giovedì 2 maggio 2024

Basta la parola

 

In un momento storico in cui, ovunque nel mondo, comprese le democrazie ritenute più immuni alla peste fascista, l’estrema destra si sta affermando come un’alternativa politica accettabile, quando non è già al potere, si sta banalizzando pericolosamente la realtà storica del fascismo, la sua ideologia, i suoi attori, i crimini e le atrocità da loro commesse.

Più ancora che attraverso certe smargiassate mediatiche, ciò avviene in modo perfidamente subliminale. Piaccia o no, il rifiuto di prendere una chiara posizione contro il fascismo è gravido di conseguenze. La negazione impone la sua legge nella memoria collettiva. Fa anche parte di un modo molto contemporaneo di condurre il dibattito, o meglio di chiuderlo.

E invece è opportuno ricordare l’intervista di Filippo Focardi a De Felice (La guerra della memoria, Laterza), il quale auspicava una storicizzazione del fascismo (“possiamo ragionare, informarci, parlare del fascismo con più serenità”), implicando il superamento del mito antifascista e una riforma istituzionale che deve comportare l’abolizione delle norme costituzionali che vietano la ricostruzione del partito fascista.

Molti credono che il fascismo sia come la cavalleria nel Don Chisciotte, ossia che non tornerà più. Si dice che nelle sue concretizzazioni storiche non risponda più a una realtà come quella odierna, dunque che la parola è sopravvissuta alla cosa. Si sbagliano oggi come allora:

“Il fascismo, come ordine politico, è finito: le sue strutture esteriori, le colonne di cartapesta e gli archi di falsa antichità, lo sappiamo, non torneranno mai più. [...] Ma resta l’usanza sotterranea; circola, serpeggia, fermenta: alimenta altri furti, incoraggia altre prepotenze, dà origine ad altre oppressioni” (Piero Calamandrei, Per la storia del costume fascista, Il Ponte, 1952, VIII/10, p. 1337-1348).

I fascisti non sono scomparsi da un giorno all’altro, la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, dove esistono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia sociale. Un “sommerso” che ha sempre guardato all’esperienza fascista in maniera indulgente, addirittura benevola, che si alimenta di meschinità mentale, egoismo e chiusura. L’anacronismo è solo apparente, il fascismo va oltre l’epoca che lo ha generato ed è poco compreso perché poco conosciuto e intanto guadagna terreno.

Meloni e i suoi camerati hanno avuto la capacità, a loro congeniale, di opporsi a tutti i governi che si sono succeduti dal 2012. Facendo leva sul malcontento sociale, sono tornati al potere senza orbace e sfruttando una legge targata Pd che è una combinazione di voto proporzionale e maggioritario, che dà un premio significativo alle coalizioni.

Come disse Almirante, bisogna imparare ad “essere fascisti in democrazia”. Prendono le distanze dagli aspetti più ignominiosi del regime fascista, in particolare dalle leggi razziali e dalla guerra (ma il razzismo non è un inciampo e la guerra non è un incidente, sono lo sbocco naturale del fascismo), ma per il resto si trascinano dietro la velenosa eredità, piena di contraddizioni, di un modo di pensare e di sentire, una serie di cliché culturali.

Rimozioni, revisioni, negazioni, fanno gargarismi con parole tese a ingannare avversari e contradditori. E, quando queste parole mancano o non bastano, ne inventano di nuove. Anche se non di rado raggiungono l’apice del ridicolo, si tratta innanzitutto di fellonia. Ma non ci si può sbagliare, nonostante i tailleur e le cravatte Armani sono proprio loro.

La XII disposizione transitoria e finale della Costituzione vieta la riorganizzazione del partito fascista. La conseguente legge n. 645/1952 non impedisce a chicchessia di dichiararsi fascista e perfino di esprimere una difesa elogiativa del fascismo. Per paradosso esiste da quasi ottant’anni un partito neofascista in Parlamento, ma nessun personaggio di spicco di questo partito, almeno di recente, ha avuto il coraggio di dichiararsi pubblicamente fascista.

