mercoledì 5 novembre 2025

In morte di un criminale di Stato

 

La frase latina De mortuis nil nisi bene guida il tono e lo stile delle notizie, e vale anche per quella riguardante un criminale di guerra che non è mai stato condannato: Dick Cheney. È morto lunedì ed è considerato il vicepresidente più potente della storia degli Stati Uniti e, soprattutto, la mente dietro la guerra contro l’Iraq del 2003, giustificata da menzogne che hanno causato centinaia di migliaia di vittime.

Quando le azioni di un politico non possono essere difese apertamente perché un residuo di etica lo impedirebbe, ecco che trattandosi di un vicepresidente degli Usa si ricorre alla falsificazione deliberata. Come fa il quotidiano più sionista d’Europa, che ritrae Cheney quale «principale artefice della “guerra al terrore”, che ha contribuito a guidare il Paese nella sfortunata guerra in Iraq basandosi su presupposti errati».

Non sulla base di deliberate falsificazioni e menzogne, bensì una guerra “sfortunata” basata su “presupposti errati”. Come quella di Hitler, del resto. O come quella in Vietnam e così come tante altre guerre. Il Corriere se la cava dicendo che «spetterà agli storici il giudizio sulla sua parabola politica», come se il ruolo avuto da Cheney fosse stato quello di un sottosegretario al turismo.

Le devastazioni, la sofferenza e la morte causate dalla “Guerra al Terrore”, da lui in gran parte orchestrata, non vengono ovviamente mai menzionate da nessuno dei giornali, nemmeno di sfuggita (secondo uno studio della Brown University, tra i 4,5 e i 4,7 milioni di persone sono morte nelle guerre successive all’11 settembre). Ben più importante è il ruolo di Cheney come statista anziano, lungimirante e critico nei confronti del presidente degli Stati Uniti in carica. Insomma, alla fine è uno che ha combattuto contro Donald Trump.

La meravigliosa catastrofe continua, ancora e ancora, inesorabilmente, ogni giorno davanti a un pubblico esaurito che, spesso indifferente, sbadiglia e sonnecchia, accasciato in una morbida indifferenza e intrappolato negli schermi, imbrogliato come si farebbe con dei bambini. Ma non per questo un pubblico innocente.

martedì 4 novembre 2025

In modalità sopravvivenza


In un piccolo bar affollato, poco illuminato e invaso dal fumo. In fondo alla sala, su uno schermo scorrevano silenziose delle immagini, quelle della cronaca di un omicidio avvenuto la notte precedente. Questo il mio ricordo di quel giorno di novembre 1975, mentre bevevo il mio terzo o quarto succo di frutta alla pesca. Da allora e per decenni non ho più sopportato quel gusto. Autunno, inverno, primavera, estate, sera e mattina, mezzanotte, mezzogiorno, stavo per entrare in un lockdown di anni, infinito. Storia inesorabile e inaudita del quasi nulla, la mia.

È passato il cinquantenario della morte di Pasolini, occasione per molti di retorica di consacrazione e, per altri, di perdurante disprezzo. Pasolini fu personaggio assai controverso tra i più noti di allora, di rottura e di scandalo, inviso non solo ai fascisti, che non lo assassinarono di propria mano (la malavita romana, su mandato specifico di chi, non lo sapremo mai), ma anche a quell’Italia perbenista, bigotta e tanto pruriginosa, nell’inconfessabile privato, ossia quella palude che frequentava le sacrestie e le sezioni di partito, dunque trasversale alle classi sociali e ai colori politici.

Come poeta non lo so giudicare, come scrittore lessi un suo ottimo romanzo, come regista mi parve mediocre, come sociologo e polemista penso diede il suo meglio. Seppe per esempio individuare già allora le ragioni profonde ed essenziali della contestazione studentesca, o meglio, di una parte di essa, quella piccolo borghese, che rivendicava una società e una scuola più aperte, con maggiori diritti individuali e sociali e qualche altra mancia.

In un celebre articolo seppe dire ciò che tutti sapevano e che molti non avevano il coraggio di dire pubblicamente, e cioè che le bombe e le stragi erano sì fasciste, ma i mandanti diretti e quelli per così dire morali erano altri. Disse di non avere le prove dei suoi sospetti e delle sue accuse, ma del resto penso non vi sia interesse, specie in un Paese come il nostro, scrivere una storia di quegli anni da una prospettiva di diritto penale.

