati ad impegnarsi nel mantenimento dell’ordine nella zona (l’anno prima, Italia aveva inviato in loco la “missione col. Gabba”; Conti non ne fa cenno).

Con Conti salì a bordo della nave “Solunto” una nutrita schiera di imprenditori, diplomatici, militari, tecnici minerari e giornalisti (oltre a 200 carabinieri di scorta). Tra i giornalisti, racconta Conti, ci sarebbe dovuto essere anche Mussolini, il quale aveva già scritto nel suo giornale di questa missione. Sennonché, all’ultimo momento, data la situazione politica, Mussolini disdice la sua partecipazione alla missione.

Sicuramente tra i giornalisti imbarcati, c’era anche Pietro Nenni. Dei due giornalisti, Mussolini e Nenni, Conti scrive: «[Nenni] dice di averlo conosciuto bene [Mussolini] quando erano dalle due parti della barricata, riconosce in lui un oscuro fascino di condottiero, uomo forte, che vuole distinguersi, essere il primo, in un modo o in un altro, per una strada o per un’altra; oggi contro i borghesi, domani signore; uomo dunque che potrà fare molto bene o molto male, ma che comunque farà parlare di sé.»

Il viaggio a seguito della missione in Caucasia per Nenni fu molto importante perché gli permise di entrare in contatto con il mondo sovietico. In quello stesso anno lascerà definitivamente il partito repubblicano.

Non è casuale che il taccuino edito da Ettore Conti, geniale e complesso personaggio, si fermi all’entrata in guerra dell’Italia mussoliniana. La sua adesione al fascismo, pur a tratti critica, fu sostanziale, così come fu convinta e fattiva l’adesione della totalità della borghesia imprenditoriale italiana nella sua volontà classista di rivincita e trionfo. I fascismi sono stati (e sono) il prodotto della crisi del sistema borghese, impossibilitato a superare la propria contraddizione principale. Per contro, il socialismo rivoluzionario di allora, rappresentò la risposta fallimentare teorico-pratica a quella stessa crisi. La storia non fa salti e nemmeno sconti.

[*] Il fallimento della Conferenza della pace di Parigi è da imputare al grave stato di impreparazione, alla superficialità ed all’approssimazione con cui gli esperti ed i plenipotenziari affrontarono i problemi che si presentarono alla fine della guerra. Guidati dal senso di rivalsa e privi di una visione politica e strategica non riuscirono a dipanare la matassa intricata delle nazionalità e delle etnie in maniera tale da ricostituire un equilibrio europeo duraturo.

La delegazione italiana giunse alla conferenza di Versailles senza una linea comune e senza alcun accordo con gli Stati Uniti. L’errore più grave fu quello di basare la maggior parte delle richieste su motivazioni di carattere strategico, invise a Wilson, che riteneva, dopo la creazione della Società delle Nazioni, che tali rivendicazioni non avrebbero avuto più alcuna ragione di esistere, dato che le controversie internazionali sarebbero state risolte pacificamente in seno alla SdN.

lunedì 23 dicembre 2024

La gioiosa commedia

 

Già sentiamo i buoni profumi culinari del Natale, che anticipano di qualche ora i pasti senza fine in famiglia. Ingozziamoci di tumori ben confezionati, che poi ci premiano per essere stati ubbidienti tutto l’anno con un viaggio di andata e ritorno al pronto soccorso.

A seguire la gioiosa commedia della distribuzione dei regali, per la gioia dei bambini e spesso per la delusione degli adulti. Poiché il calo della natalità ha avuto un impatto molto forte sul settore dei giocattoli, arriveremo al punto che questi oggetti verranno regalati agli adulti. Non vedo l’ora che mi regalino un peluche. Non ho avuto un un’infanzia fantastica, quindi vorrei recuperare.

Chi ha detto che un peluche non possa commuoverti una volta superata da decenni la fase dell’infanzia? Vale anche per i Babbi Natale. Nei luoghi di tutti gli eccessi di bilancio e di audacia capitalistica li vestono da pedofili alcolizzati per trasmettere emozioni. Del resto, soprattutto oggi, viviamo in un periodo iper-ansioso in cui le persone hanno bisogno di leggerezza e morbidezza. L’industria l’ha capito perfettamente, infatti la pubblicità ci esorta instancabilmente nel periodo natalizio a coltivare il nostro bambino interiore.

E invece i parenti immancabilmente mi regalano dei libri, pensando di farmi cosa gradita (chi ha messo in giro ‘sta voce?). E ogni anno devo fingere (ma non so fingere bene) di ricevere mattoni che mi interessano molto. Non s’è capito che regalarmi un libro che m’interessi davvero è molto difficile. Lo dico senza spocchia, quasi mai, specie di questi tempi, si trovano sui banchi delle librerie. Penso che chi mi regala un libro per Natale, lo faccia per liquidare con scarso impegno l’incombenza.

Ogni anno il proposito, per il giorno di Natale, di dire a chi mi regala un libro: avrei preferito un peluche rosa confetto. Poi, non mantengo fede al mio giuramento.

venerdì 20 dicembre 2024

Perché stupirci?


Si stupiscono per come parla e si agita la presidente del consiglio, sia che si trovi in parlamento e sia che si esibisca alle adunate dei suoi camerati. Non vedo alcun motivo per stupirsi: non parla per dire qualcosa, ma per ottenere un certo effetto. Non è la sola a comportarsi in questo modo.

In questi tempi di massacro linguistico diffuso, è diventato normale parlare per ottenere un certo effetto e non per dire qualcosa di concreto, di razionale. Quasi non ci accorgiamo più delle svolte linguistiche e degli spostamenti semantici. Esempio: usare l’aggettivo “patriottico”, e altri termini e frasari tipicamente parafascisti, sta diventando di uso comune.

Di che cosa ci dovremmo stupire? Del resto, siamo stati preparati, predisposti per tempo, a questa svolta semantica. Il significato reale del discorso pubblico (ma in gran parte vale anche per quello privato) non ha più importanza. 

L’addomesticamento è diventato realtà già attraverso l’algoritmo. Non è forse un fatto che la nostra esistenza è stata interamente digitalizzata, che sono gli algoritmi a determinare il nostro profilo: ciò che siamo, ciò di cui abbiamo bisogno e desideriamo? Siamo diventati dei semplici interruttori di un vasto circuito integrato, autorizzati ad accendere o spegnere, e basta.