Massimo Cacciari sostiene che la richiesta di pentimenti e di conversione è odiosa. Perfettamente d’accordo, nessun pentimento e men che meno richieste di conversione. Ma la richiesta c’è perché personaggi che ricoprono le più alte cariche istituzionali non si dichiarano apertamente per quello che sono e in ciò in cui credono, senza escamotage verbali. Non si tratta di un semplice dibattito semantico: come non cogliere un vulnus nella reticenza di questi personaggi? La domanda è importante.

Non si chiede loro di dichiararsi antifascisti perché non lo sono, né di purgarsi con l’olio di ricino, ma con la dolce Euchessina. Basta la parola: fascisti.

mercoledì 1 maggio 2024

Attrezzi di lavoro

 

Buon Primo Maggio. Piove a dirotto, ma di per sé non è un fatto straordinario. Che piova quasi ininterrottamente da febbraio forse un po’ anomalo lo è. Sì, l’ho sentito dire: la corrente del golfo del Messico ha trovato in mezzo all’Atlantico un vortice ciclonico che le ha impedito di raggiungere il suo amore nell’Artico.

Siamo tutti esperti di qualcosa, come una mia parente che fa la diagnosi a tutti: “non sono un medico, ma penso ...”. Ma pensasse ai cazzi propri. Non che la “scienza” sia molto meglio. La questione della verità e della menzogna. Anche sul clima. Ovvio che assistiamo a un cambiamento accelerato, quando mai s’è visto il riscaldamento acceso a maggio? Anche ai primi di giugno s’è per questo, qualche anno fa.

Se un “esperto” onesto dovesse dire “non lo so” in TV, non lo inviteranno a tornare. Ma un esperto onesto non si fa vedere nella TV spazzatura. La scienza si basa sul dubbio permanente. Questa oscillazione induce una certa confusione nella società, e dunque assistiamo, come durante il Covid, a delle vere e proprie pagliacciate.

È vero che la ricerca consiste nel porre domande, ma dopo un certo tempo si raggiunge un consenso, quantomeno all’ingrosso. Le controversie sono il carburante della scienza (vedi Pasteur e Koch) e la scienza è un modo collettivo per porre fine alle controversie. Ma in televisione si vedono solo tifosi. E anche noi tifiamo per questo o quello.

Non parliamo poi se tali controversie dovessero anche solo sfiorare questioni religiose (Galileo, Darwin, per citare famosi) o di natura politico-ideologica. In genere, per formarsi un’opinione, l’uomo medio spesso mette al primo posto il buon senso. Sappiamo però che il buon senso è fuorviante, altrimenti continueremmo a credere che il Sole giri attorno alla Terra.

Bisognerebbe dirlo anche a quelli che dicono di essere culo e camicia con la “realtà”. Te lo dimostrano dicendo che due più due fa sempre quattro. Dipende però da dove e come hai ricavato quei numeri. Se per esempio il “valore aggiunto” lo metti in rapporto con tutto il capitale, viene fuori che anche una biella, per il semplice motivo che si muove, produce valore. E dunque se qualcuno sfrega l’uccello al padrone, anche quel movimento produce “valore” (*).

Dicevo che la scienza consiste nel porre domande. Tuttavia la scienza non può rispondere a tutte le domande che ci poniamo. Ad esempio, cos’è una società giusta o come vivere liberi. Queste non sono domande su cui deciderà la scienza.

Il valore di verità delle idee nate in un particolare contesto sociale e ideologico non potrà mai essere emancipato da questo contesto senza una lotta ideologica. Ecco perché, ripeto per l’ennesima volta, la lotta ideologica è la lotta più importante. Non per far cambiare idea ai padroni e ai loro mantenuti (impossibile), ma per far uscire noi dalla caverna nella quale ci tengono incatenati con le loro bugie e i pregiudizi ripetuti continuamente e che creano dei bias cognitivi.

Cari lavoratori e care lavoratrici, in questa bella società il nostro lavoro è equiparato a quello di una biella o di qualsiasi aggeggio della cassetta degli attrezzi. E dunque pazienza se qualcuno di noi dovesse morire o diventare invalido; come per gli attrezzi di lavoro, se ne compra un altro. Come per gli attrezzi di lavoro, se non servono più, diventiamo inutili. I padroni, loro mai.

