martedì 24 ottobre 2017

« Chi ha scatenato questa guerra merita di morire »


 «La verità non sarà mai saputa veramente;
da che parte il diritto, nemmeno;
da che parte la giustizia, meno ancora:
dove ci sono passioni non c’è nulla di quelle tre cose»
 (A. Gatti, Un italiano a Versailles, p. 283).

Versailles, seconda decade dicembre 1917. Nella villa Béthune, un magnifico palazzo costruito da pochi anni nell’omonima via appena fuori città, si serve la prima colazione. Il Generale, come già faceva nella sede di Udine, vi provvede con caffellatte e biscotti.

Dopo colazione, dalle otto e mezzo fino alle nove, il Generale esce a passeggio, accompagnato dal suo ufficiale d’ordinanza. Con passo pesante, il bastone, i capelli bianchi ed il lungo cappottone che svolazza e s’attorciglia alle gambe. Alle nove in punto, seguito dai suoi ufficiali, si avvia verso l’albergo Trianon, sede il Consiglio di guerra interalleato.

È molto meticoloso il Generale, spacca il minuto, un maniaco della puntualità, dell’esattezza. Di là a qualche giorno, nel mezzo di un’importantissima discussione del Consiglio di guerra, cominciò ad innervosirsi, a muoversi, e disse rivolto ai presenti: «Sono già le dodici, che cosa stiamo a fare? Mi fanno ritardare la colazione!».

È nevicato copiosamente, il vento spazza le strade e gli amplissimi viali sotto un cielo terso. La piccola città è tranquilla, raccolta e pensosa. Soltanto nella piazza del mercato e nei vecchi quartieri di via della Passione o di Saint-Pierre, la vita pulsa un po’ più freneticamente.




Il Generale e i suoi ufficiali sono accolti dal comandante Marsollet, custode e governatore del palazzo; compaiono dei soldati e i gendarmi francesi si schierano a rendere gli onori all’ospite. La missione italiana sale al secondo piano, destinatole per metà; l’altra è per gli americani, mentre il primo piano e diviso tra gli ufficiali francesi e quelli della missione inglese.

La missione italiana è giunta a Versailles da pochi giorni, partita da Torino, in treno ovviamente. Durante il tragitto è stata testimone degli esiti del disastro ferroviario accaduto pochi giorni prima, quando un convoglio di soldati francesi e inglesi inviati in licenza ai loro paesi dalla Macedonia e dall’Italia, deraglia nell’uscire dal villaggio di Saint-Michel.  Le carrozze si sono incendiate e 450 dei 1500 soldati sono morti; altri 400 sono rimasti gravemente feriti o sono impazziti.

La missione svolge il suo compito secondo gli orari stabiliti: dalle 9 alle 12 in ufficio, quindi la colazione; poi dalle 15 alle 19.30 ancora in ufficio, segue la cena. È lo stesso regime di Udine, presso il Comando Supremo dell’esercito. Fino al novembre 1917, l’autocrate era il generale Luigi Cadorna.

Nel comitato riunito a Versailles (sulla carta un organismo importantissimo) prevaleva un senso di “idilliaca pace”. Un consesso che discuteva con poca energia e una palpabile sfiducia, esprimeva pareri, e basta. Non aveva effettivi poteri, non comandava e nemmeno amministrava: non riuscivano nemmeno a mettersi d’accordo, le varie delegazioni, per la colazione in comune.

*
La missione italiana, guidata dal Cadorna, è composta dai seguenti ufficiali: i colonnelli Bianchi d’Espinosa e Angelo Gatti, i tenenti colonnelli Pintor (padre di Luigi, cofondatore del quotidiano il manifesto), Ponza di San Martino e il maggiore Martin Fraklin, quindi il ten. col. medico Casali e il maggiore Leone. Tra loro vi è, minore di grado ma non d’importanza, il tenente Tommaso Gallarati Scotti dei principi di Molfetta (la cui madre era Maria Luisa Melzi d'Eril), ufficiale d’ordinanza del Cadorna e, di fatto, confessore spirituale di quest’ultimo. Il tenente ebbe come istruttore di catechismo ed assistente nei primi studi il giovane prete don Achille Ratti, cosa che non gli escluse una condanna nel 1911 da parte della Chiesa per le sue novelle Storie dell'amor sacro e dell'amore profano. A suo onore, l’immediata opposizione al fascismo: firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti. Otterrà personalmente dal governo inglese che il comando delle forze partigiane sia affidato al generale Raffaele Cadorna, figlio di Luigi e omonimo del nonno. Fu fervente anticomunista.

