Il 23 gennaio 1933 nasceva l’IRI-Istituto per la
Ricostruzione Industriale. Senza l’IRI il “miracolo” del dopoguerra non sarebbe
stato possibile (quale capitale privato possedeva mezzi finanziari adeguati per
sostenere i giganteschi investimenti infrastrutturali?). Poi, già dagli anni
Sessanta, il perverso intreccio tra economia, affari e partitocrazia ha trasformato
le partecipazioni statali in carrozzoni: investimenti sbagliati, clientelismo,
crisi finanziaria del sistema, discipline dei prezzi imposti che vincolavano la
redditività delle imprese, ecc..
L’IRI si poteva riformare con una politica
industriale che avesse realmente al centro l’interesse nazionale, invece, senza
alcun tipo di dibattito politico e sindacale, si è deciso di puntare su un
modello liberista puro, con privatizzazioni prevalentemente integrali, che si è
tradotto nella svendita del patrimonio industriale e bancario al capitale
privato, con un forte intervento del capitale industriale e soprattutto
finanziario internazionale (in particolare i fondi pensione e immobiliari, specializzati
nel trattare titoli di imprese in via di privatizzazione). Nella realtà non si
sono voluti assolutamente privilegiare gli acquirenti italiani rispetto quelli
esteri, e del resto eventuali misure orientate a favorire gli investitori
nazionali sarebbero state considerate inammissibili dai padroni della UE.
Le privatizzazioni sono processi assai complessi e
operazioni di carattere essenzialmente politico, per cui è richiesta una
definizione degli obiettivi ultimi e la verifica delle compatibilità
strategiche nazionali e un’attenta selezione di ciò che è oggetto di
privatizzazione. E invece le privatizzazioni di IRI, EFIM ed ENI solo nelle
dichiarazioni di principio (la fola dell’azionariato diffuso, per es..) hanno
risposto a obiettivi di miglioramento di competitività e di efficienza del
sistema economico, ma in realtà esse hanno puntato anzitutto a ingrassare
profitti e rendite (“plusvalenze private da capogiro“ le definì uno che se ne
intende), e favorire un nuovo regime di monopolio (pensiamo solo all’acqua e ai
servizi pubblici in genere, alle autostrade, ecc.).
A titolo d’esempio: il 6 Dicembre 1993, l’IRI metteva
in vendita il 64% del capitale azionario del Credito Italiano, ma solo 12
azionisti in sostanza riescono a controllare la Banca con il solo 16% del
capitale sociale. Il caso della Banca commerciale italiana è esemplificativo: nel
1992 era collocata ai vertici nelle classifiche mondiali, un patrimonio netto
di circa 6.000 miliardi di lire e con attività pari a circa 130 miliardi di
lire. Se la sono pappata le Generali, Ras, Benetton, Gestione Fondi Fininvest,
eccetera.
Per quanto riguarda l’ENI, negli anni dal 1993 al
1996 ha ridotto il proprio personale di circa il 33.5%. Segnatamente dal 1993
al 1996 si è avuta una diminuzione del 23,7% dei dirigenti, del 17,7% degli
impiegati, del 13,8% dei quadri e del 33,7% degli operai. La prima fase di
privatizzazioni dell’ENI si è avuta nel dicembre 1995 ed è stata avviata anche
grazie al record del bilancio consolidato del 1994, che aveva toccato un’utile
netto di 3.215 miliardi, il più alto di tutta la storia e uno dei più alti in
Italia.
Alcuni responsabili di quelle svendite – i cui nomi
sono noti – sono ancora vivi e andrebbero processati e condannati, confiscati i
loro beni e quelli dei loro eredi. Se la sovranità appartenesse effettivamente
al popolo e la legge fosse realmente uguale per tutti.