Il riformismo, socialista, socialdemocratico, liberale
o comunque inteso, è morto. Il riformismo, quale espressione politica, e il
revisionismo, quale fondamento teorico, sembravano aver vinto, anzi, stravinto,
e ciò stava nella misura in cui la collaborazione con la borghesia serviva a
rendere la classe dominante più forte e il suo potere assoluto, senza peraltro
risparmiarci immani tragedie.
Il fallimento del riformismo sta nella sua storia,
come del resto la stiamo vivendo noi oggi, accecati da un benessere che si fa
sempre più rarefatto e diseguale. È in nome di questo tipo di sviluppo che è
stato rotto ogni equilibrio con la natura, condotto l’esaurimento delle risorse
minerali, vegetali e animali, alterati i rapporti umani. Nel suo modo d’essere il capitale si disinteressa del progresso sociale
laddove non trovi il proprio immediato tornaconto.
Ciò non avviene per cattiva volontà, per quanto tra i
capitalisti vi sia un’alta concentrazione di criminali, ma per legge interna
del capitale.
Il riformismo sembrava non vedere come il saccheggio
delle risorse e l’arricchimento della classe dominante e dei suoi famigli migliorasse
solo incidentalmente le condizioni di vita delle classi sfruttate, e come la dinamica
dello sviluppo ineguale riproponesse il vecchio tema del ritorno diffuso della
povertà, della disoccupazione di massa, dello scontro tra ceti sociali sempre
più insicuri ed elettoralmente suggestionabili, del ritorno del conflitto sui
dazi!
Ciò che non è più possibile occultare della realtà
del modo di produzione capitalistico sono gli effetti della contraddizione
fondamentale che sta alla base del processo di valorizzazione del capitale. Non
si tratta più e soltanto del susseguirsi periodico di crisi e ripresa del ciclo
espansivo, e nemmeno di una stagnazione di lunga durata, come vorrebbero farci
credere, bensì della crisi storica
generale dell’attuale modo di produzione. Il disorientamento nel quale è
piombato l’establishment politico e il fallimento di ogni previsione degli
economisti borghesi ne costituiscono un fatto, anche se da questi allucinati
non si può pretendere una presa d’atto.
La morte del riformismo lascia indubbiamente un vuoto
sulla scena politica e sociale, europea e mondiale, e perciò delle gravi
preoccupazioni sull’oggi e il domani (vedi le "sinergie" fascistoidi). Ogni generica “rifondazione”, ogni
ipotesi di andare “oltre” (per far fuori Renzi), senza aver fatto dapprima i conti con l’analisi
reale delle cause e dei fenomeni della crisi e del sistema di potere borghese, dell'imperialismo, delle alleanze sociali, si tradurrà in puro velleitarismo, in nuove lacerazioni e divisioni, in
sconfitta.
Solo alla luce del marxismo, e dunque anzitutto del
materialismo storico, è possibile cercare e trovare risposte sul piano
scientifico che possano tradursi operativamente sul piano politico e
organizzativo. Da questo punto di vista
possiamo fin d’ora nutrire solo una certezza, e cioè che tale tipo d’analisi
sarà assente in chi, per la propria posizione e pregiudizio di classe, non ha
nulla a che fare con il marxismo.
Io tiro al disfattismo eppure ho il sospetto che disfattismo e riformismo sotto sotto siano nati insieme
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