Torniamo al generale Luigi Cadorna, al perché era stato, infine, destinato a guidare la missione italiana a Versailles. Qui non si tratta di tracciarne la biografia, nemmeno per sommi capi, sarebbe soprattutto fuori luogo, ma solo di tentare di lumeggiarne il profilo con l’aiuto fondamentale di un’opera: Un italiano a Versailles, Ceschina, 1958. Si tratta del diario, pubblicato, non casualmente postumo, del colonnello Angelo Gatti (1875-1948).

Angelo Gatti, durante la sua esperienza a Versailles, ebbe modo di scrivere un ritratto diretto e lucido di Cadorna, come uomo e quale generale, tanto più che era già stato al suo fianco quale capo dell’Ufficio storico del comando supremo a Udine, dal 1915 al novembre 1917.

Gatti considera Cadorna il migliore dei generali italiani (p. 424), e ne traccia un profilo con onesto rigore. Un tratto saliente è già in questo giudizio, a pagina 134: “Egli solo è un uomo, e gli altri sono numeri”.  Ciò la dice lunga sul noto, smisurato ego di Cadorna (il suo metro di paragone costante è Napoleone) e il suo totale disinteresse per la vicenda degli altri: “Non aveva curiosità per nessuno” (p. 426).

Luigi Cadorna (1850-1928) è figlio di Raffaele (1815-1897), generale veterano delle guerre risorgimentali ma noto anche per le vicende della rivolta di Palermo detta del “Sette e mezzo” (settembre 1866), quale comandante delle truppe di terra inviate a reprimerla (la marina italiana e quella inglese bombardò la città). Luigi fu avviato giovanissimo alla carriera militare, che fu lenta ma costante, senza alcun episodio di spicco, fino a fermarsi al grado di tenente generale (generale di corpo d’armata) nel 1904. Era noto per la sua rigida interpretazione del regolamento di disciplina e per l’inflessibilità con la quale lo applicava, oltre che per un articolo, che divenne in seguito un librettino, di cui andava molto fiero: Attacco frontale e addestramento tattico.

Egli seguiva la dottrina vigente in quell’epoca, che non teneva conto dei progressi tecnologici, quindi dell’uso delle mitragliatrici e delle bombe a mano, dei reticolati e delle difese in cemento armato. Auspicava offensive compatte di fanteria, senza tener conto del poderoso potenziale di fuoco delle difese avversarie, che riteneva di mettere a tacere a colpi di cannone. Cadorna scriveva di un’avanzata “su terreno morto”, che nel caso del Carso non troverà. Inoltre era convinto che il difensore, nella maggior parte dei casi, in vista della massiccia avanzata degli assalitori dovesse “scoprirsi se vorrà batterla col fuoco”. Tale concezione fu smontata dal generale Pollio, dal 1908 capo di stato maggiore dell’esercito, il quale, tra l’altro, osservava: “Perché, non ci possono essere trincee che permettano di far fuoco anche da vicino?”. Bella domanda!

Cadorna fino al 1914 era relegato in un comando periferico, a Genova. E tale battuta d’arresto della sua carriera non era dovuta alla sua idea di “attacco tattico”, ma all’intransigente rifiuto del cosiddetto doppio comando (che tanti guai aveva procurato a suo padre), ossia il rifiuto di accettare, come eventuale capo di stato maggiore dell’esercito, la supervisione del Re (e di chicchessia) in caso di guerra, pur non mettendo in dubbio la supremazia costituzionale del sovrano.

«Del resto Cadorna – come rilevava Gatti – non accetta discussioni di nessun genere, poiché come tutti i violenti non sa andare innanzi, è un monologhista, non è un dialoghista. Questo l’enorme difetto di un generale» (pp. 238-39).

