Prendo a pretesto un paio di frasi da un post del
blog Phastidio per chiarire come
viene abitualmente trattato il concetto di produttività del lavoro e la
categoria del cosiddetto “saggio di valore aggiunto”, ossia il saggio del
plusvalore.
… la produttività del lavoro è il tasso
di valore aggiunto alla produzione, che deriva ovviamente dal rapporto tra
valore aggiunto ed ore di lavoro. Lo capisce chiunque che se il denominatore,
cioè le ore di lavoro, aumenta, ma il numeratore resta uguale, il tasso di produttività
non può far altro che diminuire ancora.
L’avverbio “ovviamente” è una forzatura. La prima
proposizione potrebbe passare liscia se non fosse per un non "trascurabile dettaglio", laddove si
presuppone per dimostrato ciò che si deve dimostrare. Chiedo: da dove risulta l’entità
(la massa) del valore aggiunto che
rapportata alle ore lavorate dovrebbe determinare il saggio del valore aggiunto stesso e da questo condurre a stabilire
la famigerata “produttività del lavoro”?
Se non conosco uno degli elementi costitutivi del
capitale anticipato, ossia il capitale variabile (salari), è impossibile
determinare l’entità del valore aggiunto, alias del plusvalore, e conseguentemente
non posso calcolare – prendendo per buono che ciò vada fatto in rapporto alle
ore lavorate – il saggio del valore
aggiunto (saggio del plusvalore).
Allo stesso modo, se volessi, su tale base non potrei determinare né la massa né il saggio del profitto.
In termini colloquiali: se il capitalista non conosce
l’entità dei salari pagati, ossia il prezzo della forza-lavoro acquistata, come
cazzo può calcolare il suo “guadagno”, ossia valutare esattamente il valore
aggiunto ex novo al suo capitale? Mistero fitto.
Oltretutto, prendendo per buona la formulazione citata,
con una battuta si potrebbe dire che un cercatore di diamanti (il loro
reperimento costa in media molto tempo di lavoro) sia per forza di cose scarsamente
produttivo.
*
L’economia borghese non si preoccupa mai dell’origine del plusvalore, alias “valore aggiunto”. L’economista lo considera come cosa inerente al modo di produzione capitalistico che ai suoi occhi è la forma naturale della produzione sociale. Dove parla della produttività del lavoro, egli non cerca nel lavoro la causa dell’esistenza del plusvalore, ma soltanto la causa che determina la grandezza del plusvalore. Questa scuola ha proclamato ad alta voce che la forza produttiva del lavoro è la causa originaria del “valore aggiunto”, leggasi plusvalore.
È vero che il saggio del plusvalore cambia con ogni
cambiamento della forza produttiva del lavoro, tuttavia si deve considerare che
la forza produttiva del lavoro è determinata da molteplici circostanze, e, fra
le altre, fondamentale è il grado di sviluppo e di applicabilità tecnologica
della scienza, dalla combinazione sociale del processo di produzione,
dall'entità e dalla capacità operativa dei mezzi di produzione, da situazioni
naturali, e, in date circostanze, dal grado medio di abilità dell’operaio.
Per ottenere questo risultato, ossia per aumentare la
forza produttiva del lavoro, il capitale non può fare a meno di metter sotto
sopra le condizioni tecniche e sociali del processo lavorativo, cioè lo stesso
modo di produzione. Mediante l’aumento della forza produttiva del lavoro il
capitalista ottiene anzitutto la diminuzione del valore della forza-lavoro,
ossia abbrevia la parte della giornata
lavorativa necessaria alla riproduzione della forza-lavoro.
E qui entrano in gioco categorie economiche che l’economia
borghese è interessata ad ignorare, quali, per esempio, la differenza, non solo
formale, tra plusvalore relativo e assoluto. Il plusvalore assoluto è il plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa; invece, il plusvalore relativo è il plusvalore che
deriva dall’accorciamento del tempo di
lavoro necessario e dal corrispondente cambiamento nel rapporto di
grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa.
Tra l’altro, per diminuire il valore della
forza-lavoro, cioè il valore delle merci destinate alla riproduzione della
forza-lavoro impiegata in un dato settore produttivo, non basta diminuire il
valore delle merci prodotte in quello stesso settore. Infatti, il valore di una
merce non è determinato soltanto dalla quantità del lavoro che le dà l’ultima
forma, ma anche e altrettanto dalla massa di lavoro contenuta nei suoi mezzi di
produzione. Pertanto, l’aumento della forza produttiva, se vuol diminuire il
valore della forza-lavoro, deve impadronirsi di quei rami d’industria i cui
prodotti determinano il valore della forza-lavoro, cioè appartengono alla sfera
dei mezzi di sussistenza abituali, oppure li possono sostituire.
Senza voler annoiare oltre: affermare che … la produttività del lavoro è il tasso di valore
aggiunto alla produzione, che deriva ovviamente dal rapporto tra valore
aggiunto ed ore di lavoro, va ben oltre l’intenzione di
semplificare e rappresenta un errore concettuale e metodologico, una
banalizzazione di questioni molto più complesse.