Questo è un fatto sul quale dovremmo riflettere e preoccuparci anche più degli atteggiamenti e del frasario di fascisti e criptofascisti oggi sdraiati sugli scranni del potere. 

mercoledì 18 dicembre 2024

La sconfitta dell'Europa

 

Possiamo ammettere che un’economia innovativa è preferibile a un’economia che non si evolve o lo fa lentamente e parzialmente. Ma una volta affermato questo truismo, i settori economici meno innovativi devono necessariamente imitare la strategia di quelli più innovativi, e fino a quale punto? Dopo tutto, le vecchie produzioni del XIX e del XX secolo non scompariranno a causa della rivoluzione digitale.

Il sistema produttivo deve rispondere soprattutto ai bisogni umani, e non tutti i nostri bisogni nascono dalle tecnologie del XXI secolo. Le economie si sviluppano e diventano più complesse, aggiungiamo nuovi livelli di attività, ma ciò non deve far necessariamente sparire quelle del passato. Non tutti gli ambiti economici possono specializzarsi con il pretesto che sarebbero più promettenti in termini di crescita.

Ma ciò è incompatibile con la logica del capitale, il quale riconosce al lavoratore il diritto di consumare solo ciò che decide il “mercato”. Imitiamo, subalterni, gli Stati Uniti, e con ciò il disastro sociale è sotto gli occhi di tutti e si sta aggravando. Coloro che pensano di saperla lunga, rispondono che ciò accade proprio perché l’Europa, e in particolare l’Italia, non è innovativa e tecnologica come gli Usa. Si sta confondendo la causa con le sue conseguenze.

Le domande che bisognerebbe porsi sono: perché gli Stati Uniti hanno puntando tutto sulle tecnologie digitali? Perché il famoso GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) e la maggior parte degli altri giganti della nuova tecnologia (Tesla, Nvidia...), così come le maggiori aziende di AI sono tutte americane e non europee?

Va da sé che gli Stati Uniti per dominare, sia in termini economici che geopolitici, hanno la necessità di dotarsi delle tecnologie più avanzate. Hanno questi giganti tecnologici perché hanno i mezzi per investire e innovare (vedi l’Inflation Reduction Act, varata da Washington nell’agosto 2022), anche se ciò significa farlo in settori privi di reale sbocco. È sufficiente, ad esempio, notare il baratro finanziario e lo spreco di risorse per il Metaverso o il modo in cui alcune aziende digitali hanno perso somme folli con i Non-Fungible Tokens.

La maggior parte delle grandi aziende di oggi hanno iniziato in piccolo e senza molto capitale. La domanda è quindi perché sono riusciti a crescere ed espandersi facilmente mentre i loro concorrenti europei sono in gran parte scomparsi o quasi. Perché sono prevalsi YouTube e Facebook e non altri? Semplicemente un problema di mancanza di finanziamenti o di voglia di innovazione?

Mettiamo le cose in ordine e cominciamo con il notare che la dominazione americana non è solo tecnologica. A tale riguardo potremmo raccontare la classica storia dell’Olivetti e di tante altre realtà industriali che un tempo erano all’avanguardia, ma è un discorso che ci porterebbe lontano nel tempo. Veniamo all’oggi. Uno dei motivi principali che fa sì che le aziende americane abbiano successo è soprattutto un vantaggio che manca agli europei: l’unità culturale e linguistica, che permette loro di incentivare l’utilizzo dei propri servizi, soprattutto all’inizio del ciclo, e proprio nel momento in cui un’azienda deve imporsi.

A differenza degli europei, gli Stati Uniti hanno un’industria culturale gigantesca e un “soft power” che porta i paesi del vecchio continente a guardare di più a quanto sta accadendo dall’altra parte dell’Atlantico che tra i loro immediati vicini. Questo spiega perché, per un servizio simile esistente sia negli Stati Uniti che in Germania o in Italia, un francese o uno svedese saranno più portati ad utilizzare lo strumento americano rispetto a quello offerto dai loro vicini europei.

In definitiva, quali paesi sono in grado di creare i propri social network o siti commerciali con i quali possono competere nel campo digitale con gli Stati Uniti? La Cina e, in misura minore, la Russia. Se questo è possibile in questi due paesi, non è perché la loro popolazione sia più innovativa di quella europea, ma perché i loro governi praticano un protezionismo impossibile da concepire in Europa. Hanno potuto sviluppare alternative locali perché i giganti digitali americani sono stati privati dell’accesso al mercato cinese.

Inoltre, lo Stato cinese ha contribuito al successo di Tik-Tok o Alibaba più della dinamica innovazione dell’economia cinese, ovvero con la sua capacità di finanziare le proprie start- up. Secondo l’Ocse, mentre gli Stati Uniti spendono l’equivalente del 3,5% del PIL in ricerca e sviluppo, l’UE nel suo insieme spende solo 2,1%, un livello inferiore alla media dei paesi OCSE (2,7%).

Dopo la crisi del 2008, mentre gli Stati Uniti hanno perseguito una politica di ripresa nel 2010-2011, l’Unione Europea, a causa dei vincoli di bilancio che si è imposta, ha praticato una politica di austerità che ha spinto il continente in una seconda recessione. Le regole di bilancio sono state le principali cause della minore crescita europea.

C’è voluta la pandemia perché l’UE sospendesse le regole che proibiscono gli aiuti di Stato. In tal modo gli Stati membri hanno potuto mobilitare 672 miliardi di euro di fondi pubblici per sostenere le loro imprese nazionali. Tuttavia, il 53% di questi aiuti è stato notificato dalla Germania, il 24% dalla Francia, il 7% dall’Italia, il rimanente 16% dagli altri 24 Stati membri. Quanto al famigerato PNRR, dapprima è stata stabilita l’entità dei fondi (in gran parte a debito) e solo dopo i progetti di spesa! Del resto manca totalmente la volontà (è una questione di classe: nulla è neutrale politicamente!) e la capacità (è una questione culturale) per realizzare dei progetti dirompenti.

Per accennare, altra questione riguarda i problemi della concorrenza fiscale intraeuropea che gravano pesantemente sulle entrate degli Stati e quindi sulla loro capacità di sostenere la spesa pubblica. Inoltre, quando guardiamo alla crescita delle disuguaglianze, essa è dovuta alla crescita dei redditi da capitale e ciò ha poco a che fare con lo sviluppo tecnologico.

