Per sapere chi sia stato Ettore Conti (1871-1972) nella sua veste di imprenditore “elettrico” e di politico, si può consultare la Treccani e ancor meglio, per una volta, Wikipedia. Per quanto riguarda i suoi rapporti con vari personaggi della sua epoca, segnatamente nel periodo 1895-1940, si può leggerli Dal taccuino di un borghese, ossia dalle sue memorie pubblicate per la prima volta nel 1946 e in seguito riedite più volte.
Il punto è proprio questo: quanto sono genuine queste memorie posto che sono state pubblicate ex post, ossia dopo la caduta del fascismo e la fine della monarchia? Quanto sono state “purgate”, a mo’ dei Diari di un Galeazzo Ciano?
Ed infatti, nella sua Introduzione del 1986, Piero Bairati scrive: «È anche stato sottolineato il carattere alquanto “artificioso” che il libro di Ettore Conti verrebbe ad assumere, in quanto un “taccuino” dovrebbe essere annotazione giorno per giorno di eventi ed esperienze in corso, non ricostruzione o rivisitazione a posteriori, concentrata nel tempo e compressa nella struttura di una stesura unitaria, che sarebbe caratteristica di un’autobiografia e non di un diario. Mancando la possibilità di fare un confronto tra questa versione e i materiali originari, è difficile stabilire l’entità e l’importanza delle revisioni apportate da conti agli appunti su cui è basato.»
Resta il fatto che questo libro ha la sua importanza, anche perché Ettore Conti è tra i pochi imprenditori italiani ad averci lasciato un’autobiografia imprenditoriale. Al contrario di ciò che avviene negli Stati Uniti e in Inghilterra, così come in altri paesi, questo è un genere letterario che in Italia non gode di grande popolarità, come dice lo stesso Bairati. Oppure, ciò è dovuto al fatto che gli imprenditori italiani in genere non hanno dimestichezza con la penna, e non desiderano mettere in piazza cose che è meglio il pubblico ignori? Preferiscono le interviste col giornalista in ginocchio.
Giovanni Agnelli senior, per esempio, semmai avesse voluto scrivere le sue memorie, avrebbe potuto raccontare della truffa ai danni degli azionisti Fiat all’inizio del secolo? E suo nipote, Giovanni detto l’Avvocato, non aveva certo in animo di raccontarci altre storie economiche e finanziarie scabrose, peraltro in parte messa in luce in questi anni e dalle liti ereditarie.
Un esempio, sul quale mi sembra di poter rilevare la “reticenza” di Conti, che fu molto e a lungo legato professionalmente alla società Edison. Conti si dilunga nella commemorazione di Giuseppe Colombo, già presidente della Edison (dal 1884), quindi cita innumerevoli volte Carlo Esterle, dal 1896 al 1918 consigliere delegato della medesima società elettrica, e altri. Ma non cita neanche una volta Giacinto Motta. Leggo dalla Treccani: «Nella primavera del 1918, Motta ed Esterle iniziarono a lavorare all’ipotesi di una fusione tra la Edison e la Società per imprese elettriche Conti e C., un’idea della quale discussero con Ettore Conti (creatore dell’omonima società). Il progetto non andò però in porto per divergenze circa il nome della nuova società (Esterle non voleva aggiungere il nome della Conti a quello della Edison, mentre Conti spingeva per vederli abbinati). Il 7 settembre 1918 Esterle morì e Motta fu eletto al suo posto amministratore delegato della Edison».
Forse Giacinto Motta fu troppo compromesso con il fascismo? O forse i due personaggi, Conti e Motta, non si “tagliavano” affatto? Il perché di questa non casuale omissione lo sapeva solo Ettore Conti. Il quale, peraltro, non ci racconta nulla di un fatto rimarchevole svoltosi nel 1918, ossia il tentativo di scalata alla Edison da parte del trust siderurgico Terni-
Ilva, degli industriali Attilio Odero e Giuseppe Orlando, vicini alla Commerciale, della quale Conte entrò a far parte come consigliere proprio in quei mesi (in seguito ne divenne uno dei due vice presidenti).