(*) «Smith aveva sostanzialmente ragione col suo lavoro produttivo e improduttivo, ragione dal punto di vista dell’economia borghese. Ciò che gli viene contrapposto dagli altri economisti è o sproloquio (per esempio Storch, Senior ancor più pidocchiosamente), e cioè che ogni azione produce comunque degli effetti, per cui essi fanno confusione tra il prodotto nel suo senso naturale e in quello economico; secondo questo criterio anche un briccone è un lavoratore produttivo poiché, mediatamente produce libri di diritto criminale; (per lo meno questo ragionamento è altrettanto giusto per cui un giudice viene chiamato lavoratore produttivo perché protegge dal furto). Oppure gli economisti moderni si sono trasformati a tal punto in sicofanti del borghese da volerlo convincere che è lavoro produttivo se uno gli cerca i pidocchi in testa o gli sfrega l’uccello, giacché quest’ultimo movimento gli terrà più chiaro il testone — testa di legno — il giorno dopo in ufficio» (Grundrisse, MEOC, XXIX, p. 203).

martedì 30 aprile 2024

Otto zeri

 

Il dottor Stranamore era un “documentario”, non un’opera di finzione.

Con la fine della Guerra Fredda molti pensavano che il mondo avesse superato la politica del rischio nucleare delle grandi potenze. Dopo la Guerra Fredda, sia gli americani che gli europei hanno perso, in larga misura, la paura per la guerra nucleare. Almeno inconsciamente sono arrivati a credere che questo fosse un vecchio problema, qualcosa che abbiamo superato con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica.

In realtà, negli ultimi anni, i pericoli di un’escalation nucleare sono aumentati, e non diminuiti. In parte ciò è dovuto al fatto che siamo diventati sprezzanti nei confronti di questi pericoli. In parte ciò è dovuto al fatto che molte delle linee rosse che erano state stabilite nel periodo della Guerra Fredda per gestire i pericoli di quel tipo di escalation sono scomparse o sono diventate labili.

Non c’è quel tipo di dialogo come ai tempi di Kennedy e Krusciov che permise di trovare una via d’uscita dalla crisi missilistica cubana. In questo momento, le due parti non si parlano. Non esistono le misure necessarie per prevenire l’escalation: l’allora Anatoly Dobrynin, ambasciatore sovietico durante la crisi missilistica cubana, è oggi Anatoly Antonov, l’ambasciatore russo a Washington, quasi una persona non gradita.

Gli Stati Uniti, nella loro arroganza, hanno perso l’abitudine allo scambio diplomatico durante il periodo successivo alla Guerra Fredda. Non c’era alcun potere paritario nel mondo, nessun’altra potenza si avvicinava al grado di potenza militare ed economica degli Stati Uniti.

Una potenza unipolare che riteneva di non dover stringere accordi, di dover scendere a compromessi con altri paesi. La tendenza era quella di dire agli altri che cosa andava fatto e quando si rifiutavano giungeva subito la minaccia. Washington ha rinunciato alla diplomazia che sarebbero normalmente richiesta in un ordine mondiale caratterizzato da maggiore equilibrio.

Negli Stati Uniti la Russia è diventata una questione di politica interna e non di politica estera. C’è la convinzione di avere a che fare con un problema di deterrenza. Il modo migliore per trattare con la Russia è mostrare la propria determinazione, schierando truppe e armamenti ai suoi confini, facendole capire a cosa va incontro se non si tirerà indietro.

È sulla base di tale strategia e mentalità che si è arrivati alla guerra in Ucraina. Si è stabilita così una spirale di escalation, e, contrariamente a quanto si può pensare, una simile spirale aggrava la situazione. Con il recente nuovo finanziamento per l’invio di armi a Kiev si è raggiunto un punto estremamente pericoloso.

È ovvio che entrambe le parti vogliono evitare la guerra nucleare, ma ci sono diversi modi in cui ciò può accadere. Uno è accidentale: più a lungo va avanti la guerra, più gli Stati sono in essa invischiati, più sei in quella situazione, più alte diventano le possibilità di incidente.

Il sostegno militare all’Ucraina potrebbe diventare così determinante sul campo di battaglia da far decidere a Putin di non avere altra scelta se non quella di attaccare quel sostegno. Finora si è astenuto dal farlo, o è intervento su scala relativamente limitata nell’interdizione delle forniture militari occidentali destinate al fronte ucraino. Certamente non ha attaccato le fonti di tale sostegno, ma potrebbe vedersi costretto a farlo.