Tuttavia la nomina di Cadorna a capo di stato maggiore dell’esercito, sfumata nel 1908, giunse nel 1914, imposta dalle circostanze: il suo predecessore, il generale Pollio, moriva stroncato da un infarto il 1° luglio. Fatto saliente è che Pollio era immune da sentimenti antiasburgici, “era convinto che l’Alleanza” con Austria e Germania “fosse nei migliori interessi dell’Italia ed era deciso a far sì che funzionasse” (Thompson, La guerra bianca, p. 34).

Il primo ministro era Salandra, un reazionario di prima grandezza, il quale nelle sue memorie scrisse che con la guerra aspirava a purgare il liberalismo dalla “scoria” democratica. Al ministero degli esteri c’era Sidney Sonnino, che non poteva essere che filoinglese dato che sua madre era gallese. Erano appoggiati dagli strati alti della società e dai circoli industriali che caldeggiavano, per ovvi motivi di profitto, il riarmo e la guerra.

Ad onor del vero, nella primavera del 1915, Cadorna si trovò a dover affrontare una situazione d’incertezza politica, un ondeggiare continuo, che si rivelò assai esiziale per la preparazione di un’offensiva contro l’Austria. Solo pochi mesi prima, nel luglio 1914, appena nominato capo di stato maggiore dell’esercito, presentò al Re un memorandum riguardo allo schieramento di forze contro la Francia, la concentrazione delle truppe italiane sul fronte occidentale e l’invio di altre sul Reno a fianco dei tedeschi. Tuttavia nel dicembre 1914 comunicò a Salandra che l’esercito non sarebbe stato pronto a combattere prima di aprile, convinto oltretutto che la Germania da sola non avrebbe potuto sconfiggere la Francia.

Il resto della storia è fin troppo noto, ossia di come in poco tempo l’Alleanza si sfarinò e si venne alla segreta proposta italiana agli Alleati del 28 febbraio e infine al Patto di Londra. Fatto sta che l’entrata dell’Italia in guerra permise alla Francia di non doversi guardare le spalle e alleggerì, o non aggravò ulteriormente, la posizione degli Alleati sugli altri fronti. Questo merito fu sostanzialmente misconosciuto o fortemente ridimensionato in seguito dagli Alleati, soprattutto inglesi e francesi. È fuor di dubbio che se essi si fossero dovuti difendere, nel 1915 e in seguito, sul fronte alpino dagli italiani, i tedeschi, trovandosi a loro volta in netta superiorità sul fronte occidentale, avrebbero sfondato. Il ministro degli Esteri francese scrisse al riguardo: «L’Italia ci ha puntato una pistola alla tempia. Pensate che cosa significa che nel giro di un mese ci saranno un milione di baionette italiane sul campo …».

Naturalmente l’Italia stava semplicemente al gioco e voleva cospicuo bottino, compreso un pezzettino della “carcassa del turco”. Il 20 maggio il Parlamento, dapprima contrario, ratificò l’entrata in guerra. Qual era in concreto la situazione dell’esercito italiano?

«Nell’estate del 1914 l’esercito italiano era il più debole tra quelli di qualsiasi altra nuova potenza. Decenni di spese elevate per le forze armate, che dal 1900 al 1914 si aggiravano mediamente su un quarto del bilancio statale, non erano riuscite a colmare le carenze in fatto di professionalità o di equipaggiamenti. L’esercito era sovraccarico di personale amministrativo e burocrazia, appesantito ben oltre le sue necessità dai corpi ausiliari (medici, veterinari, chimici, genieri). I problemi di approvvigionamento e di rifornimento erano endemici oltre la metà dei soldati era analfabeta». Inoltre, qualche lustro dopo l’Unità, il governo nazionale decise di «diminuire la presenza piemontese negli alti ranghi dell’esercito, per consentire la promozione di un maggior numero di ufficiali meridionali» (Thompson, op. cit., pp. 70 e 66).

