mercoledì 3 dicembre 2025

Le questioni decisive

 

Quando ci chiedono di votare per le elezioni politiche o per le europee, ce lo chiedono per tener bassi i nostri salari e le pensioni, per tagliare la spesa sociale.

Lo ha detto l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, che attualmente è un consulente della UE dopo essere stato per anni presidente della Banca centrale europea e, prima ancora, governatore della Banca d’Italia. È sufficiente ascoltare l’audizione di Draghi in merito al Rapporto sul futuro della competitività europea tenuta nel marzo scorso:

«Siamo sicuri che vogliamo mantenere questo surplus commerciale con il resto del mondo? O piuttosto non è meglio sviluppare la domanda interna, non trascurare le nostre infrastrutture, spendere per la ricerca, per l’innovazione, per il clima?»

E ancora: «[...] noi abbiamo contratto i bilanci pubblici, abbiamo sacrificato la spesa pubblica, abbiamo compresso i nostri salari, anche perché in quegli anni noi pensavamo che eravamo in competizione con gli altri paesi europei quindi tenevamo i salari più bassi come uno strumento di concorrenza. Nel frattempo, abbiamo continuato a diventare sempre più poveri rispetto agli Stati Uniti che non avevano questo surplus (commerciale) quindi forse non era la strada giusta.»

Più sibillino ma non meno verace: «Quando dico concorrenza sleale non parlo di una concorrenza che si basa sui dazi, sulle tariffe, sui sussidi, ma anche su una artificiosa compressione della domanda interna con dei salari deliberatamente bassi

Dunque le scelte economiche della UE hanno mutato radicalmente il ruolo e la prospettiva dell’Europa intera, ma in particolare di alcuni Paesi. Hanno inciso sui redditi e sui consumi, creato disparità e precarietà, favorito l’immigrazione di manodopera e la delocalizzazione industriale, avuto effetti sulla demografia e tanto altro. Si dirà che ciò è ampiamente risaputo, e però sentirlo confermare da un euroburocrate del calibro di Draghi fa comunque un certo effetto.

Dov’è il dibattito politico e democratico, le riflessioni sul comportamento dei protagonisti stessi di quella stagione? Per quanto ci riguarda direttamente, non è stato solo Berlusconi – e ora i fascisti – ad aver mutato il profilo esistenziale del Paese e il suo sistema politico, qui c’entra in pieno il modello europeista/liberista fatto proprio dall’accozzaglia di ex piciisti pentiti e democristiani recidivi.

E ciò che è avvenuto sul fronte economico e sociale, sta avvenendo per quanto riguarda la politica estera, laddove la UE dimostra di essere un consorzio di Stati accomunati dall’ossessione per la Russia. Anche in questo i popoli dell’intera Europa, mai stufi di subire, hanno deposto il proprio onore e la propria dignità ai piedi di quest’ordine.

Nelle cancellerie della coalizione occidentale ha finito per prevalere la volontà, mai del tutto sopita, di regolare una volta per tutte i conti rimasti in sospeso dalla caduta del Muro: fin dal 2014 trasformare l’Ucraina in un avamposto in cui dissanguare l’eterno rivale che s’immaginavano collassasse economicamente con le sanzioni. Una storia può ricordarcene un’altra.

I persuasori, quelli più abili con i loro dosaggi sottili, sono diventati ginnasti di ciò che è considerato giusto dire e pensare. Sono l’emblema dell’indicibile declino dell’Occidente, così orgoglioso della sua civiltà, amano spogliarsi di ogni pudore e mostrare la loro merce grezza: la guerra buona contro quella cattiva, magari anche preventiva, i morti giusti e quelli che fanno solo statistica. Ma che balla, questi ladri sull’uscio che aspettano che tu esca.

La guerra non è semplicemente un’eventualità, ma è insita nella contesa capitalistica tra gli Stati, le grandi potenze se la giocano per il primato mondiale. Di fronte all’ulteriore rischio che questa guerra si trasformi in uno scontro fuori controllo, il problema della pace e del disarmo diventa la questione decisiva.