Un altro elemento importante che supporta la tesi della disconnessione europea rispetto agli Usa è che la produttività del lavoro sarebbe aumentata molto di più negli Stati Uniti che in Europa. La spiegazione sarebbe, ancora una volta, essenzialmente tecnologica. Secondo il modello standard dell’economia, la crescita sarebbe una conseguenza degli investimenti, e gli investimenti una conseguenza dell’innovazione.

Possiamo però contestare questo modello e interrogarci sull’origine del divario del PIL. Calcolare la produttività del lavoro è abbastanza semplice. Si noti però che questa operazione non dice nulla sulle cause e le conseguenze. Spontaneamente tendiamo a pensare che sia l’occupazione a creare ricchezza e quindi che è l’aumento della produttività del lavoro a spiegare la crescita del PIL pro capite. In effetti è il lavoro umano la sola fonte di produzione di nuova ricchezza, ma come questa ricchezza sia poi distribuita è un altro paio di maniche.

Potremmo essere in presenza di un livello di maggiore produttività apparente del lavoro. Ed è esattamente ciò che sta accadendo, non da oggi, nell’economia americana. Il settore della tecnologia digitale nel suo complesso rappresenta oltre il 10% del Pil americano, ovvero circa 2.600 miliardi di dollari (2022), più del Pil dell’Italia. Tuttavia, questo settore rappresenta meno del 6% dell’occupazione totale. Dovremmo concludere che i lavoratori digitali sono quasi due volte più produttivi rispetto a quelli del resto dell’economia?

In realtà, la forza dei giganti della tecnologia digitale americana deriva dalla loro situazione monopolistica e dal fatto che generano profitti sotto forma di rendita. In altre parole, non è il lavoro dei dipendenti del settore digitale che produce gran parte della ricchezza di queste aziende, ma il potere di mercato che hanno acquisito imponendosi nell’economia mondiale.

Gran parte dell’aumento della produttività del lavoro negli Stati Uniti non deriva quindi dalla performance intrinseca dei lavoratori, né dalle loro competenze, ma da un modello di economia della rendita che ha finito per affermarsi nel settore digitale e che influenza le statistiche dell’economia americana nel suo insieme catturando plusvalore dall’intero pianeta.

La conseguenza che se ne trae è sicuramente il dominio degli Stati Uniti nell’economia, e il digitale è un vantaggio reale che spiega in parte il suo successo negli ultimi venti o trenta anni. Tuttavia, ciò significa anche che questa strategia non può essere imitata dai paesi dell’UE, che del resto sono paradossalmente più ossequiosi alla dottrina neoliberista degli stessi Stati Uniti, dove peraltro il protezionismo è ancora una volta al centro delle politiche economiche, sia di Trump o tra i democratici.

Essere in una situazione di monopolio significa essere soli. Se l’UE dovesse sviluppare i propri giganti della tecnologia digitale imitando la strategia protezionistica cinese (fatto da escludersi in qualsiasi modo e per diversi motivi) probabilmente non potrebbe generare tanto reddito quanto quello che generano le famose GAFAM che sfruttano mercati molto più grandi.

Se pensiamo di ottenere le stesse performance dell’economia americana, di seguire sulla strada tecnologica gli Stati Uniti e di somigliare a loro (“Stati Uniti d’Europa”), siamo sulla strada sbagliata. Un simile progetto, presentato in forma tecnica ed economica (per es. l’illusionista Mario Draghi), senza mai mettere in discussione il progetto politico sottostante né ovviamente il modello di società che ne è alla base, ciò produrrà inevitabilmente altri guasti sociali e l’affermazione elettorale delle destre populiste e fasciste diventerà un fatto irreversibile in tutta Europa.

lunedì 16 dicembre 2024

"Israele è diventata priva di qualsiasi traccia di umanità"


Di Gideon Levy – 8 dicembre 2024

Cos’altro deve accadere affinché i cittadini israeliani si scrollino di dosso la loro paralizzante apatia? Quali altri orrori devono verificarsi affinché i media di medio livello si degnino di svolgere il loro ruolo e di denunciarli? Cosa potrebbe incrinare la narrazione del 7 ottobre in cui è impantanato Israele, con la sconvolgente affermazione che sulla sua scia tutto è lecito e che solo lui è la vittima?

Ora sembra che niente possa aiutare. Niente infrangerà l’involucro di cristallo che Israele ha costruito per sé stesso per evitare di affrontare i fatti. E i fatti stanno arrivando ora, accompagnati da prove definitive: Israele sta perpetrando barbari Crimini di Guerra a Gaza. Non come eccezioni, ma come politica.

Non come eccezionalità, ma come una questione sistemica. Non si può più negare il messaggio, anche se Israele ci sta ancora provando. Altri diecimila bambini morti basteranno a sconvolgere questo Paese? Altri mille video raccapriccianti toccheranno qualcuno? Forse l’esecuzione di mille uomini ammanettati di fronte a un muro? È molto improbabile.

Il resto dell’articolo potete leggerlo qui

sabato 14 dicembre 2024

È Stato le Brigate rosse

 

Ieri, Rai Storia, in occasione del 55° anniversario della strage di P.za Fontana, ha trasmesso un documentario dal titolo 1969: niente come prima. Il programma è a firma di Enrico Salvatori, scritto con Brigida Gullo e Giorgio Taschini. Il commento in presenza è affidato allo storico Umberto Gentiloni, il quale, a proposito della strage e degli altri concomitanti attentati di Roma, dice che si segue la “pista anarchica”, posti i precedenti storici (secondo lui).

A riguardo di Giuseppe Pinelli, Gentiloni dice: “Muore saltando da una finestra. La sentenza definitiva parlerà poi di un malore attivo dell’anarchico Pinelli in un contesto pieno di luci [sic!] e ombre, certamente inquietante per l’Italia di allora”.

Viene proposta anche la faccia di Bruno Vespa, un individuo al servizio della verità da più mezzo secolo, quando dalla questura di Milano disse con enfasi: “Pietro Valpreda è un colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”.

