martedì 27 dicembre 2016

Spacciandolo per il più conseguente dei modi di stare al mondo



È sempre più difficile avere per fine la verità pratica, specie se questa poggia su una legge economica che l’ignoranza e la sciatteria si pregia voler ignorare.

*

Nel maggio del 1968, su un muro di boulevard Port-Royal si poteva leggere una frase che era comparsa quindici anni prima su un altro muro, posto qualche chilometro più a nord-ovest, in rue de la Seine, dunque in Saint-Germain-des-Prés. Quelle frasi enunciavano un’utopia: Né travaillez jamais. Molti decenni dopo, i nipoti di coloro che tracciarono quelle frasi sono stati accontentati.

Poco dopo, anche sui muri italiani comparve una frase sovversiva, meno utopica ma coerente col background cattolico del nostro paese. Essa scandiva: Lavorare meno, lavorare tutti. Figli e nipoti del 1968 oggi preferiscono un’altra frase, che non ha ad oggetto il lavoro, bensì il “reddito minimo garantito”.



Il reddito minimo ha come obiettivo implicito la creazione di una grande classe di senza lavoro ai quali viene offerto un minimo di mera sussistenza. In prospettiva, da qui a un decennio, si tratta di 15 o 20 milioni di persone Per recuperare le risorse necessarie, bisognerà tagliare le spese inutili, gli sprechi, tassare le rendite, e naturalmente approntare otto milioni di baionette contro l’evasione fiscale.

Politicamente e socialmente la cosa si rivelerebbe un po’ meno potabile, ma non è il caso di sottilizzare. Però la sportula dopo un po’ resterebbe comunque vuota (*). La mungitura si sposterebbe dalla rendita ai profitti della sfera produttiva. Che direbbero i magnati dell’industria, le banche e i fondi pensione, se gli si dicesse che con i loro profitti e dividendi devono mantenere una pletora di disoccupati che consumano senza produrre, che non sono utili alla valorizzazione del capitale, che non servono nemmeno come forza-lavoro di riserva? Sarebbe una guerra di religione.

La nuova fase del capitalismo (possiamo chiamarlo come vogliamo, anche digitale) comporta trasformazioni sociali profondissime, che coinvolgono il nostro modo di essere all’interno della società, e tuttavia in discussione non sono solo gli aspetti soggettivi e di classe dei rapporti sociali di produzione, ma le più cogenti determinazioni connesse allo sviluppo delle forze produttive, laddove una massa sempre più grande di capitale costante richiede una quota di lavoro vivo sempre più piccola.

Lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro, conseguenza della stessa natura della produzione capitalistica, induce la tendenza progressiva alla diminuzione del saggio generale del profitto, nonostante dall’altro vi sia un costante aumento della massa assoluta del plusvalore acquisito. La diminuzione del saggio generale del profitto è un’espressione peculiare del modo di produzione capitalistico, una necessità logica del suo sviluppo. Per contro, il capitale complessivo aumenta in progressione più rapida della diminuzione del saggio del profitto, e ciò dimostra il modo dialettico in cui procedono le cose, da una parte la caduta del saggio e dall'altra ciò che lo contrasta. Ecco perché il "crollo" non è immediato e definitivo, ma punteggiato da crisi sempre più ravvicinate e di lungo periodo. 

Questi fatti, che ai più possono sembrare secondari e trascurabili, denotano invece implicazioni decisive per quanto riguarda il modo di produzione capitalistico e il suo destino storico. E, naturalmente, entro tale destino ci siamo noi. Scrive Marx nel cap. 15° del III Libro:

“il modo di produzione capitalistico trova, nello sviluppo delle forze produttive, un limite che ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza in quanto tale; e questo particolare limite testimonia del carattere ristretto, semplicemente storico, transitorio, del modo di produzione capitalistico; prova che esso non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma, al contrario, arrivato ad un certo punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo”.