E però l’idea stessa di pace deve essere ridefinita. La pace non può essere ciò che le potenze imperiali e sub-imperiali ne fanno oggi: un mezzo di guerra, una pace che interrompe la guerra solo per armarsi e rilanciarla. La parola d’ordine deve essere “guerra alla guerra”, ma ciò non basta. La pace richiede la pacificazione della realtà. E la realtà ha bisogno di essere reinventata, e c’è un solo modo per farlo.

martedì 2 dicembre 2025

"Un serio conflitto moderno"

Secondo i nuovi dati pubblicati ieri dallo Stockholm International Peace Research Institute, i ricavi derivanti dalla vendita di armi e servizi militari da parte delle 100 maggiori aziende produttrici di armi sono aumentati del 5,9% nel 2024, raggiungendo la cifra record di 679 miliardi di dollari.

Le prime tre società sono neanche a dirlo statunitensi, e ben cinque tra le prime sei società, l’altra, la quarta in classifica, è inglese. Nelle prime venti, otto sono statunitensi, ben cinque sono cinesi e una russa. La Leonardo, gruppo italiano, si piazza a un più che onorevole 12° posto, seguita dal colosso Airbus (Airbus Defence & Space), una società transeuropea che nel settore degli armamenti produce velivoli militari, missili, vettori spaziali e sistemi di difesa avanzati.

La Rheinmetall tedesca è “solo” al 20° posto, il cui fatturato derivante da armi e equipaggiamenti è aumentato del 47% nel 2024, e ciò dice qualcosa sulle nuove linee guida dell’economia tedesca.

Cito segnatamente l’esempio della Rheinmetall, perché chiarisce bene gli interessi industriale e commerciali connessi con la guerra in Ucraina. Infatti, il forte incremento del fatturato della Rheinmetall, è quasi interamente dovuto alla crescente domanda di veicoli blindati e munizioni legata alla guerra in Ucraina.

Sono quattro le aziende tedesche produttrici di armi che figurano tra le prime 100: oltre a Rheinmetall, si tratta di Thyssen-Krupp, Hensoldt e Diehl. Quest’ultima è riuscita ad aumentare il proprio business nel settore degli armamenti del 53%. Mentre nel fango ghiacciato delle trincee ucraine si spara e si muore, gli azionisti delle società di armamenti, al calduccio tra lenzuola di seta, sognano dividendi da favola.

I ricavi delle 26 aziende dell’Europa occidentale presenti nella lista sono aumentati complessivamente del 13%, raggiungendo circa 151 miliardi di dollari (circa 130 miliardi di euro). Ma anche i satrapi dell’industria statale russa non se la passano male. Nonostante le sanzioni, i ricavi delle due società russe quotate, Rostec (conglomerato statale della difesa con più di 400 aziende: aerei, carri armati, veicoli di fanteria, obici, sistemi di guerra elettronica, droni e molto altro) e OSK/USC, sono aumentati del 23%.

Il boss di Rostec, Sergej Viktorovich Čemezov, ex uffciale del KGB, anche lui come Putin di stanza nella Germania Est (abitavano nello stesso condominio di Dresda), dichiara in un’intervista tutta da leggere: “Un serio conflitto moderno richiede ancora molte armi”. Tra una sparata e l’altra, Sergej e la sua famiglia si sono fatti un gruzzolo offshore, incluso lo yacht “Valerie”, 85,1 metri, 6 ponti, piscina sul ponte sole, zona spa con hammam (specie di sauna), eliporto, 22 membri di equipaggio. La barchetta era intestata alla figlia Anastasia Ignatova (*).

L’Ucraina è il terreno di battaglia ideale per sperimentare le nuove armi, lì la carne umana non ha prezzo, nel senso che è gratis.