Quanto al suo atteggiamento, non gli piaceva il gioco di gruppo, non sopportava la monotonia delle élite, e questo è sicuramente positivo, ma la sua critica del sistema in generale penso fosse d’ordine sociologico e morale, un contrappunto incisivo sulle trasformazioni sociali del Paese, ma tutto sommato si trattò di critica laterale. Del resto, anche lui era nato e vissuto sul suolo di questa penisola di grovigli bizantini e cattolici.

Mi chiedo che cosa avrebbe potuto dirci e raccontarci di questi nostri anni che vedono di nuovo la macchina per macinare i popoli impazzita. Siamo solo in modalità sopravvivenza, le persone non si rendono conto che la fine dei mondi, la distruzione di culture uniche, le annienterà e non si riprenderanno mai più. 

lunedì 3 novembre 2025

Come scaldarsi i piedi in Ucraina

Quando ho voglia di notizie fresche dall’Ucraina so dove cercarle: nel parco pubblico, il pomeriggio di un determinato giorno della settimana. È lì che trovo riunite in conclave le mie gole profonde (assai rumorose). E se è vero che di Putin ne dicono di ogni, è altrettanto vero che ci si diverte davvero quando è il turno di Zelenskij.

Quella che racconto qui di seguito può sembrare una barzelletta, ma ho verificato che invece corrisponde alla realtà dei fatti, anche se poi le mie amiche l’hanno colorita di risvolti comicissimi che qui ometto perché questo è un blog serissimo.

Con i concentrati attacchi russi alle centrali elettriche e di riscaldamento, sarà difficile per la popolazione ucraina trascorrere l’inverno al caldo. Ma Zelenskij non sarebbe la figura tragicomica diventata famosa se non avesse trovato una soluzione creativa: vuole offrire ai cittadini ucraini dei viaggi in treno gratuiti per l’inverno sulle tratte che preferiscono.

Anche sui viaggi lunghi come quello da Kiev a Leopoli. In altre parole, se hanno freddo, possono salire in una carrozza del treno che hanno scelto e svegliarsi la mattina dopo con i piedi caldi sul marciapiede della storica stazione ferroviaria di Leopoli. Il sistema di riscaldamento è situato sulla locomotiva, e ciò rende questo sistema decentralizzato praticamente impossibile da disattivare.

L’offerta UZ-3000, “per tutti i cittadini ucraini per l’inverno”, fa parte del programma “Sostegno invernale” di Zelenskij, ed è valida per un totale di 3.000 chilometri, equivalenti all’incirca a tre viaggi di andata e ritorno tra Kiev e Leopoli. Chi sceglie tratte più brevi può viaggiare più frequentemente e conseguentemente riscaldarsi i piedi per più giorni.

Tuttavia, poiché i treni subiscono spesso ritardi di ore a causa degli attacchi russi alla rete elettrica ferroviaria e agli snodi chiave (“I treni sono particolarmente vulnerabili alla nuova tecnologia [droni Shahed] perché sono relativamente lenti e seguono percorsi prevedibili”), il tempo che i passeggeri trascorrono in questo caldo rifugio ferroviario è corrispondentemente più lungo. E quando le carrozze sono sovraffollate, le persone semplicemente si tengono al caldo a vicenda.

Stanno anche progettando di ripristinare un programma di aiuti individuali, che lo scorso inverno ha erogato l’equivalente di 20 euro (1.000 grivna) a persona. La guerra deve continuare e la gente in qualche modo deve essere tenuta contenta.

Infine, siccome il programma UZ-3000 “ha suscitato accese discussioni nella società” (evidentemente si sono resi conto del ridicolo), il governo ucraino “ha pubblicato dei chiarimenti in merito al programma di sostegno 3000 chilometri, annunciato il giorno prima dal presidente Volodymyr Zelenskij”. Il risultato dei chiarimenti è stato che il programma è rivolto ai cittadini “che soffrono maggiormente a causa dei bombardamenti e delle interruzioni di corrente” (*). El tacòn pèzo del buso, adagio popolare tradotto dall’ucraino.

(*) А ось у періоди, коли на залізничні перевезення підвищений попит (той же грудень) – фокус програми буде на тому, щоб допомогти жителям прифронтових громад, які найбільше потерпають від обстрілів та знеструмлень: поїздки "за кілометри" будуть доступними саме для поїздів звідти", — повідомили в УЗ.