È su tale carattere ristretto e limite storico del modo di produzione capitalistico che si dovrebbero misurare le idee e l’organizzazione della lotta della sinistra (l’intervento possibile sulla storia). Questa sarebbe già una vittoria!  Si stanno producendo le condizioni materiali di una nuova società e la sinistra che fa? Scimmiotta e punta sull’elemosina, al pasto gratis, spacciandolo per il più conseguente dei modi di stare al mondo.

(*) Basterebbe richiamare alla memoria le vicende del III e IV secolo. L’intuizione costantiniana di affidare le plebi alla caritatevole manumissio ecclesiastica, trasformando gli schiavi in servi del Signore, fu sicuramente geniale e rivoluzionaria, e tuttavia ciò non impedì, complici eventi demografici e migratori, il crollo della civiltà antica e con essa del relativo modo di produzione.


29 commenti:

  1. Se non lo farà (non lo potrà fare) una piattaforma programmatica, ci penserà la necessità a far sì che la lotta politica verta e si misuri sul «carattere ristretto e [il] limite storico del modo di produzione capitalistico».

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    1. anche il caso vorrà giocare la sua parte, come già nel 900
      credo che la teoria di Gould sugli equilibri punteggiati si offra come una buona analogia

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  2. alcuni hanno provato a pensare ai compiti rivoluzionari come alla soluzione di compiti "tecnici", per me è un bel viatico.

    Marx nella citazione ci dice che dentro la tecno-scienza si nasconde una scossa storica epocale;
    questo richiede necessariamente di affiancarle un altrettanto epocale compito politico di ribaltare l'intero progetto tecno-scientifico, liberandolo dal legame con la produttività umana che, sempre dal punto di vista tecnico, è inutile mentre rimane indispensabile per la valorizzazione capitalistica

    l' oggetto tecnico in sè è invece immemore del "suo" progetto, la pacificazione della lotta per l'esistenza, e scambiando questa incoscienza con la neutralità è il veicolo perfetto per celare e imporre la perpetuazione politica del dominio, il fatto stesso che il capitalismo sia lo stato di natura

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    1. il cataclisma storico-sociale di cui parlavo in un post recente.
      che il capitalismo non sia lo stato di natura ce ne siamo accorti da tempo, anche se il futuro non lo conosce nessuno. penso alla fine delle società antiche come il prodotto di una impasse "tecnica", nel senso che non ci poteva essere sviluppo e progresso entro un sistema basato prevalentemente sul lavoro servile. nel capitalismo la contraddizione è interna alla forma-valore, alla divaricazione tra valore e valore d'uso. dunque interna alla sfera della produzione (composizione tecnica del capitale e caduta del saggio del profitto), nei suoi effetti palesi nella sfera della circolazione (il monopolio stesso che azzera la proprietà privata e insidia il libero scambio). una transizione di lungo periodo punteggiata di "vivacità". quanto al coinvolgimento cosciente delle masse, almeno come incipit, non scommetterei un euro.

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    2. "quanto al coinvolgimento cosciente delle masse, almeno come incipit, non scommetterei un euro".

      Abbia pazienza, ma se lei non scommetterebbe manco un euro, che senso ha questo suo blog?

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    3. la sua osservazione è pertinente. una risposta esaustiva richiederebbe una lunga digressione. tuttavia non scommetto un centesimo. la coscienza delle masse arriva sempre post festum, quando arriva. il mio blog lo leggono in pochi, tra questi alcuni lettori a cui tengo.

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  3. "al contrario, arrivato ad un certo punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo”.

    embè ?! Chi l'ha detto che il senso della storia stia in un continuo sviluppo della capacità di produrre ricchezza materiale ? Proporrei di fermarci per qualche millennio.

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    1. il senso della storia non c'entra, come solito lei non ha capito il senso della frase e a che cosa si riferisce lo sviluppo (non lo sviluppo in generale, ma quello accumulativo del capitale). se la frase non le sta bene se la prenda con Marx.