Se la Nato entra sempre più nel conflitto, posto che la Russia non è disposta a contemplare la sconfitta, la guerra si trasformerebbe rapidamente in livelli nucleari tattici e poi strategici. Il deterrente nucleare russo ha lo scopo di scoraggiare le minacce esistenziali alla Federazione russa, indipendentemente dal fatto che siano nucleari o minacce convenzionali.

Non comprendere questo significa non avere chiaro come possa evolvere realmente lo scenario di guerra in Europa. Significa non comprendere che in questa guerra non è coinvolta la Serbia, tanto per dire, ma è in gioco la stessa sopravvivenza della Federazione russa, vale a dire una delle superpotenze nucleari del pianeta.

Oggi, a differenza del periodo della Guerra Fredda, quando in realtà le uniche armi che potevano rappresentare una minaccia strategica alla sopravvivenza degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica erano solo le armi nucleari, questo non è più vero. Oggi, le armi convenzionali possono, attraverso il loro puntamento di precisione e il loro potenziale esplosivo, rappresentare il tipo di minaccia che solo i missili nucleari rappresentavano.

Mi sembra chiaro che di fronte a una tale situazione, auspicata da Kiev, la Russia si vedrebbe costretta a ricorrerebbe al nucleare per reagire. Continuare ad alimentare questa guerra e introdurre armi sempre più potenti e di più lunga gittata, è una formula per una rapida escalation fino a un conflitto nucleare strategico.

Quando c’è un attacco in arrivo, questo è rilevato dal sistema di allarme. Ciascuno dei leader coinvolti, i presidenti degli Stati Uniti e della Russia, non si accontenterebbe di aspettare per vedere l’effetto di quegli attacchi in relazione alla propria capacità di ritorsione. Ciascuna parte agirebbe molto rapidamente, in modo di limitare i danni alla propria parte. L’incentivo è quello di fare le cose in grande, non di sedersi e aspettare e sperare che l’altra parte stia conducendo una sorta di attacco dimostrativo.

Sarebbe una cosa molto difficile da gestire e con pochissimo tempo per prendere decisioni irrevocabili. Queste armi possono raggiungere i propri obbiettivi in pochi minuti, e il tempo in quei frangenti passerebbe in fretta come non mai. In quei momenti cruciali, i responsabili politici e militari in quale stato psicologico ed emotivo si troveranno? Saranno sobri, saranno assonnati, saranno preparati e sufficientemente informati e ben consigliati?

Chi sottovaluta il rischio nucleare, ignora come sia diventato delicato il meccanismo d’innesco della risposta e come questa non si attivi necessariamente con una delle tre valigette Zero Halliburton rivestite in pelle (spetta al Centro di Comando del Pentagono avviare la procedura).

Sembra una barzelletta, ma dal 1962 al 1977 il codice di lancio dei missili nucleari era composto semplicemente da otto zeri! Oggi, i codici a disposizione del presidente, e che poi permettono al Pentagono di lanciare missili, non solo sono generati automaticamente dalla NSA, ma compaiono anche, sul cookie, tra altre serie di numeri. Il presidente deve quindi sapere dove si trova esattamente il suo codice. Una precauzione in più in caso di furto della carta (il “biscotto” che porta con sé).

Possiamo immaginarci Biden o Trump, mentre si stanno ancora infilando i calzoni, con decisioni da cui dipende la sopravvivenza stessa dell’umanità e alle prese con questa procedura? Questa è solo letteratura, roba da film. Infatti, Bill Clinton aveva smarrito il biscotto per diversi mesi nel 2000, e i presidenti Gerald Ford e Jimmy Carter lo lasciarono entrambi in un abito che andò in tintoria. Nel marzo 1981, dopo l’attentato a Ronald Reagan, il militare incaricato di portare la valigia non riuscì a salire sull’ambulanza. Raggiunse rapidamente il presidente in ospedale e, una volta lì, si rese conto che mancava il biscotto. La piccola tessera è stata infine ritrovata in una delle scarpe del presidente, in sala operatoria.


lunedì 29 aprile 2024

La "minaccia cinese"

 

Per gli eroi del libero (?) mercato non si è mai abbastanza capitalisti. Nella Cina odierna, quello che oggi viene definito “socialismo con caratteristiche cinesi” non è altro che il vecchio capitalismo, in cui la stragrande maggioranza delle persone nella società lavora e il loro lavoro è sfruttato da una piccola minoranza di proprietari.

