«Il capitalismo ormai non è solo
incompatibile con la democrazia: è incompatibile con la vita».
Questa
frase mi provoca sempre un sorriso. Generazioni di comunisti e anticomunisti
non hanno avuto e continuano a non avere un’idea scientifica (non trovo
espressione più congruente) di che cosa sia il capitalismo nella sua essenza e quali
siano i reali motivi della sua crisi storica. Se ciò si può comprendere e
scusare per quanto riguarda le anime comuni, non può invece trovare alcuna
giustificazione quando a prendere una posizione antagonista al capitalismo con
simili frasi ad effetto sono dei leader politici.
Precisazione
propedeutica per chi si mettesse all’ascolto per la prima volta su questa
frequenza d’onda: una posizione anticapitalistica che attribuisca tutti i mali
sociali al capitalismo, fino a farne il responsabile ontologico di ogni
contraddizione sociale e nequizia umana, è un’idea che di per sé nulla ha a che
fare con una concezione materialistica e dialettica della storia. È un
manicheismo pretesco.
Compito
di un dirigente politico che non incarni semplicemente la critica
opportunistica borghese, che insomma non sia un Varoufakis greco o un Vendola
nostrano, è quello di chiarire per quale motivo fondamentale il capitalismo
risulti “incompatibile con la vita”. E dunque non basta denunciare il circolo
vizioso di inefficienza e irrazionalità,
di abusi e soprusi del sistema che sono ben evidenti ma comuni a ogni
formazione sociale finora succedutasi, e non è sufficiente dire che il modo di
produzione capitalistico, dominato dalle sue contraddizioni, produca effetti
dirompenti sul piano sociale e su quello della sostenibilità del rapporto di
ricambio uomo-natura (*).
È
per tali motivi che il capitalismo è incompatibile con la vita? Chiunque potrebbe
osservare che il capitalismo non è incompatibile con la vita più di quanto non
lo siano state formazioni storico-sociali antecedenti, e che esso è stato anzi
protagonista di uno sviluppo della produttività del lavoro e della scienza
senza precedenti, con ricadute sul miglioramento delle condizioni di vita che
tutti conosciamo.
Si
potrebbe soggiungere che tale risultato il capitalismo (ossia i capitalisti
che ne sono la personificazione) non l’ha posto come suo scopo, che ciò è
dipeso, nell’effettualità storica, dalle leggi immanenti del suo movimento. Pur
tuttavia tale considerazione, nella sostanza, non cambia di nulla il fatto che
le condizioni di vita siano generalmente migliorate.
È
necessario uscire dalla solita merda comiziale, dallo spot mediatico, e spiegare
perché ciò che avviene non dipende
dal destino cinico e baro, dalla cattiveria e ingordigia dei capitalisti, o a
causa di complotti della grande finanza, della Bce e via discorrendo. Tutta quella
gente fa solo il suo sporco mestiere (non è necessario ch’essa continui ad
esistere, ma questo è già un altro tema). Chi invece non fa il suo di mestiere
sono quelli che dichiarano che il capitalismo è incompatibile con la vita e poi
si siedono nelle cattedre universitarie, nei parlamenti e nelle stanze dei
bottoni.
Un
bel rompicapo dunque stabilire i reali e fondamentali motivi per i quali il
capitalismo è “incompatibile con la vita”.
*
Sul
principio l’accumulazione capitalistica si presentava solo come ampliamento
quantitativo, poi, nel suo sviluppo storico l’accumulazione ha assunto man mano
un continuo cambiamento qualitativo della sua composizione, con un permanente aumento
della sua parte costitutiva costante a spese della sua parte costitutiva
variabile (forza-lavoro). È esattamente ciò che sta sotto gli occhi di tutti:
aumentano gli investimenti ma in rapporto ad essi cala drasticamente l’impiego
di forza-lavoro. Non solo viene a prodursi un esercito industriale di riserva,
congeniale alla compra-vendita di forza-lavoro, ma si forma una
sovrappopolazione assoluta in rapporto
alla necessità produttiva del capitale. Anche se la popolazione calasse
drasticamente di numero, per ciò che riguarda il capitale e la tendenza di cui s'è detto, ci sarebbero sempre troppe bocche cui dar da mangiare. Non solo, il calo delle
bocche porterebbe a una riduzione dei consumi e dunque a un calo della
produzione, e via dicendo.
Il
costante mutare del rapporto tra capitale costante e quello variabile (vedi qui), tende a far calare il saggio del profitto. Cosa che come ogni scolaretto
sa bene, manda fuori dei gangheri i capitalisti perché significa che in
rapporto all’aumento degli investimenti calano i profitti. Per far fronte a
questo non lieve inconveniente i capitalisti hanno la necessità di aumentare la
produttività del lavoro e per farlo non c’è di meglio che aumentare lo
sfruttamento e introdurre nuove macchine che facciano risparmiare lavoro. Da
questa spirale deriva il famoso detto: il capitalista si morde la coda.
Il
capitalista a questo punto si fa assai parsimonioso, non certo con i propri
consumi ma bensì con quelli dei suoi schiavi e con quei gruppi sociali che
consumano senza produrre perché non possono essere riassorbiti nella produzione
o perché hanno esaurito il loro ciclo vitale utile alla realizzazione ed alla
conservazione del valore. Una situazione che non dipende dalla cattiveria del
capitalista, per quanto egli ne sia responsabile, ma dalle leggi stesse su cui
si muove la produzione di valore.