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    2. beh, ma la frase di Marx ha senso solo se si tiene presente la sua (di Marx) filosofia della storia. Altrimenti perché dal fatto che un modo di produzione non riesce più a garantire un aumento delle forze produttive si dovrebbe dedurre (o auspicare) che verrà sostituito da un altro ?

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  4. Fino ad oggi le precedenti crisi di produzione capitalistiche sono state risolte , seppur sempre "dolorosamente", attraverso nuovi "impieghi" della "forza lavoro" passando quindi ogni volta ad un "nuovo" tipo di capitalismo.
    La peculiarità di questa nuova crisi è che invece si prospetta come "soluzione" solo un "malthusianismo compassionevole" che e' sostanzialmente un " ritorno ai faraoni" e l' esatta antitesi del capitalismo.
    Insomma una "fine della corsa" senza la tanto attesa "redenzione delle masse".
    ws

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  5. Nell'apposito referendum, il 55% dei lavoratori di Almaviva (il call center che minaccia di licenziarli in massa e delocalizzare) ha accettato le condizioni dell'azienda: taglio dei salari - tagli a salari di 500, 600 euro al mese - e controllo a distanza, che a quanto ne so sarebbe pure vietato per legge nei luoghi di lavoro. Solo per dire quanto gliene fotta alle "aziende" della loro stessa legge di classe.

    Altro che coinvolgimento delle masse, stiamo arrivando al lavoro schiavista gratuito come normale condizione di vita. Da votare nei referendum.

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  6. Refuso: "che non sono utili alla valorizzare del capitale".

    Saluti

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  7. "Né travaillez jamais". Dubito assai che fosse scritto così. Sarebbe un cortocircuito della storia, il sessantottino che proviene da una scuola già non selettiva.

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    1. se si riferisce alla grafia era scritto proprio così. ho le foto.

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    2. Un altro mito che cade. Mi correggo: un'altro.

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  8. “Che direbbero i magnati dell’industria, le banche e i fondi pensione, se gli si dicesse che con i loro profitti e dividendi devono mantenere una pletora di disoccupati che consumano senza produrre, che non sono utili alla valorizzazione del capitale, che non servono nemmeno come forza-lavoro di riserva? Sarebbe una guerra di religione”.
    E che direbbero se i proletari togliessero loro la proprietà dei mezzi di produzione?
    Il Reddito di Cittadinanza rappresenta il primo passo, seppur paradossale, verso una società in cui i lavoratori, che hanno preso coscienza di sé, persone tra persone, plasmano la società per una convivenza più giusta e più umana.
    Buon anno

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    1. Ben detto! Io penso, però, che la vera novità dal punto di vista filosofico e pratico, si avrà quando il reddito di cittadinanza verrà finanziato con l'emissione di moneta. L'emissione di moneta sarà il mezzo usato dal capitalismo per tenersi a galla nei prossimi decenni (non sarebbe neanche una novità), la questione fondamentale è riuscire a rendere "democratico" e trasparente questo strumento.

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  9. Ma di che cosa state parlando tra una punzecchiatura e l'altra? Questa è la fase senescente del capitalismo che già mostra le prime avvisaglie di una terza guerra mondiale, per l'egemonia, tra blocchi continentali. E nessuno può sapere come finirà, anzi come evolverà, soprattutto noi vecchi. E per il semplice motivo che sono movimenti "tettonici" di lungo periodo.

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  10. @ chissacosera:

    a proposito della vexata qæstio del denaro. Il valore di scambio, prima che denaro, è “l’astratto rapporto della proprietà privata con la proprietà privata”. Questa dinamica esprime qualcosa di ben più profondo: è la forma di relazione fondamentale che si stabilisce tra gli uomini nel modo di produzione capitalistico che, nel suo divenire tende a negarsi e a produrre il suo superamento (il “tendere a zero del valore di scambio nel divenire della contraddizione valore d’uso-valore e valore di scambio”, per dirla con Marx). Ciò che entra in crisi non è semplicemente il “rapporto monetario”, ma l’intera gamma di relazioni sociali tra gli uomini.