La Cina ha fatto uscire dalla secolare povertà più nera centinaia di milioni di persone, e non si può negare che il tenore di vita sia aumentato significativamente negli ultimi decenni. Nonostante ciò, la disuguaglianza è enorme. Jack Ma, il miliardario fondatore di Alibaba (l’equivalente di Amazon in Cina), con un patrimonio netto di oltre 40 miliardi di dollari, non si è arricchito rivendendo le mele che aveva lucidato per qualche mercato locale. Si è arricchito allo stesso modo di Jeff Bezos: sfruttando i lavoratori e facendo amicizia nelle alte sfere.

Se la storia cinese ha insegnato qualcosa (chi digita sui social e altri media parlando di Cina ne sa realmente qualcosa?), è che le persone normali e comuni hanno la capacità di lottare in modo sorprendente. Dalla ribellione antimperialista dei Boxer all’ondata di scioperi di massa del 1927, dalla guerra antigiapponese alla rivoluzione del 1949, fino alle proteste di piazza Tiananmen del 1989, il popolo cinese si è dimostrato capace di sollevarsi e reagire contro difficoltà apparentemente insormontabili.

C’è un articolo sul Sole 24 ore di ieri (L’asse tra Russia e Cina schiaccia l’Occidente) che ci racconta il ruolo economico della Cina e perché Washington la vede come una “minaccia” (e vuole cancellarla dalla carta geografica). Comincia così: “Pechino, per risollevare le sue fortune economiche, sta inondando il mondo di prodotti a basso costo”. Non sono prodotti a basso costo, sono soprattutto prodotti di alta tecnologia a prezzi competitivi. I nostri eroi del libero mercato in regime di monopolio non hanno alcuna visione storica di ciò che sta avvenendo realmente e sul perché.

La retorica della sovraccapacità cinese, anzitutto nelle nuove tecnologie e nell’industria dei veicoli a nuova energia (NEV) non è altro che una copia del principio “America First”. Il rapido sviluppo dell’industria verde cinese mette a dura prova la forza e lo status degli Stati Uniti, e la competitività della Cina viene tradotta in una “minaccia alla sicurezza” per il mondo libero, vale a dire gli Stati Uniti, che si vedono sfuggire la loro posizione di monopolio di lunga data nella catena industriale globale.

Un dato che non c’è nell’articolo citato: secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, la domanda globale di veicoli a nuova energia nel 2030 raggiungerà i 45 milioni di unità, ovvero 4,5 volte quella del 2022, e allo stesso tempo, la domanda globale di nuovi impianti fotovoltaici raggiungerà gli 820 gigawatt, ovvero circa 4 volte quella del 2022.

Lo sviluppo della capacità produttiva verde è appena iniziato ed è un mercato ben lungi dalla saturazione, quindi da dove viene la “sovracapacità” cinese? È tipico della mentalità statunitense, quella dei cowboy, reagire con la pistola, considerando la nuova industria energetica cinese con una mentalità di gioco a somma zero e attribuendo i problemi reali alle cause sbagliate.

Per esempio, qualcuno s’è chiesto perché la Tesla Shanghai Gigafactory è il maggiore centro di produzione di Tesla al mondo e con le migliori prestazioni? Aiuti di Stato? Perché che cos’è l’Inflation Reduction Act? Scrive il sito della Casa Bianca che il “Presidente ha

ridefinito la leadership americana nell’affrontare la minaccia esistenziale della crisi climatica [leggi: la minaccia cinese] e ha avviato una nuova era di innovazione e ingegnosità americane per ridurre i costi al consumo e far avanzare l’economia globale dell’energia pulita”. Far avanzare l’economia globale? Ci prendono in giro e ridono di noi.

Dal 25 aprile al 4 maggio si tiene la 18esima edizione del Beijing International Automotive Exhibition (Auto China 2024). Sono presenti tutti i grandi marchi internazionali, compresi quelli che un tempo erano italiani, dunque compresa la Lamborghini (gruppo Volkswagen).