(*) Seguendo le vicende pregresse (ITERA) e successive, ossia della società ARETI (è ITERA scritto al contrario) Internationl Group, con sede in Svizzera, fondata da Igor Makarov nel 2015 (investimenti in vari settori nell’Europa occidentale, negli Stati Uniti, in Canada e nell’Asia centrale), si possono apprendere notizie molto interessanti. Anche la seconda moglie del citato Čemezov, Ekaterina Iganatova, aveva una forte partecipazione nell’ex società Itera Oil and Gas Company, fondata nel 1992 con sede a Jacksonville, in Florida. Nell’ultima dichiarazione patrimoniale pubblica di Sergej Chemezov del 2019, era incluso il reddito annuo di Ekaterina di 24 milioni di dollari (un’inezia). Seguendo in rete il nome di Ekaterina Ignatova Čemezov, si arriva a una galassia di legami societari. Stessa cosa per i figli di Sergej.

La proprietà del Valerie viene attribuita al miliardario e pregiudicato ucraino Rinat Akhmetov, il quale in realtà è proprietario di un altro yacht, Luminance. Inaftti, il Valerie è sotto sequestro a Barcellona causa sanzioni. Del resto, accedere al database del Registro dei proprietari dei 1.656 superyacht, che sono 747 (tra l’altro proprietari di 600 jet privati), costa 145 euro. Non me la sento, ho altri impegni di spesa per questo mese.

lunedì 1 dicembre 2025

L'aria che tira

 

«Attacco preventivo? Sarebbe un’azione difensiva!». Un uomo virile. Non si lascia mettere i piedi in testa. Dice quello che pensa, difende i nostri valori e la sua voce va controcorrente. Questi stronzi rossi/russi usano il passato per umiliare la nostra gente, per farci tacere. Questi borghesi di sinistra stanno calpestando la nostra patria, privi di forza e orgoglio. Probabilmente froci, trans, arcobaleni: è la loro tendenza. Muscoli e pelle flaccidi, usano parole ridicole, il cui costo è sostenuto da uomini come l’ammiraglio.

In giro c’è quest’aria fetida qui, di gente che non merita nemmeno di essere insultata. Il tizio è solo uno di quei fanatici della guerra che hanno seguito dei corsi alla birreria di Monaco, perciò serve le sue stronzate alla spina. Una carriera come esperto di birra. Il guaio è che gli paghiamo lo stipendio e poi la pensione.

Al povero Severgnini, che indossa un caschetto bianco sopra una faccia al latte di soia, sfugge e sfuggirà per sempre che il XX secolo è cambiato con il fascismo/nazismo. È cambiato nel campo di Ebensee, direbbe mio nonno. Poi con l’Armata Rossa, altrimenti il giornalista specializzato in storie romantiche scriverebbe su fogli tipo La difesa della razza. Poi è cambiato ancora con la lavatrice e altre cosucce, tipo le lotte agrarie e operaie.

Il Grande Feticcio

 

Nell’inserto culturale del Sole 24 ore di ieri, compare una recensione, a firma di Carola Barbero, del libro di Carlo Paolucci: Nati cyborg.

Si parla di intelligenza artificiale, si citano due classici esempi: quello che ha protagonista lo scacchista Garri Kasparov e quello di Lee Sedol, entrambi sconfitti nel loro gioco da una macchina. Non entro nel merito di questi frusti esempi.

Mi ha colpito in particolare una frase della recensione, che viene posta come centrale a riguardo del libro recensito e più in generale dello statuto dell’essere umano. Questi, si dice, “non è un soggetto autosufficiente a cui ora arriva un concorrente [l’AI], ma un essere intrinsecamente ibrido, che da sempre delega a ciò che umano non è – utensili, lingaggio, tecnologie – funzioni decisive della propria attività cognitiva”.

