“Un mese poco brillante per la
produzione, peggiore per le vendite. A marzo
i ricavi dell’industria italiana cedono l’1,6% su base mensile
destagionalizzata, il 3,6% in termini annui, peggior dato da agosto 2013. Una
caduta in entrambe le misurazioni Istat legata soprattutto alla frenata sul
mercato interno, dove il fatturato cede il 4,4% rispetto allo stesso mese
dell’anno precedente”.
“Su base mensile il fatturato è invece in flessione dell'1,6% a marzo e nella media
dei primi tre mesi dell'anno dell'1,1%. L'andamento del fatturato è peggiore
per il mercato interno mentre sul mercato estero si registra un leggero aumento
sul mese (+0,1%) e una diminuzione del 2,2% sull’anno. I ricavi su base annua
segnano una diminuzione del 4,4% sul mercato interno e del 2,2% su quello
estero.”
C’è
sempre da imparare qualcosa dalla stampa economica, specie quando mischia pere
e patate, ossia quando parla di calo dei ricavi mettendoli in rapporto al calo
del fatturato (e viceversa). Tra l’altro sarebbe bene sapere che non sempre i
ricavi, ossia i profitti, vanno di pari passo con l’andamento del fatturato.
Il
mondo dell’informazione procede così, zoppo. Si titola, per esempo: “Siderurgia,
in aprile l’Italia leader globale della crescita”, per poi scoprire due
cosette interessanti: 1) su oltre mezzo miliardo di tonnellate di acciaio
prodotte annualmente, l’Italia è leader globale della crescita con … circa lo
0,4 per cento della produzione globale; 2) tale pseudo primato della crescita
pare peraltro dovuto alla “diversa scansione delle ferie pasquali tra il 2015 e
il 2016: il maggiore tonnellaggio di questo aprile si giustificherebbe perché
rapportato con un periodo condizionato dal rallentamento produttivo dovuto ai
fermi pasquali”.
*
C’è
guerriglia tra diversi potentati economici attorno al possesso del Corriere della sera. Per quale motivo
degli imprenditori, dei capitani coraggiosi, dovrebbero farsi la guerra per la
proprietà di una testata in perdita e con un passivo stratosferico? Vogliono
bene all’informazione oppure desiderano “indirizzarla”? Certo, si tratta di un
quotidiano prestigioso, dove vi scrivono le più “autorevoli” firme.
Sennonché
l’informazione incide in modo decisivo nella formazione della cosiddetta
opinione pubblica, e dunque è chiaro il motivo politico sul perché un’attività
economica con bilanci perennemente in rosso interessi tanto i capitani
coraggiosi dell’imprenditoria e della finanza, ma anche, per fare un esempio di
rilievo, la Chiesa cattolica e altri gruppi di potere e di pressione.
L’informazione
è un ganglio vitale di questo sistema dominato da “un’oligarchia dinamica incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di
costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto
controllo i meccanismi elettorali” (Luciano Canfora, La democrazia, p. 331). Ne abbiamo un esempio in questi giorni con
l’attacco sferrato contro il presidente dell’Inps, che di là della bontà
rilievi che gli sono mossi, ha lo scopo precipuo della minaccia: stai al posto
tuo e non rompere.
Quanto
alle grandi firme, gli editorialisti e gli opinionisti noti al grande pubblico
che i giornali (e gli altri media) si contendono a colpi di cospicui contratti
d’ingaggio, essi hanno funzioni di diversione ma anche d’indirizzo: possono
scrivere come e quello che vogliono, così s’ingenera l’impressione che nei
giornali si possa scrivere come e quello che i giornalisti vogliono. La loro
indipendenza recintata dà al giornale l’odore dell’indipendenza, la loro
stravaganza dà al giornale un tocco di brio, il loro coraggio nel sostenere
opinioni impopolari dà al giornale l’impronta dell’anticonformismo. Se poi a
causa di un editoriale si perdono anche dei contratti pubblicitari, questa
diventa la prova dell’indipendenza del giornale.
Il
rovescio della libertà dell’editorialista è la non libertà della redazione. Gli
editorialisti non hanno influenza diretta sul restante contenuto del giornale,
gli editoriali sono articoli di lusso, gli editorialisti dei divi ben pagati.
Il resto del giornale, la parte cospicua del lavoro, è svolta nelle redazioni.
Spesso si tratta di un mero lavoro di copia incolla, di “foraggio” che passano
le agenzie, di redazionali pubblicitari o lobbistici camuffati da articoli
specialistici, di comunicati stampa governativi fatti di annunci volutamente
contraddittori e di contraddittorie smentite, di prove tecniche di confusione
per sondare le reazioni.
Scrivevo
nell’agosto scorso: Da molto tempo questo paese è entrato in una nuova fase
della sua storia democratica e però, grazie all’uso sapiente dei media, alle
apologie, non sembra accorgersene. Siamo ora giunti a un nodo cruciale di
questo processo involutivo, fatto passare proprio nei media come un percorso
obbligato di “riforma” dell’esistente (la rottamazione del vecchio e
putrescente), come una necessità imposta dalla situazione, dall’emergenza in
cui tutto precipita, di cui i “semplici cittadini” si fanno carico. Si tratta
altresì, per le sue conseguenze immediate e future, di una svolta pericolosa
che oggi non siamo ancora in grado di valutare appieno.
tanto più se l' economia non tira e non redistribuisce più niente, quel niente deve subire un indirizzo statale sempre più indiscutibile nei suoi interessi di classe. l'italia vanta una secolare tradizione in merito
RispondiEliminanon sono invece d'accordo con Canfora, di cui ho letto il libro scritto con Zagrebelsky. in qualche modo il grande capitale italiano si è sempre mosso in ordine sparso, disunito in mille cordate e salotti -cioè interessi, tanto da aver convenienza a lasciar governare nani, ballerine e altra gente ricattabile, tratto che unisce la prima e la seconda repubblica.
Hanno fatto i loro interessi meglio nel bordello (metaforico ma non troppo) politico-economico italiano piuttosto che suggerire un piano industriale serio e vincolante, pur all' interno della dinamiche "terziarizzanti" del capitalismo avanzato. Il risultato di queste molteplici incapacità è stato il lasciare l'illusione che una economia del G7 potesse stare in piedi con il turismo, la comunicazione e i prodotti di nicchia.
queste riforme -chiamiamole così, non solo quelle costituzionali, soprattutto quelle più direttamente economiche- arrivano tardissimo, superate ampiamente dai rapporti di forza già in essere nella società, li sanciscono e li recepiscono a livello istituzionale.
il punto a mio avviso, per il proletariato, è che a causa della lunga egemonia del partito stalinista italiano (e replicanti "estremisti" ancora non-estinti), non c'è modo di esprimere una rappresentanza politica che sappia cogliere quanto nel riformismo (l'ultima brutta copia l'ha tentata Craxi) ci potrebbe essere di potenzialmente emancipante non dal capitalismo, ovviamente, ma dalla secolare presa dello Stato italiano sul sistema socio-economico.
Sarebbe il primo passo per costruire un primo nucleo di autonomia di classe pratica e teorica (distinzione formale)che si possa rappresentare di per sè, direttamente. vedremo quanti e perchè si asterranno.