Tra i molti personaggi citati nel libro dall’ingegnere e poi senatore Conti, spicca quello di D’Annunzio Gabriele, del quale Conti ci offre un suo ritratto, che ritengo azzeccato in pieno:
Interessante anche il racconto di Conti sulla missione commerciale italiana (febbraio-marzo 1920) nelle tre repubbliche della Transcaucasia (Georgia, Azerbaigian, Armenia russa), della quale il Conti stesso venne messo a capo. La questione del possibile affidamento all’Italia della Transcaucasia fu discussa ed approvata dalla Sezione Militare del Consiglio Supremo che aveva sede a Versailles durante la 53° seduta della commissione, che ebbe luogo il 4 e 5 febbraio 1919. L’argomento principale di quella riunione fu la necessità di stabilire dei mandati provvisori sui territori dell’ex Impero Ottomano (tutto ciò non è specificato nel libro di Conti).
Le tre repubbliche dichiararono la propria indipendenza il 26 maggio 1918 (nel 1922 si uniscono in federazione e passano sotto l’URSS; nel 1936 la federazione venne sciolta) [*]. I loro governi tendevano a sottolineare le immense ricchezze disponibili per tentare di attrarre possibili investitori stranieri e spingere i governi alleati ad impegnarsi nel mantenimento dell’ordine nella zona (l’anno prima, Italia aveva inviato in loco la “missione col. Gabba”; Conti non ne fa cenno).
Con Conti salì a bordo della nave “Solunto” una nutrita schiera di imprenditori, diplomatici, militari, tecnici minerari e giornalisti (oltre a 200 carabinieri di scorta). Tra i giornalisti, racconta Conti, ci sarebbe dovuto essere anche Mussolini, il quale aveva già scritto nel suo giornale di questa missione. Sennonché, all’ultimo momento, data la situazione politica, Mussolini disdice la sua partecipazione alla missione.
Sicuramente tra i giornalisti imbarcati, c’era anche Pietro Nenni. Dei due giornalisti, Mussolini e Nenni, Conti scrive: «[Nenni] dice di averlo conosciuto bene [Mussolini] quando erano dalle due parti della barricata, riconosce in lui un oscuro fascino di condottiero, uomo forte, che vuole distinguersi, essere il primo, in un modo o in un altro, per una strada o per un’altra; oggi contro i borghesi, domani signore; uomo dunque che potrà fare molto bene o molto male, ma che comunque farà parlare di sé.»
Il viaggio a seguito della missione in Caucasia per Nenni fu molto importante perché gli permise di entrare in contatto con il mondo sovietico. In quello stesso anno lascerà definitivamente il partito repubblicano.
Non è casuale che il taccuino edito da Ettore Conti, geniale e complesso personaggio, si fermi all’entrata in guerra dell’Italia mussoliniana. La sua adesione al fascismo, pur a tratti critica, fu sostanziale, così come fu convinta e fattiva l’adesione della totalità della borghesia imprenditoriale italiana nella sua volontà classista di rivincita e trionfo. I fascismi sono stati (e sono) il prodotto della crisi del sistema borghese, impossibilitato a superare la propria contraddizione principale. Per contro, il socialismo rivoluzionario di allora, rappresentò la risposta fallimentare teorico-pratica a quella stessa crisi. La storia non fa salti e nemmeno sconti.
[*] Il fallimento della Conferenza della pace di Parigi è da imputare al grave stato di impreparazione, alla superficialità ed all’approssimazione con cui gli esperti ed i plenipotenziari affrontarono i problemi che si presentarono alla fine della guerra. Guidati dal senso di rivalsa e privi di una visione politica e strategica non riuscirono a dipanare la matassa intricata delle nazionalità e delle etnie in maniera tale da ricostituire un equilibrio europeo duraturo.
La delegazione italiana giunse alla conferenza di Versailles senza una linea comune e senza alcun accordo con gli Stati Uniti. L’errore più grave fu quello di basare la maggior parte delle richieste su motivazioni di carattere strategico, invise a Wilson, che riteneva, dopo la creazione della Società delle Nazioni, che tali rivendicazioni non avrebbero avuto più alcuna ragione di esistere, dato che le controversie internazionali sarebbero state risolte pacificamente in seno alla SdN.
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