L’errore radicale di questo tipo d’approccio sta proprio nel fatto di considerare il linguaggio (umano!) alla stregua di qualsiasi altro strumento tecnologico, e anzi di considerarlo non propriamente umano, ossia come qualcosa di artificiale, di “esterno” all’umano. Ciò significa, innanzitutto, non comprendere che il linguaggio è tipicamente ed esclusivamente umano. Tutti gli altri animali sono capaci di un linguaggio genetico, ma solo gli esseri umani di un linguaggio extragenetico. Dunque il linguaggio come un prodotto storico-sociale e non semplicemente evolutivo. La differenza è sostanziale e assoluta.

Il linguaggio è la coscienza dell’uomo; non è, né sarà mai, la coscienza di qualsiasi macchina.

“Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso” (Marx- Engels, L’ideologia tedesca).

Distinguere il linguaggio umano dalla coscienza, farne un semplice strumento al pari di altre tecnologie, è assurdo. È come definire l’uomo “a toolmaking animal”, un animale che fabbrica strumenti. Dove va a finire la sua comprensione della natura e il dominio di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale?

Quando si sostiene che anche noi come ChatGPT ci limitiamo “al già detto ... attingendo senza sosta a un’enciclopedia di enunciati preesistenti”, significa non aver capito nulla, ma proprio nulla, di ciò che distingue l’essere umano da qualsiasi altro animale o strumento (e in definitiva non aver capito nemmeno che cos’è ChatGPT). Qualsiasi macchina non ha nemmeno la coscienza di una mucca, è semplicemente capacità scientifica oggettivata, nient’altro.

Attribuire alla IA “forme inedite di astuzia e creatività” è semplicemente una alienazione feticistica della tecnologia. Siamo passati, non da oggi, dall’alienazione extraterrena a quella terrena. Quella odierna, che riguarda l’IA, è solo un ulteriore capitolo di tale processo. Assume un carattere mistico, domina come una potenza estranea, diventa la sintesi concreta di tutte le alienazioni.

domenica 30 novembre 2025

Viaggio filologico nella notte

Ho digitato una frase tratta dal romanzo di Céline: “quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia”. Che c’entra Garibaldi? Dialogo con Luigi Capeto? Buio, mistero.

Non c’è l’ho con la tecnologia, nemmeno con sta pseudo intelligenza artificiale. È che spesso, troppo spesso, si tratta di un guazzabuglio. Il passo di Céline, quasi per intero, recita così:

«Ve lo dico io, gentucola, coglioni della vita, bastonati, derubati, sudati da sempre, vi avverto, quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia... È il segnale... È infallibile. È con l’amore che comincia.»

È molto attuale il realismo di Céline .

Il titolo del libro di Céline, Viaggio al termine della notte, è preso da una strofa di una canzone: «Notre vie est un voyage / Dans l’Hiver et dans la Nuit /Nous cherchons notre passage / Dans le Ciel où rien ne luit» (La nostra vita è un viaggio / in Inverno e nella Notte / noi cerchiamo la strada / in un Cielo senza luce»).

Leggo da Wikipedia che Cèline pone la frase in esergo al romanzo, cosa esatta, “attribuendola all’ufficiale svizzero a capo delle guardie di Luigi XVI, Thomas Legler, al tempo della rivoluzione francese; in realtà, Legler era nato nel 1782 e cantò quella canzone, datata erroneamente da Céline al 1793, mentre era al servizio di Napoleone Bonaparte come guardia svizzera, durante la battaglia della Beresina del 1812 (Canto della Beresina)”.

Quei coglioni che lavoravano per Gallimard (editore che rileverà i diritti dell’opera negli anni Cinquanta), com’era già successo con il primo volume della Recherche, persero un’altra occasione: non s’accorsero che cosa avevano tra le mani e dunque il romanzo di Céline venne prima pubblicato da Robert Denoël (Denoël et Steele) nell’ottobre 1932. Tra parentesi e salvo la memoria non m’inganni, Cèline cita un solo scrittore nel suo libro: Proust (*).