Sempre a proposito della “pista anarchica”, Gentiloni infine conclude: “Questa pista si riva una pista sbagliata, [...] terribilmente sbagliata, dove finiscono innocenti coinvolti nelle indagini [...]”. Pista sbagliata o pista perseguita con premeditazione e fin da subito, come emergerà chiaramente in seguito?

La voce fuori campo dirà poi che Valpreda “viene assolto nel 1987”. Senza aggiungere altro. La parola fascisti o neofascisti, i nomi di Freda e Ventura, di Ordine nuovo, eccetera, come non fossero mai esistiti e nulla avessero a che fare con gli anni delle bombe.

Coltivare il luogo comune di una verità ignota, di una strage senza paternità, di misteri totalmente mai diradati, è di un conformismo speculare a quello che, all’inizio della vicenda del 1969, viziò la ricerca dei responsabili della bomba che uccise 17 persone e ne ferì 88. Non viziò allora le indagini per caso, così come oggi non è un caso quello di tacere dei fascisti: si tace del ruolo dei fascisti sulla vicenda di ieri per poter tacere sui retaggi fascisti di oggi.

Neanche si può dire che «strategia della tensione» e «matrice neofascista» delle stragi di quel lustro (piazza Fontana, treno Freccia del Sud, Peteano, Questura di Milano, piazza della Loggia, treno Italicus) siano espressioni che manchino di conferme processuali, come ad esempio la condanna definitiva di Freda e Ventura per le bombe del 1969 pre-piazza Fontana.

Così come sono stati identificati responsabili della strage. Carlo Digilio, neofascista di Ordine Nuovo, ha confessato il proprio ruolo nella preparazione dell’attentato e ottenuto nel 2000 la prescrizione per il prevalere delle attenuanti riconosciutegli appunto per il suo contributo. E la Cassazione del 2005, nel confermare l’assoluzione in appello del trio Zorzi- Maggi-Rognoni condannato in primo grado nel 2000 all’ergastolo, ha chiaramente scritto che con le nuove prove, emerse nelle inchieste successive allo «scippo» del processo milanese nel 1972 e alla definitiva assoluzione nel 1987 degli ordinovisti veneti Franco Freda e Giovanni Ventura, entrambi sarebbero stati condannati.

Neppure «servizi deviati», «depistaggi» e «ruolo degli americani» sono concetti che prescindono da punti fermi giudiziari. L’ex generale del Sid, Gian Adelio Maletti (dal 1980 riparò in Sudafrica), e il capitano Antonio Labruna ebbero condanne definitive per il depistaggio di indagini alle quali sottrassero protagonisti cruciali fatti scappare all’estero. E

circa il ruolo americano è stata ricostruita la catena di comando Usa che gestiva il neofascista Digilio come collaboratore nascosto della Cia.

Se poi i liceali (ma non solo loro) di oggi ignorano chi siano stati Valpreda, Pinelli o Calabresi, e attribuiscono la strage di piazza Fontana alle Brigate rosse, questo va sul conto di un’informazione che sta leccando gli stivalini a chi è al governo oggi.

venerdì 13 dicembre 2024

Tacere sempre non è libertà

 

Tra le libertà fondamentali c’è la libertà di pensare, di scrivere, di discutere, e però anche di tacere. Ma tacere sempre e comunque non è libertà. Diventa altro. Non spetta a me dire cosa dovrebbero fare gli altri. Ho troppa difficoltà a sapere ciò che è giusto e, sapendolo, neanche per ipotesi penso, se lo potessi fare, di guidare l’azione degli altri. Forse so qual è il ruolo dell’intelligenza, che non è quello di scegliere tra il male e il male minore. Significa distinguere i limiti a partire dai quali le nozioni cambiano significato. Niente è razionale, in definitiva, in un potere che s’impone, cresce e si isola attraverso il terrore. Vorrei, per esempio, che gli ebrei onesti, proprio perché ebrei, proprio per la loro storia, chiamassero le cose, cioè quanto sta accadendo in Palestina, col loro nome.

mercoledì 11 dicembre 2024

A nessuno mancherà Bashar al-Assad

 

Dietro l’offensiva militare dei “ribelli” siriani si nasconde il gioco delle ambizioni e dei calcoli politici delle potenze regionali. Non ultima Israele, che punta a dominare tutta l’area. E la Turchia, per motivi diversi.

Sono trascorsi tredici anni da quando la Siria è precipitata in una sanguinosa guerra civile. Tredici anni e più di 300.000 morti, un milione di feriti e sei milioni di esiliati. Per quattro anni, però, si credette che la guerra dormisse. Un cessate il fuoco, firmato nel 2020, tra i ribelli islamici e l’esercito di Bashar al-Assad aveva stabilizzato il paese. A parte qualche raro bombardamento e incursioni di commando su entrambi i lati della linea del fronte, non vi furono offensive importanti.

Il 27 novembre, i ribelli islamici di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), ex fazione di al-Qaeda che controlla parte del nord-ovest del Paese, hanno ripreso le armi per marciare verso Aleppo, seconda città del Paese controllata da al-Assad dal 2016. Un’offensiva chiamata sobriamente “Deterring Aggression”. In tre giorni Aleppo è caduta e la sua cittadella millenaria è stata ricoperta dalle bandiere della “Siria libera”. Oltre alla sorpresa dell’attacco, è stata sorprendente l’efficacia militare dell’offensiva, che è arrivata ad occupare Damasco. Ma, per comprendere le ragioni di questo successo militare, è agli alleati dei belligeranti che dobbiamo guardare più da vicino.

Innanzitutto, l’Iran. Il regime ufficiale della Siria e l’Iran erano alleati da decenni. Un’alleanza che risale alla rivoluzione iraniana, epoca in cui Iran e Siria avevano un nemico comune: l’Iraq. Mentre Bashar al-Assad reprimeva nel sangue il desiderio di libertà del suo popolo, il regime dei mullah gli dava una mano, e ancor più i combattenti del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, detti anche “consiglieri militari”.

Durante la presa di Aleppo, i combattenti guidati dall’Iran si trovavano da tutt’altra parte. Con gli scontri tra Hezbollah e Israele, il regime iraniano ha dovuto rimpatriare parte delle sue forze nel sud del Libano. I combattenti dell’HTS hanno semplicemente colto l’occasione per attaccare. Quanto ai russi, alle prese con la guerra in Ucraina, potevano fornire solo pochi aerei militari.