(*) Il cosiddetto “valore aggiunto” non è altro che
il plusvalore, vale a dire il pluslavoro (il surplus labour, per dirla come piacerebbe ai tipi tosti) estorto
agli operai. In altri termini, il pluslavoro costituisce quella parte della
giornata lavorativa che l’operaio lavora “a gratis” per il capitalista.
Pertanto è corretto dire: il saggio del plusvalore è
l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale, il saggio di sfruttamento dell’operaio
da parte del capitalista.
Tra parentesi: solo la forma per spremere al
produttore immediato, al lavoratore, il pluslavoro, distingue le formazioni
economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del
lavoro salariato.
Non è raro che gli economisti borghesi calcolino il
“tasso di valore aggiunto”, ossia il saggio del plusvalore sull’intero capitale anticipato dal capitalista. In tal modo, sembra che il “valore aggiunto”, ossia il plusvalore, sia prodotto dall’intero capitale investito. Nella realtà le cose non sono affatto così.
Il valore costante del capitale, non fa altro che
ripresentarsi nel valore del prodotto. Il valore del macchinario, per esempio,
per quota parte; cioè per la parte del proprio valore che, di volta in volta, la
macchina cede nel processo lavorativo alle merci. Pertanto, nel calcolo, c’è
solo un trasferimento di valore e nessuna creazione ex novo di “valore aggiunto”,
cioè di plusvalore.
Quest’ultimo va calcolato solo in rapporto al capitale variabile (salario). Un
esempio: posto che il valore del prodotto sia eguale a 4.920 € (capitale
costante) + 1.080 € (variabile) + 1.080 € (plusvalore), il capitale anticipato
assomma pertanto a 6.000 €. Poiché il plusvalore è eguale a 1.080 € e il
capitale anticipato a 6.000 €, secondo il modo usuale di calcolare si avrebbe
il saggio del plusvalore (p) pari al
18 %. Con questo modo di calcolare il saggio del plusvalore (p), il valore aggiunto, sarebbe ben
misera cosa.
Ma in tal caso non
si tratta del saggio di plusvalore, bensì del saggio del profitto. Che è tutt’altra cosa. Nei
fatti il saggio del plusvalore non è eguale a p : C, cioè p non è
uguale a p : (c + v ), vale a dire che
non è uguale a capitale costante più capitale variabile, bensì corrisponde a p : v.
Pertanto non abbiamo 1.080 : 6.000, ma 1.080 : 1.080,
ossia il 100%; più del quintuplo del grado apparente
di sfruttamento calcolato sull’intero capitale (18%). Ora, benché noi non
conosciamo nel caso dato la grandezza assoluta della giornata lavorativa, e
neppure la periodicità del processo lavorativo (giorno, settimana, ecc.) e
infine neppure il numero degli operai messi in moto contemporaneamente dal
capitale variabile, tuttavia il saggio del plusvalore p : v, per la sua convertibilità in pluslavoro : lavoro necessario, ci mostra con esattezza il rapporto
reciproco delle due parti costitutive della giornata lavorativa: è il 100%. Risultato: l’operaio ha
lavorato metà della giornata per sé e metà per il capitalista.
Nella realtà concreta così come nel calcolo
statistico, le cose vanno anche peggio. Il capitalista (e i suoi segaioli)
calcolano il saggio del “valore aggiunto”, ossia del plusvalore, sulla base di:
ricavi dichiarati + aggi derivanti dalla vendita di generi soggetti ad aggio o
ricavo fisso - costo del venduto + costo per la produzione di servizi + spese
per acquisti di servizi + altri costi per servizi + costo per il godimento di
beni di terzi + costi residuali di gestione. Et similia.
È un guazzabuglio, una grande confusione per
mistificare la realtà del lavoro non
pagato, la sua estorsione realizzata – anche se non sempre – con tutti i crismi
del diritto borghese, ossia il diritto di succhiare il sangue agli operai.
Questi frequenti ripassi aprono sempre nuove sfaccettature da cui osservare la realtà.
RispondiEliminaRepetita iuvant.
Grazie!
grazie a te
EliminaMi unisco ai ringraziamenti.
Eliminatuttavia in società dove la maggior parte del lavoro è concessa o imposta dall'alto, spesso per apparentamento, si genera una complicità, una reciprocità (anche di mistificazione) fra padrone e lavoratore, scambiata per 'famiglia' dal patriarca/proprietario e per 'bisogno' dallo schiavo. Allora i conti vanno un po' a ramengo, per quanto giusti, sporcati dalla convenienza da una parte e dall'opportunismo dall'altra.
RispondiEliminaNon si possono fare conti che non abbiano dei numeri umani. Questo il brutto del 'nostro' capitalismo. Ciao.
una delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, sarà per questo che è un mondo di merda?
RispondiEliminac'è ampio concorso
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