Come
anche un economista tra i meno imbecilli potrebbe comprendere se non avesse la
testa ed il cuore presi da altri interessi, il capitale, nel suo processo di
valorizzazione basato sull’estorsione del plusvalore, tende, a un certo grado
del suo sviluppo, a trovare un limite in se stesso, e così le condizioni che
hanno favorito lo sviluppo della ricchezza generale vengono sempre più a
cessare. Le crisi si fanno sempre più frequenti e ravvicinate, entriamo
nell’epoca della crisi generale-storica del modo di produzione capitalistico.
Tutto
ciò può essere spiegato anche meglio e con parole più semplici, vorrei dire con
concetti ancor più rozzi ma popolarmente efficaci. Quando invece si pronuncia una
frase come il capitalismo ormai non è
solo incompatibile con la democrazia: è incompatibile con la vita, si
pronuncia una frase vuota, priva di significato reale, di determinazioni
cogenti, si nasconde la realtà della crisi del modo di produzione capitalistico
dietro uno slogan.
La
schiavitù non è incompatibile con la vita, tant’è che esiste sotto varie forme
da millenni. Né incompatibile con il progresso sociale, tant’è che oggi
troviamo condizioni generali di vita migliori che in passato, anche se in via
di rapido peggioramento.
È
la produzione di valore per il valore, lo sfruttamento del lavoro fine a se
stesso, il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza
odierna, che si presenta come una base miserabile rispetto alla nuova base che
si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dallo sviluppo scientifico e
dalla grande industria stessa. Una nuova base sulla quale iscrivere
nuovi rapporti sociali, dove non sia più il lavoro immediato, eseguito
dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora a presentarsi come il grande
pilone di sostegno della produzione e della ricchezza (**).
Questa
è una posizione scientifica, prima ancora di essere politica.
(*)
Andrebbe precisato, peraltro, che quando si parla genericamente di capitalismo si tratta solo di una determinazione economica riferita alla struttura dei
capitali. Altro discorso vale quando per capitalismo si alluda a un sistema
economico-sociale totalizzante. Per esempio, anche se miliardi di persone,
nella loro quiete coatta, non vi pongono mente (e non sto qui a spiegare
perché), l’attuale società informatizzata appare (e non solo perché l’ha
denunciato Edward Snowden) come un grande ergastolo, neppure troppo mitigato,
in cui ciascun insieme sociale, così come ciascun individuo, si muove in bracci
differenziati e rigidamente regolamentati. In ciò la frase da cui ha preso
spunto questo post ha un senso. Un senso che comunque in genere sfugge a chi la
pronunci. Un borghese come Barthes ne era però consapevole laddove scriveva: “Tutte le istituzioni ufficiali di linguaggio sono
macchine per ripetere: la scuola, lo sport, la pubblicità, la canzone,
l’informazione, ridicono sempre la stessa struttura, lo stesso senso, spesso
perfino le stesse parole: lo stereotipo è un fatto politico, la figura
principale dell’ideologia”. Chissà cosa ne penserà Ernesto Galli di
Barthes, che forse si tratti di un “anarco-insurrezionalista”?
(**) Come scrive Marx: Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo.
(**) Come scrive Marx: Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo.
Nel bilancio della Storia,Ernesto Galli di Barthes è già registrato sotto la voce Ammortamenti.
RispondiEliminaSolo che lui ancora non lo sa.
caino
ciao caro, Ernesto Galli di Barthes mi ha messo di buon umore
EliminaAvrei un quesito:
RispondiEliminacon la caduta tendenziale del saggio di profitto, e la conseguente mancata valorizzazione del capitale, il capitalista può "rifugiarsi" nella finanziarizzazione, giusto?
Grazie in anticipo per la delucidazione.
AG
in alternativa c'è anche il poker
EliminaLa risposta è sarcastica, ma va così?
EliminaAG
Figurati non so più in quale occasione, ma io lo chiamai "del Pollaio".
RispondiEliminaDel Pollaio a mio avviso rende bene l'ambiente cultural-borghese nostrano nelle sue più svariate sfaccettature.
Dopodiché, che cosa davvero possa pensare l'Ernesto di Barthes, resterà per sempre racchiuso nei meandri della Storia.
caino
lo stereotipo è necessario dal momento che ogni fenomeno valida la medesima sostanza, una sostanza che ne esce per un verso riconfermata -l'impalpabile rapporto sociale di dominio e sfruttamento- e per l'altro superata e smentita dal fenomeno stesso che in qualche misura la eccede, lanciando una labile segnalazione di "plus-possibilità"
RispondiEliminalo sterotipo della libertà ( l'aspirazione borghese a )si manifesta così in un enorme carcere sociale a cielo aperto. La denuncia di un generico malessere per la "vita" lì vissuta non ne coglie la dialettica storica e ne denuncia solo i difetti, come se il mondo, così com'è, fosse perfettibile ma non umanizzabile
come se il mondo, così com'è, fosse perfettibile ma non umanizzabile
Eliminami pare una perfetta sintesi
Veramente bella.. e rappresenta il limite insuperabile di tutta la Cultura Borghese che oramai anche nelle sue componenti "progressiste" è solo più ripetitiva e però rappresenta pure una trappola per "molti "che si lasciano incantare.
RispondiEliminacaino
Mi pare di capire che il penultimo periodo, quello che comincia con "È la produzione di valore per il valore..." ponga le basi di una nuova futura argomentazione, che seguirò con molto interesse.
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