Oltre alla tempestiva debolezza dei suoi alleati, l’esercito ufficiale siriano ha sofferto del sostegno fornito dai turchi ai ribelli islamici. Com’è noto, la Turchia è molto presente sul territorio siriano. Dispone addirittura di un proprio contingente di uomini, l’Esercito nazionale siriano (ANS), che riunisce tra i 20.000 e i 35.000 combattenti addestrati, equipaggiati e pagati dalla Turchia. Parallelamente alla recente offensiva, l’ANS ha lanciato un proprio assalto. Questa volta non contro l’esercito di Bashar, ma contro i nemici giurati della Turchia: i curdi. Dal 2016, una piccola enclave attorno alla città di Tall Rifaat ospita un’amministrazione curda. Il gruppo paramilitare affiliato ai turchi ha attaccato questa roccaforte dei curdi siriani, a margine dell’offensiva dei ribelli islamici, fino ad occuparla completamente e poi assediare Manbij. Pare si sia giunti ora a un accordo per il cessate il fuoco.

La Turchia lotta contro i curdi, ma gestisce anche la crisi dei rifugiati siriani. Ankara accoglie più esuli del regime di Bashar di tutti gli altri paesi messi insieme. Ad oggi, si ritiene che più di 3,5 milioni di siriani in fuga risiedano in Turchia. Una situazione che crea dissensi all’interno della popolazione al punto da farsi sentire sempre di più alle urne. Quest’estate le autorità turche hanno addirittura denunciato veri e propri “pogrom” anti-siriani. Per il regime turco, l’espansione delle aree controllate dagli islamisti siriani faciliterebbe il ritorno di numerosi profughi in Siria, liberati dalla minaccia di Bashar al-Assad. Questo è uno dei motivi per cui la Turchia è ben felice di essersi sbarazzata di Bashar al-Assad.

Che cosa accadrà ora della Siria? Quello che già successe alla carcassa del turco, cioè all’impero ottomano. Troppe identità etniche e religiose, troppi interessi divergenti, e dunque la cosa più probabile è che della Siria sia fatto uno spezzatino, dove ognuno lotterà per avere il proprio boccone, compresa la Russia per le sue basi aeree e navali a Tartous e Hmeimim.

Il bersaglio grosso, per i sionisti e gli islamici sunniti, resta comunque l’Iran.

lunedì 9 dicembre 2024

Il Paese più socialista d'Europa

 

Chi vuole il socialismo? Qui da noi, in Europa? Quasi nessuno. E poi, di quale socialismo stiamo parlando? È una roba che appartiene al passato il socialismo, così come le idee di uguaglianza e altre cose così ... Pourparler, mettiamoci sopra una pietra tombale e non pensiamoci più.

Pur con tutte le sue contraddizioni e i suoi difetti il capitalismo ci ha consentito di fare un bel passo avanti. Dopo secoli di sviluppo tecnologico e scientifico non patiamo più la fame, la polenta e le zuppe di pane raffermo sono diventate cibo da gourmet. Quasi tutti abbiamo un tetto di proprietà, scuole e sanità quasi gratuiti, anche se sempre più scadenti, e alla fine il diritto alla pensione. Non è socialismo anche questo, sia pure insieme reazionario per quanto attiene l’universalismo astratto e pragmatico per quanto riguarda i rapporti patrimoniali?

Dunque, chi vuole il socialismo o, per dir peggio, il comunismo? Nell’apparenza dei rapporti di classe, il capitalismo si è liberato di molte contraddizioni non essenziali. L’esercizio dello sfruttamento avviene in circostanze e condizioni totalmente differenti rispetto al passato, salvo eccezioni più o meno ampie. Insomma non ce la passiamo male, anche se c’è sempre più gente che non se la passa bene, ma sempre meglio che nel “socialismo reale”, quel sistema sociale più odioso addirittura del nostro che ha giustificato solo il proprio dogmatismo.

Tuttavia le contraddizioni fondamentali che rivelano la dittatura di classe nella sua essenza sono diventate ancora più dirompenti. Lo sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, e poi le rivalità fra potenze che si sviluppano tutte su un terreno comune, ossia il capitalismo globalizzato il cui solo scopo è la guerra per il dominio del mercato mondiale.

Ma noi, avvolti nel nostro bozzolo piccolo borghese, impregnati di rugiada sentimentale, ci sentiamo al riparo da quelle brutte faccende che accadono altrove. Almeno fino a quando non ci mettono in cassa integrazione, e per finire “sul mercato” delle braccia. Fino a quando la bomba del debito pubblico, dai e dai, non ci scoppierà in faccia. Quanto alla guerra, mica ci spaventa, anzi ci permette di vendere le armi che produciamo. Per noi la guerra, la morte e distruzione degli altri, è business e posti di lavoro.

È vero che dappertutto nel mondo il sistema parlamentare, sinistra e destra, è in crisi. Quanto all’Unione Europea non è altro che una consorteria per imporre agli europei le regole del liberismo più selvaggio. Ma in fondo chi ha mai creduto realmente che un voto possa cambiare le cose? La via parlamentare non può renderci indipendenti dal gioco economico e politico dominante, questo va da sé e obtorto collo noi eunuchi del potere costituzionalmente sancito bisogna accettarlo come pegno. Non c’è più da pensare a una qualsiasi lotta politica, ci rimane la lotta “letteraria”, sui social. Intonare invettive spiritosamente sarcastiche contro questo e quello, senza mai andare alla radice del problema.

Non è forse per questo motivo che economisti, filantropi, umanitari, riformatori e semplificatori del bilancio statale, protettori degli animali, ci dicono e ripetono, proclamando la propria imparziale superiorità borghese, che questo sistema economico- sociale è il peggiore di tutti fatta eccezione per tutti gli altri? E allora, posto che di meglio in alternativa non c’è nulla (soprattutto per i meglio situati), chi può volere una trasformazione radicale della nostra società, specie qui in Italia, il paese più social-liberale d’Europa?

venerdì 6 dicembre 2024

Solo una maschera

 

Quest’anno, in seguito alla convocazione di elezioni anticipate di Macron, Mélenchon ha formato l’NFP (Nuovo Fronte Popolare), una coalizione dal nome barocco tra il suo partito La France insoumise (LFI), il Partito Socialista (PS) rappresentante delle grandi imprese, il Partito Comunista stalinista, i Verdi e rimasugli anticapitalisti (avete mai sentito Marx o Engels definirsi anticapitalisti? Un motivo c’è!). Questa alleanza opportunistica, con personaggi screditati come l’ex presidente François Hollande del PS, si basava su un programma completamente di destra, tra cui promesse di inviare truppe in Ucraina e rafforzare la polizia antisommossa e le agenzie di spionaggio.

