Segnalo
una recensione comparsa ieri su il manifesto, a firma di Anna Curcio, dal titolo I colpevoli roghi della storia europea e le lotte delle donne, che
ha per tema il libro di Silvia Federici, Calibano
e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria.
Non
tutto l'impianto del lavoro della Federici mi convince, almeno per come viene descritto nella recensione e da ciò che si desume dai brani riportati nell'articolo. A cominciare dalla “accusa” rivolta a Marx
di aver “perso di vista le profonde trasformazioni che il capitalismo ha introdotto
nella riproduzione della forza-lavoro nella posizione sociale delle donne”, come scrive Curcio.
Posso dissentire da questa tesi che a me pare, di primo acchito (non ho letto il
libro della Federici), frutto di un fraintendimento su che cosa sia e non sia Il Capitale di Marx. Si tratterebbe
anche di un’“accusa” un po’ alla leggera posto che Marx, per contro, si occupa,
non solo incidentalmente, proprio della posizione della donna (e del lavoro
minorile) nell’ambito delle “profonde trasformazioni che il capitalismo ha introdotto
nella riproduzione della forza-lavoro”.
Le
mie condizioni di salute non mi permettono attualmente di mettere mano (per
fortuna dei lettori del blog) ai “sacri testi” per una estesa disanima sia,
dapprima, su che cosa si proponga effettivamente Il Capitale di Marx (che non è uno studio storico-sociologico), e
sia per dimostrare che Marx aveva ben presente il profondo significato trasformativo
dei rapporti sociali intervenuti nella formazione storico-economica del
capitalismo, e dunque nella divisione sociale del lavoro e nella modificazione
dei rispettivi ruoli tra uomo e donna, segnatamente per quanto riguarda vecchie e nuove ineguaglianze e gerarchie
costruite sul terreno del genere.
Ad
ogni modo, posto che stiano effettivamente così le cose, ossia come le presenta
la recensione (credo che il libro meriti di essere letto per la ricostruzione
storica del tema), mi trovo molto d’accordo quando leggo che “il corpo e le
attività legate alla riproduzione restano oggi, come agli albori del
capitalismo, un campo di battaglia” (detto tra parentesi: non solo le attività
legate alla riproduzione, ma tutte le fasi dell’intero ciclo vitale della merce
salariata), laddove “il corpo della donna diventava macchina della riproduzione”.
[…] Il corpo – l’utero in particolare – si fa dunque macchina da lavoro:
bestia mostruosa da disciplinare da una parte, involucro e contenitore della
forza-lavoro dall’altra […]. Non sorprenderà allora che ogni pratica abortiva o
contraccettiva sia stata condannata come maleficio, così le donne espulse da
quelle attività come l’ostetricia o la medicina che avevano fin lì esercitato
sulla base di saperi tramandati nel tempo”.
E,
soggiungo, anche il cosiddetto “utero in affitto”, come involucro e
«contenitore», resta “macchina della riproduzione”, sotto il segno del valore
di scambio.