Ieri era presente Elon Musk, a colloquio col primo ministro Li Qiang. Tesla ha venduto circa 600.000 veicoli elettrici nel 2023 in Cina, cedendo la sua posizione di principale venditore di veicoli elettrici in Cina alla cinese BYD. Il tasso di penetrazione dei NEV passeggeri ha superato il 50% nella prima metà di aprile, superando i tradizionali veicoli a benzina. Tutto ciò avviene mentre in Italia chi possiede un’auto elettrica non sa mai quando è in strada se troverà una colonnina attiva per la ricarica.

Con una carenza di capacità produttiva di alta qualità, il mondo ha bisogno di maggiore cooperazione. Gli Stati Uniti hanno di mira solo la loro leadership, non la coordinazione degli interessi. L’hanno sempre fatto per l’energia, per l’elettronica, per tutto ciò che riguarda le nuove tecnologie. Solo che ora si trovano a dover affrontare un concorrente di grande caratura mondiale, e utilizzano deliberatamente la “minaccia cinese” per spiegare tutto, cercando di risolvere i problemi contenendo la Cina.

Ed è esattamente ciò che fanno con la Russia, dividendola dall’Europa. La quale Europa pensa alle elezioni, e in Italia a quale nome mettere nei simboli delle liste elettorali.

domenica 28 aprile 2024

Prepariamoci

 

Che cosa dicevano gli aristocratici dell’ancien régime (e i loro manutengoli)? Che quello vigente era il miglior sistema sociale possibile. La borghesia e il proletariato erano classi necessarie ma pericolose. Ed infatti la borghesia, non appena le fu concessa l’occasione, divenne sommamente rivoluzionaria. Non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”, per dirla con Marx.

Instaurò un regime di terrore e mandò al patibolo migliaia di aristocratici e anche di plebei. Joseph Fouché, il futuro ministro di polizia di Bonaparte, venne soprannominato il “mitragliatore di Lione”. In sostituzione della ghigliottina, troppo lenta, usava il cannone a mo’ di mitraglia. Perfino quel terrorista di Robespierre lo accusò delle misure eccessivamente dure. Le rivoluzioni non sono un pranzo di gala, disse qualcuno.

È lo stesso refrain dei liberali di oggi: quello vigente è il miglior sistema sociale possibile. Vige la libertà e la democrazia, che altro volete? Ogni tanto fa capolino qualche guerra, ma esse sono combattute proprio in nome e per conto della “democrazia”. Da esportazione, come le vecchie sigarette.

Il determinismo teorico di questi soggetti equipara fascismo, nazismo, comunismo, stalinismo, bonapartismo e quant’altro alla voce “totalitarismo”. Tra l’altro trascurando che ogni rapporto sociale è stato trasformato in un puro rapporto di denaro e non vi è nulla di più totalitario del potere del denaro, cioè del capitale.

Non dobbiamo dimenticare che la verità è sempre concreta e che la storia ci parla di tutt’altro di una semplicistica equiparazione (che lasciamo volentieri agli sciocchi) di “totalitarismi”. Chiunque operi nell’ambito della teoria utilizzando categorie astratte è condannato a una cieca capitolazione di fronte ai fatti.

Che cosa sia stato il comunismo in versione novecentesca, ossia in versione stalinista-maoista, lo sappiamo. Ed è comprensibile che i “liberali” battano su quel tasto per fare di ogni erba un fascio: non gli resta altro per la loro propaganda. Dunque non vale la pena addentrarsi in distinzioni e precisazioni.

Quanto al fascismo originario, è un movimento di origine plebea, e viene utilizzato dalla borghesia italiana, profondamente opportunista, per regolare i conti con i partiti di sinistra, con l’insorgenza operaia e contadina (ricordiamoci che nel primo governo Mussolini c’erano dentro tutti i partiti “democratici”). In Germania, le motivazioni su cui si basa l’ascesa del nazismo saranno sostanzialmente diverse e prenderanno vigore con la crisi economica e parlamentare degli anni Trenta.

Quanto al capitalismo tedesco, era nato con un certo ritardo e si è trovato privato dei privilegi derivanti dalla primogenitura (stessa cosa che accadde all’Italia). Si trovò di fronte alla necessità, in un momento in cui il mondo intero era già diviso, di conquistare i mercati esteri e di procedere ad una nuova divisione delle colonie, già spartite. Al capitalismo tedesco non era dato di nuotare nella direzione della corrente, di abbandonarsi al libero gioco delle forze. Solo la Gran Bretagna ha potuto permettersi questo lusso, e solo per un periodo storico limitato.