Nelle elezioni, LFI ha ritirato centinaia dei suoi candidati per sostenere i candidati del PS e pro-Macron, sostenendo che questa alleanza avrebbe bloccato l’estrema destra. Mélenchon ha quindi contribuito a far eleggere centinaia di deputati pro-Macron o del PS. Quando le elezioni si sono concluse con un parlamento in stallo, Macron ha prontamente scartato la sua alleanza con l’NFP e si è rivolto all’estrema destra di Le Pen, che inizialmente aveva accettato di sostenere il governo di Barnier senza aderirvi formalmente.

Chi è stato in passato e chi è oggi Jean-Luc Mélenchon, bluff dopo bluff, l’ho scritto nel luglio scorso. Mélenchon ha troppa esperienza nell’apparato politico per ignorare le istituzioni della Quinta Repubblica. Sa benissimo che non si elegge un primo ministro. È il Presidente della Repubblica, e lui solo, a sceglierlo. Come meglio crede. Se non vuole rischiare una crisi istituzionale e vedere il governo cadere dopo poche settimane, Macron aveva tutto l’interesse a nominare una personalità della coalizione politica uscita vincitrice dalle elezioni legislative. Ed è esattamente ciò che questo De Gaulle in sedicesimo non ha fatto.

Macron, un burlone, dopo le elezioni ha spernacchiato Mélenchon e l’NFP, quindi ha mandato a Matignon il Nulla, con l’appoggio dei fascisti, mettendo alla prova la solidità di questa raffazzonata coalizione elettorale, di questa sinistra che non sa più dove vive.

Questa settimana i fascisti hanno tolto il sostegno al Nulla, cioè a Barnier, denunciando la “sinistra” come uno strumento delle banche. Mentre fa campagna per le dimissioni di Macron, Mélenchon si limita a chiedere all’Assemblea nazionale di sostenere un governo guidato dall’NFP, guidato dal burocrate del Ministero delle finanze Lucie Castets.

Il voto non paga; il voto è solo un modo per turlupinare il gregge e la democrazia borghese è una forma di governo che maschera la dittatura di classe.

mercoledì 4 dicembre 2024

L'unica giustizia

 

Ascoltavo, qualche sera fa, il prof. Massimo Cacciari dolersi che da decenni l’Italia è sprovvista di un piano industriale. Più modestamente io sono dell’avviso che è da decenni che il padronato italiano, in stretta colleganza con quello multinazionale e i centri essenziali e dinamici dello Stato, si è dotato di un preciso e articolato piano di ristrutturazione industriale. Del resto, è sufficiente leggere quanto scrivevano le Brigate Rosse a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta per rendersi conto che con quel piano non c’è mai stata discontinuità. Non la politica determina le sue scelte, ma le leggi dell’accumulazione capitalistica.

Nella lotta tra capitale privato e capitale pubblico alla fine prevalse la logica dell’accumulazione. Il supporto ideologico veniva dato da personaggi come Guido Carli quando parlava di una “imprenditorialità burocratizzata, scarsamente amante dell’innovazione”. La livida faziosità di questo tipo di analisi tagliava il mondo in due, schierando il settore privato dell’economia nella parte produttiva della società e dipingendo il settore di Stato a fosche tinte.

È vero che le imprese dello Stato formalmente erano pubbliche, ma in realtà esse dipendevano dalla Democrazia cristiana che, per loro tramite, controllava l’industria, le funzioni creditizie, i servizi pubblici di ogni tipo, e dunque estendeva incessantemente il suo sistema di potere. A partire dagli anni ‘80 cambia tutto, e negli anni ‘90 ci si sbarazza completamente del controllo politico sull’economia facendo intervenire la magistratura a colpi di maglio.

Ma i militanti delle B.R. erano “terroristi”, per definizione farneticanti, al di fuori della realtà. Quante volte abbiamo ascoltato questi giudizi accompagnati dalla solita bava. Prima di giudicare, bisogna leggere, documentarsi, rompere il diaframma che ci tiene prigionieri e accucciati nella nostra quiete coatta. Il fatto che ormai la metà del corpo elettorale non risponda all’appello conferma la tendenza all’indebolimento della funzione di rappresentanza e della capacità di controllo del sistema politico dei partiti.

Questo rifiuto aperto a delegare ai partiti la propria rappresentanza politica e a legittimare lo Stato come luogo di mediazione dei propri interessi di classe, emana da un’area emergente che si va costituendo come sistema antagonistico. È solo questione di tempo e di circostanze.

Quanto al terrorismo, ogni reale resistenza alle ingiunzioni è classificata come terrorismo, quantomeno come pratica illegale e pericolosa per l’ordine esistente. Ma di forme di terrorismo ne esistono di diversi tipi, la principale è data nella versione mostruosa dei rapporti di produzione borghesi.

Oggi è di un aspetto in particolare di tale versione mostruosa del terrorismo borghese che voglio scrivere.

Il reparto CV6 veniva chiamato “il reparto della morte”. Operai che “uno dopo l’altro e un po’ alla volta, morivano e morivano di tumore, giovani: sui 50 anni”. A raccontarlo al giudice Casson un operaio, Gabriele Bortolozzo, che disse al magistrato: «A un certo punto, quando vedevo questi compagni di lavoro che stavano male [il primo disturbo provocato dall’esposizione al CVM è il morbo di Raynaud] e poi morivano [l’86% degli addetti è deceduto per questa malattia; il 25% degli addetti al reparto Cvm sono morti a un’età media di 55 anni], ho cominciato a chiedere, a raccogliere carte e documenti. Lì hanno cominciato a guardarmi storto. Tutti quanti, sia nellambiente di lavoro, sia i sindacati e sia i capi.»