    @ de michelis:

    mettere in relazione il termine “senescenza” con il capitalismo è fuorviante. Le crisi del modo di produzione capitalistico hanno a che fare – da sempre e nell’essenziale – con la sua contraddizione fondamentale. Contraddizione che nella fase attuale ha assunto il carattere di crisi generale e storica del capitalismo (tralascio di entrare nel dettaglio tecnico poiché in questo blog è trattato in lungo e in largo). Crisi generale perché crisi di tutta la formazione sociale; crisi storica perché la materia sociale prodotta dal modo di produzione capitalistico ha raggiunto, nel dominio reale totale, la sua “massa critica”: ogni ulteriore espansione è insieme processo di esplosione/implosione, di massima diversificazione e di collasso autodistruttivo.

    Quanto al fatto che il sistema, per risolvere le sue contraddizioni, ricorra alla guerra, è cosa notissima. Il mezzo con il quale ha sempre storicamente risolto le sue periodiche crisi di sovrapproduzione è stato la guerra. Infatti, la guerra permette innanzitutto alle potenze imperialistiche vincitrici di allargare la loro base produttiva, ma soprattutto guerra significa distruzione di capitali, merci, e forza-lavoro, quindi possibilità di ripresa del ciclo economico per un periodo di tempo abbastanza lungo.

    Sullo stesso tema, per quanto riguarda la fase attuale e la possibilità di un nuovo conflitto generalizzato tra blocchi di potenze, l’argomento in questo blog è stato ampiamente e ripetutamente trattato, fin dal suo esordio (per es., non conosco in italiano un altro blog o altra fonte che abbia trattato del livello di sviluppo raggiunto dalla marina militare cinese, cosa che ha interessato anche qualcuno a Pechino).

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    1. veramente a me le relazioni sociali sotto il capitalismo non dispiacciono troppo...

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    2. @Olympe de Gouge

      "ma soprattutto guerra significa distruzione di capitali, merci, e forza-lavoro".

      Perdoni la mia ignoranza, ma distruzione di merci e forza-lavoro mi è chiaro. Mentre non mi è chiaro la distruzione di capitali.
      In che modo si distruggono capitali, e cosa intende lei per capitali.

      Grazie per l'attenzione.

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    3. già le merci rappresentano valore, dunque capitale.ad ogni modo, banalità per banalità, una bomba che cade su una fabbrica non è forse distruzione di capitale. la contrazione produttiva non distrugge forse capitale, il crollo dei titoli azionari e del valore della moneta ........

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    4. "veramente a me le relazioni sociali sotto il capitalismo non dispiacciono troppo..."

      Andiamo a comandare.
      g

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  11. Olympe, lei non crede che esista una natura umana immutabile, pensa che la natura umana cambi nel tempo e sia un prodotto della storia, vero ? Pensa dunque che il capitalismo abbia plasmato una natura umana che non era mai esistita e che non esisterà più quando il capitalismo verrà superato. Beh, certo, se si parte da questo presupposto allora pensare di uscire dal capitalismo attraverso uno sforzo collettivo cosciente è voler fare come il barone di Munchausen che pensava di alzarsi da terra tirandosi per il codino. Lo so...lo pensava anche Marx, per questo io penso che Marx sia stato un grande economista e un mediocre filosofo.

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  12. EUREKA! E pensare che era così facile.
    Ora, bisognerà cancellare tutte le conoscenze acquisite con gli studi delle scienze demo-etno-antropologiche.
    Basta studi, basta ricerche. Da 2.300.000 anni Il mondo è abitato da esseri immutabili: Danculi e Piglianculi.

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