Il generale Pollio aveva proposto, vanamente, di modernizzare l’esercito soprattutto in materia di artiglieria e addestramento degli ufficiali, chiedendo di portare gli effettivi da 70mila a 345mila unità. Il governo respinse questi piani giudicandoli troppo ambiziosi e costosi. Solo nell’ottobre 1914, Cadorna ottenne le risorse necessarie per avviare tali piani di rafforzamento, soprattutto numerico, e stampò 25mila copie per gli ufficiali del suo opuscoletto sulla “tattica”. Tuttavia l’esercito – scrive sempre Thompson – iniziò la guerra con un insufficiente numero di uomini, uniformi, automezzi, fucili e munizioni e soprattutto di artiglieria di grosso calibro, di linee ferroviarie e mezzi di trasporto. Né del resto, lo stato maggiore si fece scrupolo di reclamare con più determinazione stanziamenti per mitragliatrici e artiglieria.
La situazione non era migliore dal lato delle forze austriache, molto inferiori di numero rispetto a quelle italiane e scarsamente dotate di armamenti:
«Non di rado, la prontezza dei complementi ad entrare in campagna fu subordinata all’arrivo di fucili: non di rado essi giunsero alle Armate senza armi, e, data la scarsezza di armamento, vi fu perfino qualche Comandante che propose di tenere i disarmati tanto vicini alla linea di combattimento che ognuno di essi potesse immediatamente prendere il posto di un morto o di un ferito»(L’ultima guerra dell’Austria-Ungheria – Relazione ufficiale compilata dall’Archivio di guerra di Vienna, vol. II, trad. it. 1935, Roma, p. 15).
Dal punto di vista strategico il gen. Pollio non aveva preso in considerazione le operazioni contro gli alleati di allora, cioè gli austro-tedeschi. Inoltre, il saliente del Sudtirolo, austriaco, era ben difeso da massicce fortificazioni e gli italiani non disponevano dell’artiglieria pesante utile per aggredirlo. Non restava che neutralizzarlo circondandolo sui tre lati. Gli obiettivi primari restavano giocoforza Trieste e Gorizia. Cadorna riteneva, grazie alla superiorità delle sue forze, di poter lanciarsi in un’offensiva che in breve lo avrebbe condotto ben oltre le due città, perciò verso Lubiana e la stessa Zagabria. 
Tale ottimismo non teneva in alcun conto dell’andamento della guerra in Francia e delle lezioni che da essa stavano venendo in luce. Il 25 novembre 1914 il generale Falkenhayn ordinò alle forze tedesche in Occidente di mettersi sulla difensiva e di tenere il terreno. Iniziava così la guerra di posizione, di trincea. La guerra di movimento era cosa del passato.