Il CVM, ossia il cloruro di vinile, un composto organico clorurato che a temperatura e pressione ambiente è un gas incolore dal tipico odore dolciastro, insolubile in acqua. È necessario per fare il PVC, il cloruro di polivinile, una specie di resina che viene lavorata e questa resina può diventare finissima, come il talco o il borotalco, oppure diventare granulosa. Mescolandola con altre sostanze (polimerizzazione in emulsione del CVM) si produce la plastica, il PVC. Di PVC siamo pieni: nelle nostre case, nelle nostre auto, nelle scuole, dappertutto.

Nei reparti della Montedison si lavoravano ogni anno 250 mila tonnellate di CVM e 170 mila di PVC.

L’angiosarcoma epatico è il tipico tumore da CVM. Dice Casson: «Il primo dato è che le industrie multinazionali – in Italia Montedison in particolare – sapevano quanto pericolosa fosse la sostanza, tanti tanti anni prima, e hanno continuato a produrre senza pensare alla salute degli operai, senza pensare alla tutela ambientale.»

Ma la fabbrica non ne aveva mai voluto sapere di attribuire tutto ciò al CVM: «Zecchinato Gianfranco beve troppo», rispondevano. E anche a lui era toccata la stessa sorte di Tullio e di decine di altri operai: la direzione non rispondeva nemmeno alle sollecitazioni degli stessi sanitari e men che meno si sognava di allontanare Gianfranco dalle sostanze epatotossiche fino a quando non dovete essere ripetutamente ricoverato, nel corso del 1985 ... » (F. Casson, La fabbrica dei veleni, pp. 238-39).

«I vertici delle industrie – continua Casson – sapevano ed hanno tenuto tutto nascosto per tanti anni fino a che è scoppiato il caso mondiale, lo scandalo Goodrich. Noi abbiamo trovato in questi studi negli Stati Uniti, perfino i documenti con scritto “Strettamente confidenziale”, “Riservato”. Addirittura Montedison, che stava facendo delle ricerche in Italia, a Bologna al castello di Bentivoglio, aveva trovato dei risultati sulla pericolosità cancerogena del CVM e aveva imposto il segreto a tutte le aziende mondiali, facendo firmare un patto di segretezza, una roba da film.»

E poi i rifiuti industriali, come i famosi “fanghi rossi”. Con quei rifiuti della zona industriale di Marghera, in particolare di Montedison, “imbonivano certi quartieri di Mestre. Oltre a riempire tutta la zona del petrolchimico nelle varie buche, c’era una zona che chiamavano Katanga, nella quale buttavano di tutto, perché c’erano i peggiori rifiuti. Ma oltre a imbonire questa zona, c’erano anche delle corti, per esempio la Corte della Mirandolina nel quartiere Pertini, dove avevano spianato tutto e portato e messo lì i peggiori rifiuti”.

Com’è possibile che non sia mai intervenuta la Polizia Giudiziaria o la Magistratura, chiede Casson a Bortolozzo? Che risponde: «Guardi, io, anzi noi, anche con Medicina Democratica ogni tanto, negli ultimi anni, abbiamo presentato delle denunce e degli esposti. Lo facciamo quando c’è un morto o quando c’è inquinamento o quando c’è una fuga di gas (fosgene), che all’epoca era molto frequente a Marghera. Decine di operai alla settimana intossicati: però non succede niente, nessuno fa inchieste, nessuno ha mai fatto indagini, praticamente archiviano tutto e al massimo danno una multa, quella volta di 100.000 lire, una cosa ridicola, e tutto poi continua come prima.»

Casson: «Che cosa era successo in passato? Era successo che innanzitutto la politica non aveva capito o non aveva voluto capire che stava creando, sulle sponde della laguna di Venezia, a 4-5 km dal centro storico di Venezia e attaccata a Mestre, una bomba chimica. I sindacati si sono trovati sempre in difficoltà in questa situazione; non solo i lavoratori, ma anche in fabbrica i sindacati hanno allontanato, isolato Bortolozzo. Ad un certo punto lo accusavano di essere un terrorista e amico dei terroristi

In un’intervista fatta nel 1974 al presidente del consiglio dell’amministrazione Montedison, Eugenio Cefis, questi diceva: “Se i pretori ci condannano per le denunce e gli esposti noi chiudiamo la fabbrica e andiamo via”. Come si vede anche da questi fatti, la borghesia e i padroni avevano un’idea molto ben precisa di “piano industriale”.

28 dirigenti del petrolchimico vengono imputati di essere stati a conoscenza della cancerogenicità del CVM e, nonostante ciò, di non aver provveduto a mettere in sicurezza gli operai né a risanare gli impianti. Inoltre, avrebbero addirittura contraffatto i sistemi di controllo: una nota interna del 1978 di Montedison dice: «Obiettivo primario e costante di tutta la divisione è la competitività; [...] bisogna correre dei ragionevoli rischi [...]. Ognuno di noi paga un premio a una società assicuratrice, per cautelarsi da rischi derivanti dall’uso di questa attività» (dall’esposizione introduttiva al processo di Felice Casson).

Si arriva alla sentenza, il 2 novembre del 2001: gli imputati di Montedison, Montefibre ed Enichem, nonostante la caterva di elementi a loro carico, vengono tutti assolti! Con formule varie: non aver commesso il fatto, il fatto non sussiste, il fatto non costituisce reato, prescrizioni, amnistie. Insomma, per un motivo o l’altro, tutti assolti!

«La battuta più feroce ed al contempo più devastante percepita in aula fu che giustizia vera, l’unica giustizia, era stata quella delle Brigate Rosse, quando avevano deciso di ammazzare i dirigenti del petrolchimico Sergio Gori e Giuseppe Taliercio.» (ibidem, pp. 300-301).

In seguito, con la sentenza d’appello vengono condannati tre amministratori delegati di Montedison, un direttore generale centrale, il responsabile medico igienico ambientale di Montedison e altri due (quello più basso in grado e quello più alto), che erano morti nel frattempo: il direttore dello stabilimento e il presidente del consiglio di amministrazione di Montedison, Eugenio Cefis, a cui viene data l’estinzione del reato. Per il resto, specialmente per le questioni ambientali, tutte le violazioni, erano andate in prescrizione perché all’epoca poi la prescrizione del reato maturava in quattro anni e mezzo o cinque, massimo sette anni, quindi ovviamente era tutto prescritto.