Nell’edizione italiana, quella di Corbaccio del 1933, Thomas Legler non è citato. La strofa è attribuita alla “Canzone delle Guardie Svizzere, 1793”. Anche nell’edizione originale francese è stampato questo riferimento: “Chanson des Gardes suisses, 1793”. Dunque: da dove nasce la storia di Thomas Legler? Non certo da Céline.

In una notte di fine novembre del 2025, scopro, con sconcerto e disappunto, che nella mia biblioteca domestica non c’è una copia recente del romanzo di Céline, ma solo la prima edizione Corbaccio datata “31 maggio 1933”. Siccome ho la certezza di non aver letto il romanzo su tale edizione, mi chiedo infruttuosamente: a chi ho prestata la copia più recente del libro? Ah, dovrei chiederlo al dottor Alois A..

Leggo su Wikipedia che quest’opera di Céline è “un cupo, nichilistico romanzo in cui si mescolano misantropia e cinismo”. Dunque, la descrizione del generale sadico e dell’ipocrita piccolo borghese, suo complice, sarebbero “cinismo”? Da non credere: quando non si vuol capire un cazzo e si è prigionieri di un pregiudizio. Quella di Céline è una critica molto radicale (sennò che critica sarebbe?) di ogni eroismo militare, di ogni decoro piccolo-borghese (compreso quello proustiano). Innovativo, tuttavia mantiene un legame molto forte con la tradizione del romanzo francese del XIX secolo. In una lettera a Eugène Dabit, Céline scrive: “Non ho bisogno, vecchio mio, di lucidare il mio Destino per renderlo letterario, la vita mi serve oltre ogni aspettativa”.

Fortunato chi deve ancora leggere le due maggiori opere di Céline (Viaggio e Morte a credito).

(*) Nel 1922, Gallimard ha pubblicato una nuova edizione dal titolo Guerre, edizione curata da P. Fouché. Non l’ho letto. I critici definiscono l’edizione frettolosa (senza tener conto delle varianti, senza stabilire un apparato critico, e senza nemmeno utilizzare la trascrizione di Jean-Pierre Thibaudat). Guerre (titolo redazionale) è un romanzo inedito, scritto tra la pubblicazione di Voyage au bout de la nuit e quella di Mort à crédit (1936), più precisamente nel 1934? La questione del titolo, quella della datazione e quella dello statuto stesso del testo riguarda un’opera indipendente o piuttosto una bozza del Voyage? Sarebbe necessario analizzare la carta utilizzata, l’inchiostro impiegato da Céline, eccetera. Tutta roba seria. Una cosa mi pare certa, l’edizione di Guerre è il solito sfruttamento commerciale di uno dei più grandi scrittori del XX secolo. Nel 2031, le opere pubblicate di Céline entreranno finalmente nel pubblico dominio. Céline ha scritto anche altro di molto buono (facilmente reperibile), e anche Bagatelle, una cosa indigeribile, non perché antisemita, ma perché letterariamente è una ciofeca.

Céline mi ricorda anche Gianfranco Sanguinetti, un suo pamphlet in risposta a Bollati di Saint Pierre: «Lei si vanta ben a torto di conoscermi, Bollati, allorché non è nemmeno capace di riconoscere Céline da Stendhal! [...] Lei è un imbecille, Bollati di Saint Pierre, e la sua cultura ordinata e progressista non conosce Céline, ma in compenso conosce così bene Stendhal da non distinguerlo dal “reazionario” autore di Voyage au bout de la nuit. Come se fosse la cultura ad essere ontologicamente “reazionaria” o “progressista”, e non l’uso che se ne fa! In mano a lei non solo il mio libello, ma i Manoscritti del ‘44 diventano un’opera reazionaria, perché, se non ha capito il mio, sarà impossibile che comprenda quelli». Un’altra epoca, altri personaggi. Ora, prevalentemente, solo “coglioni della vita”.