Data la concezione tattica, il carattere impermeabile di Cadorna ad ogni argomentazione contraria, considerata la situazione sul terreno e le indubbie difficoltà a superare gli sbarramenti trincerati austro-ungarici, il bagno di sangue fu una conseguenza inevitabile. Del resto sugli altri fronti europei le cose non andarono molto diversamente, segno di una mentalità e un atteggiamento comune presso gli alti comandi alleati. Ciò che lascia sgomenti sono le modalità della carneficina, gli inutili assalti contro le mitragliatrici, in campo aperto, armati, almeno all’inizio, solo di moschetto. Inoltre le condizioni di vita erano al limite della sopportazione per l’assenza di logistica, di servizi essenziali e un minimo di organizzazione.
Il tratto distintivo di Cadorna, comune in genere a molti ufficiali di carriera, era il disprezzo per la vita miserabile e sofferta dei proletari in divisa mandati con noncuranza a morte certa. L’episodio del fiume Timavo, raccontato da Thompson nel suo libro, e che vide protagonista quello psicopatico di D’Annunzio, poeta del massacro, è solo un esempio tra mille consimili sadismi mistici che si compirono in nome della patria, dell’onore e balle varie.
*
Sul Monte Gabriele vi furono 25mila morti in una sola battaglia, il fuoco fu così intenso che la montagna perse dieci metri, eppure Cadorna di notte dormiva sonno pieno e tranquillo.
È in tale frangente che «apparvero i difetti costituzionali della sua mente e del suo carattere», scrive Gatti a p. 424, sicuramente aggravati dalla dittatura di fatto che in quel momento esercitava anche sul fronte interno, sostenuto da una stampa strettamente sorvegliata e sotto censura.
Oltretutto Cadorna aveva una totale “mancanza di facoltà politica” (p. 357) e dato il suo “carattere che predomina sull’intelligenza […] non era nemmeno un uomo che sapeva vedere le grandi questioni d’Europa” (p. 360), per cui il suo potere assoluto, la sua ostinazione, riuscivano ad alzare tante barriere quante ne voleva e poteva. Lo scontro con i vertici istituzionali e il Parlamento fu inevitabile e aspro.
Arrivò la disfatta di Caporetto, ovviamente non voluta da Cadorna, ma nemmeno evitata. Vi concorsero tutti gli elementi e le situazioni, non ultimo il comportamento di Badoglio, la cui carriera era stata fulminea, da tenente colonnello a generale nel giro di un anno. Egli ritardò di ben dodici giorni di far eseguire gli ordini di Cadorna sulla disposizione delle truppe nel settore dove poi il nemico sfondò. Badoglio aveva ordinato che il fondovalle venisse “custodito” anziché difeso da un contingente minimo. Inoltre – come scrive Thompson – ordinò al comandante dell’artiglieria di corpo d’armata di non aprire il fuoco senza il suo ordine. Intorno alle 2.30 del 24 ottobre il comandante richiese il permesso di sparare per contrastare l’offensiva nemica, ma gli giunse un rifiuto. 
Stava crollando il fronte, e tuttavia quel mattino, come di consueto, Cadorna, dopo aver fatto colazione con latte, caffè e savoiardi con il burro, scrive la lettera giornaliera alla famiglia (Thompson, p. 319). La sera stessa, Gatti vide Cadorna “tranquillo e sorridente (Thompson, cit., p. 326). Nelle ore cruciali non mancò di diramare un ordine del giorno: «Chiunque non senta di dover vincere o cadere con onore sulla linea di resistenza, non è adatto a vivere».

La tragedia di Caporetto fu grandissima: 300mila prigionieri, diserzioni di massa, il caos più completo, la perdita quasi completa dell’artiglieria, di tutti i magazzini e depositi, l’arretramento del fronte di 200 chilometri. Ben prima di questi accadimenti i soldati erano stremati dalle condizioni inumane in cui erano costretti, trattati come bestie da macello a rischio in ogni momento della propria vita per il capriccio di un generale che col binocolo assisteva di lontano agli assalti.
Tuttavia la sconfitta non fu totale, completa, anche perché vi furono reparti che opposero resistenza, di propria iniziativa, cioè contravvenendo agli ordini! Di contro, l’ampio successo austro-ungarico-germanico non si trasformò in vittoria definitiva. Lo slancio dell'assalto alla pianura veneta si arrestò al Piave perché non fu supportato da analoga offensiva nel Trentino: i generali tedeschi, mancando forse d’interesse per una visione strategica globale, non concessero le truppe necessarie, troppo intenti ad alimentare il carnaio sul fronte occidentale. In tal modo, con la mancata sconfitta dell’Italia, fu persa per sempre anche la possibilità, per la primavera successiva, di predisporre un concentramento di forze tali da poter infliggere il colpo decisivo in Francia, costringendo in tal modo gli Alleati ad un armistizio.
Dopo Caporetto, Cadorna puntò i piedi, non voleva lasciare. A battere il pugno sul tavolo furono gli Alleati. Gli subentrò Diaz, un uomo più docile nei rapporti, un generale forse meno brillante del suo predecessore, ma anche più incline a considerare gli aspetti della vita in trincea in precedenza del tutto trascurati. Furono importati manuali dalla Francia, si cominciarono a costruire latrine e trincee a regola d’arte, aprire qualche spaccio per i generi di conforto, a trattare la truppa, se non umanamente, almeno un po’ meno disumanamente. Arrivarono aiuti anche dagli Alleati, i quali, pur disprezzando gli italiani, avevano ben presente l’importanza strategica del loro fronte.
Cadorna non poteva essere mandato subito a casa e perciò gli fu trovato un ufficio degno del grado e del ruolo che aveva ricoperto. Ecco perché lo ritroviamo a Versailles nel dicembre 1917, con le sue passeggiate, il suo caffellatte e biscotti, la puntualità degli orari d’ufficio, di colazione e cena, il sonno sereno del giusto. E le visite a Chartres, Fontainebleau e alla Malmaison, dove non faceva che domandare: «Dov’è l’appartamento di Napoleone? Dov’è la stanza dell’abdicazione? Dove si è voluto suicidare?». Commenta a tal riguardo Gatti: «Era una cosa dolorosa. La guida era un poco stupita. Si vedeva che il generale ravvicinava in sé la propria sorte a quella di Napoleone».
Fino al febbraio dell’anno seguente, quando fu avvicendato anche in quest’incarico perché chiamato a Roma a difendersi davanti a una delle tante inconcludenti commissioni parlamentari d’inchiesta che costellano la storia d’Italia. Sulla strada del ritorno, sceso a Modane, Cadorna si mette a passeggiare un po’ sotto la tettoia della stazione. Scrive Gatti: «la gente lo guardava, egli era superbo di essere guardato. È nella sua natura».
Nelle ultime pagine del suo diario francese il colonnello Angelo Gatti ebbe a considerare:

«Questo periodo è tremendo e orrendo. Chi ha scatenato questa guerra merita di morire: chiunque esso sia, in tutte le nazioni. È giusto che coloro che hanno sofferto siano, d’ora innanzi, gli arbitri dei propri destini. Vita nuova».
Come solito, gli elementi appartenenti alle classi dirigenti quando sbagliano non pagano il dovuto. E questo è tanto più vero più si sale in alto. Se la cavò a buon mercato, anzi con un avanzamento ad incarico prestigioso, il Badoglio che poi protrasse i suoi intrighi e la sua carriera fino al 1945. Non se la passò male nemmeno lo stesso Cadorna che uscì indenne dall’inchiesta. Condannare lui avrebbe significato dover condannare un’intera classe dirigente, dal sovrano fino all’ultimo sottosegretario, dagli stati maggiori fino all’ultimo burocrate ministeriale, dal più grosso industriale all’ultimo accaparratore.
Cadorna tornò quindi a casa, ai suoi riti quotidiani, a scrivere le sue memorie, a cercare d’imbrogliare un po’ le carte. Un suo caporale, divenuto nel frattempo un personaggio di rilievo, lo promosse al grado di maresciallo d’Italia, con relativo appannaggio. Morì nel suo letto e il cordoglio fu "unanime". A Pallanza, sul Lago Maggiore, gli fu dedicato un mausoleo.





4 commenti:

  1. eccellente
    in merito al "Ciò che lascia sgomenti sono le modalità della carneficina più che la parte "tecnologica" a me invece lascia sgomento la facilità con cui iimmensi greggi di "proletarii" si fecero "immolare" in una guerra "dei padroni".

    E' un "mistero" che mi sconvolge da quando da bambino coglievo l' intima contraddizione di mio nonno "comunista del ventuno" vedendolo marciare ogni 4 novembre come reduce della "grande guerra" ( e si era fatto pure la libia ! ) fottendosene bellamente della allora riprovazione "internazionalista" dei giovani dirigenti "comunisti".
    Evidentemente l' esperienza della guerra, lo stare ventenni insieme al limite tra la vita e la morte è una esperienza che marca più di ogni ideologia.
    ws

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  2. “Il tratto distintivo di Cadorna, comune in genere a molti ufficiali di carriera, era il disprezzo per la vita miserabile e sofferta dei proletari in divisa mandati con noncuranza a morte certa”
    La storia scorre inesorabile sempre sugli stessi binari ,basta sostituire gli “eletti”in divisa e “carriera” con quelli prediletti dal dio dollaro & altra moneta e “proletari in divisa” con i proletari nudi e crudi(come sempre) carne da cannone di ieri,oggi e domani grazie alla mancanza di coesione e disorientamento ben orchestrato e alimentato dagli “eletti” .
    Quando ce ne accorgeremo?

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    1. la carne da lavoro se n'è accorta, ma nella sua maggioranza, e nonostante tutto, s'accontenta. prova a parlargli di comunismo ...
      http://diciottobrumaio.blogspot.it/2017/10/blog-post.html

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