Gabriele Bortolozzo, che aveva depositato il suo esposto in procura nell’agosto 1994, muore nel 1995 in un incidente, era in bicicletta, a Mogliano Veneto, travolto da un camion ... .

martedì 3 dicembre 2024

[...]

 

Niente, voglio la mia obbligazione; non ne parliamo più!
Ho giurato che avrò quanto mi spetta per contratto.

Quella libra di carne
che pretendo da lui io l’ho pagata
a caro prezzo: è mia, e voglio averla! E se me la negate,
sarà vergogna alla vostra giustizia.


lunedì 2 dicembre 2024

Fino al limite estremo oltre il quale “capita qualcosa”

 


I primi 10 titoli per capitalizzazione sull’S&P 500, il più importante indice azionario statunitense, valgono attualmente oltre il 35% del listino. Di questi, i “magnifici sette”, vale a dire Apple, Nvidia, Microsoft, Amazon, Alphabet, Meta e Tesla pesano per il 30% delle 500 maggiori capitalizzazione di Wall Street. Tale concentrazione azionaria influenza necessariamente e più che proporzionalmente l’intero indice azionario.

Per dare un’idea di ciò che sta avvenendo, il gruppo californiano Nvidia, produttore soprattutto di processori grafici, negli ultimi 12 mesi ha guadagnato in Borsa oltre il 187% e, nel biennio, è salito più del 785%. Ad eccezione di Amazon e di Walmart, nessuna di queste realtà oligopoliste, annovera un numero di dipendenti tale da poter essere raffrontato con la loro enorme capitalizzazione. Tutto ciò alla faccia di coloro che per decenni hanno sostenuto che le nuove tecnologie avrebbero creato nuovi e maggiori posti di lavoro.

Pare evidente che le conseguenze di tale concentrazione possono essere valutate sia sotto il profilo economico finanziario, ossia del controllo sulla produzione e sui prezzi (in una tacita collusione mantengono elevati i loro prezzi anche quando cambiano i costi o le condizioni di mercato), ma anche e soprattutto sotto l’aspetto politico (non pensiamo solo a Musk, ma all’oligopolio bancario, quello di banche private e sistemiche che fissano le condizioni monetarie dell’attività economica globale, quindi alla condizione degli Stati che hanno abbandonato la propria sovranità in materia monetaria, oppure l’oligopolio sulle materie prime o delle tecnologie strategiche, nella ricerca e nella sanità).

C’è chi pensa ancora che la politica economica possa essere decisa dai parlamenti e dai governi; oppure, cosa di per sé ridicola, di poter regolamentare la speculazione, che altro non è che un gigantesco gioco d’azzardo dove i broker ormai altro non sono che delle patetiche figurine di un vecchio album Panini.

Scopriamo così che il Capitale nelle sue epifanie estorsive ha cambiato pelle, non è più quello di soli trent’anni fa. Del resto, non era Engels che, il 12 marzo 1895, scrivendo a Conrad Schmidt si chiedeva: “Forse la feudalità è mai stata corrispondente al suo concetto?”. Dunque il Capitale procede nel suo divenire e nella sua forma divenuta, vale a dire fino al limite estremo oltre il quale “capita qualcosa”, le cose cambiano, si produce un salto, una rottura, una discontinuità qualitativa, una rivoluzione!


domenica 1 dicembre 2024

Tutto sommato, è giusto così

 

La notizia è questa: le migliori aziende sanitarie d’Italia sono cinque e sono, manco a dirlo, tutte del Nord, di cui ben tre del Veneto: l’Asl 8 Berica di Vicenza; l’Asl Euganea a Padova, quella Dolomiti a Belluno.

Penso di conoscere molto bene la sanità veneta, e la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo la notizia è la condizione in cui versano certi ospedali del Veneto. Non solo quelli per così dire in fondo alla classifica, semiabbandonati, ma soprattutto quelli a metà classifica. Che a raccontare certi fatti non ci si crederebbe.

Bisogna leggere i commenti inviati dai cittadini veneti a Zaia a proposito delle liste d’attesa per quanto riguarda i pazienti oncologici ... Sono irriferibili. La realtà sanitaria pubblica veneta è molto più sfaccettata di come la descrivono le “classifiche” e la propaganda, stante il fatto che evidentemente in altre regioni mediamente il livello è pessimo ovunque.

Mancano medici e infermieri, il che è vero. Ma anche la sanità veneta, così come le altre, è diventata un mercato. E che mercato! La cosa ha origini lontane, ma penso che la svolta decisiva si si avuta con il Covid. I medici si devono essere posti una semplice domanda: ci hanno chiamato “eroi”, ma poi siamo rimasti nell’aurea mediocritas. Dunque, perché farsi il mazzo per guadagnare gli stessi soldi di un idraulico, di una estetista, oppure di un dentista?

Racconto due fatti per dare un’idea. Un paio di mesi fa stavo facendo i complimenti a un cardiologo perché anche la sua seconda figlia in quei giorni si era laureata. Ho chiesto se si fosse laureata in medicina. La risposta è stata quasi brutale e così riassumibile: mai in medicina. Turni massacranti, soddisfazioni zero, rischi molti e pochi soldi. Sia chiaro: ci sono anche i cardiologi di “grido”, ma non era questo il caso di specie.

Dovevo prenotare una visita presso uno specialista di un ospedale pubblico. Non prima di 90 giorni, e già mi andava di lusso. Il primario di quel reparto ha aperto (lo sanno tutti) una sua clinica (non so in quali forme giuridiche) a pochi chilometri dall’ospedale. Ho telefonato la settimana scorsa e mi è stato fissato l’appuntamento per il giorno 28. Ho chiesto: 28 dicembre? No, risponde stupita la segretaria, per il 28 novembre. Solo due giorni d’attesa. Stessa cosa per una risonanza magnetica presso l’ospedale di Castelfranco Veneto: tempi d’attesa biblici. Con 324 euro ho ottenuto la risonanza per lo stesso 28 novembre, ore 18. L’esito l’ho scaricato il giorno dopo.

È quello che chiamano il ”libero mercato”. Se sei solvibile, puoi accedere alle cure, altrimenti aspetti. Liberamente. E tra un’attesa e l’altra, magari tiri le cuoia. Sempre liberamente. È ciò che avviene comunemente anche nelle migliori aziende sanitarie d’Italia. E, tutto sommato, è giusto così.