L’intera vicenda storica della Germania si sviluppa da queste premesse. Il capitalismo tedesco non poteva permettersi il “senso della misura” che caratterizza il capitalismo britannico e, in parte, quello francese, saldamente radicati e dotati di riserve sotto forma di ricchi possedimenti coloniali. Per la Germania sarà un concatenarsi di vicende (vale la pena ricordare che fu grazie alla socialdemocrazia che il governo Brüning ottenne il sostegno del Parlamento per governare attraverso leggi di emergenza) in cui il nazismo trova una sua chiara ragion d’essere. E ciò che vale per la Germania vale per l’Italia, la Russia, eccetera.

Equiparare Mussolini, Hitler, Franco, Salazar, Chang Kai-shek, Masaryk, Brüning, Dollfuss, Pilsudski, Primo de Rivera, il re serbo Alessandro, Severing, MacDonald, ecc., è sbagliato e fuorviante. Gli interessi della classe dominante non si sono mai adattati alla democrazia “pura”, che non esiste, talvolta aggiungendovi qualcosa e talvolta sostituendola con un regime di aperta repressione. Questi regimi si esplicano ognuno a modo loro, necessariamente in tutti i tipi di situazioni transitorie e intermedie.

Allo stesso modo è fuorviante equiparante i fascistoidi di oggi al fascismo mussoliniano, prescindendo da certe figure caricaturali, slogan e atteggiamenti nostalgici (*). Quella che è stata definita come democratura ha motivazioni e forme sostanziali molto diverse. Agisce in una situazione sociale e politica, interna e internazionale, molto articolata e contraddittoria, come dimostra in modo evidente il regime ungherese (e ciò dimostra sufficientemente l’importanza di distinguere la forma di potere orbaniana da quella fascista classica).

Dunque giudichiamo il fascismo quale è oggi, senza l’orbace e l’olio di ricino. Per esempio, il mercato del lavoro: buono, giusto e duro, quello in cui il lavoro si vende e si compra come le patate. L’uberizzazione della società che ha smantellato le tutele, messo la propria firma sullo Jobs act, che ha tagliato la sanità, dato solidi alle scuole private, ingrassato le banche e migliaia di gestori privati di acqua, luce, gas, eccetera. 

Il governo Meloni (la cui vera base politica è l’ondivaga piccola borghesia), così come i governi che l’hanno preceduto e quelli che lo seguiranno, è lo strumento dell’ordine europeo e atlantico. Agisce in una situazione sociale e politica interna di crisi e contrapposizione, latente ma non assente, laddove il parlamento ha rinnegato sé stesso, un parlamento del quale i governi sempre più volentieri fanno a meno. Man mano che gli esecutivi diventano indipendente dalla società, aumenta la disaffezione e l’astensione dal voto (i media tendono a dare l’interpretazione opposta!).

La reiterata riproposizione di “riforma costituzionale”, il coniglio dal cilindro, ha il solo compito di adeguare le istituzioni statali alle esigenze e alle comodità di esecutivi sempre più autocratici. Il grande capitale cerca vie legali che gli consentano di imporre ogni volta alla nazione il miglior arbitro con il consenso forzato di un parlamento delegittimato ed esautorato. Le forme essenziali della democrazia restano, ma sostanzialmente e progressivamente rese inerti.

Tutto ciò avviene nel quadro della contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive dell’umanità da un lato, il prevalere dei grandi monopoli e degli interessi degli Stati nazionali dall’altro. Per l’Occidente è finita un’epoca di sviluppo pacifico e ordinato (a spese degli altri), dunque volenti o nolenti dovremo adattarci alle esigenze di Washington, che sono mutate e ci preparano alla guerra.

(*) Ho apprezzato Massimo Magliaro (personaggio a me altrimenti inviso “a pelle”), che ha avuto il coraggio di dire di essere fascista. Il coraggio di un momento, per poi tornare ad essere pavido come tutti quelli che per opportunità mascherano ciò che sono e pensano. Nel dichiararsi fascisti non s’incorre in alcun reato e spesso, secondo sentimento diffuso, nemmeno in una qualsiasi condanna morale.