Lettura d'evasione

 

In un paesino di 800 anime, circa 400 di queste vivono come le più povere tra le persone più povere di quel luogo, con solo il 2% per cento della ricchezza complessiva; solo 80 paesani possiedono tre quarti di tutti i beni, e tra questi solo 8 dispongono del 47,4 di ogni ricchezza. Di che tipo di società potremmo parlare? È questa la rappresentazione in termini percentuali della situazione economica degli abitanti del mondo.

Per venire più direttamente alla nostra situazione relativa alla distribuzione della ricchezza, il 10% della popolazione italiana più ricca detiene circa il 60% della ricchezza nazionale, mentre la metà più povera possiede solo circa il 7,4%. Altri dati evidenziano che il 5% della popolazione più abbiente possiede quasi la metà del patrimonio, e lo 0,7% possiede circa la metà delle risorse finanziarie del Paese (azioni, obbligazioni, depositi).

Sono dati noti e ripetuti ad vomitum, compreso il fatto che il 43 per cento dei contribuenti non versa un centesimo di imposte dirette. Il reddito medio dichiarato in Italia è sostanzialmente lo stesso da circa 15 anni. Più di 14 milioni di contribuenti risultano alla fame o quasi, con mediamente poco più di mille euro il mese. Altri 12 milioni circa, sopravvive con una certa fatica. Complessivamente si tratta del 64,3 per cento dei 40,4 milioni di contribuenti.

Quelli che la sfangano meglio, senza perciò essere ricchi, sono 12 milioni. Lo zoccolo duro di questo strano Paese. I benestanti sono solo 1,7 milioni, con redditi che vanno dai 75 ai 120 mila euro, il 4,2 due dei contribuenti complessivi. Solo 700 mila contribuenti si puossono definire ricchi, ma anche di tale classe reddituale bisogna distinguere poiché un reddito imponibile appena al di sopra di 120 mila euro non può di per sé dare titolo di “ricchezza”. E come raffronto non cito certo Elon Musk e i sui 500 miliardi.

Un Paese di poveri o quasi poveri e una bassa percentuale di benestanti. Poi quello 0,7 che possiede circa la metà delle risorse finanziarie del Paese (azioni, obbligazioni, depositi). Evidentemente stiamo parlando di due realtà diverse, anche più di due, più di tre o quattro realtà diverse da ciò che dicono questi numeri statistici. Una realtà sfaccettata dicono i filosofi.

È sufficiente passare in rassegna i parcheggi dei ristoranti e pizzerie di una data zona il sabato sera e chiedersi a chi appartengano tutte quelle auto dai 50-60 mila euro in su. O dare un’occhiata a porti e porticciuoli che punteggiano le coste della penisola, spesso deturpandole. E a tale proposito, c’è da chiedersi chi siano i proprietari di quelle decine di migliaia di ville e villette nei luoghi di villeggiatura (e non solo), e come sia possibile, dichiarazioni dei redditi alla mano, che vi siano censite due case ogni tre abitanti, con una media di 118 mq per abitazione, con alcune province dove ogni abitante è proprietario mediamente di più di una casa (il catasto nel 2023 ha censite 86mila abitazioni in più rispetto a dodici mesi prima).

Il 93% del parco residenziale è nelle mani di persone fisiche, ma la maggior parte degli incassi fiscali arriva, in proporzione, da immobili a destinazione speciale come alberghi, teatri, ospedali e centri sportivi. Vero è che sulla prima casa, sacra a prescindere, non si versano imposte, tuttavia vuoi vedere che c’è una sottostima delle rendite catastali degli immobili residenziali, seconde e terze case in specie?

Ma allora i veri poveri sono molti di meno di quanto dicono le statistiche? Non proprio: i poveri sono poveri e sono destinati a rimanere tali, se non a peggiorare la propria situazione. Sono i benestanti e i ricchi ad essere molto più benestanti e ricchi di quanto dichiarato al fisco, magari attraverso la cosiddetta ottimizzazione fiscale, che è cosa legale (il fatto che sia legale e che generalmente sfrutti le lacune del sistema non significa affatto che sia anche equa).

Va del resto tenuto conto di ciò che è ovvio: più un sistema fiscale è complesso, più è facile evadere le tasse o frodare il fisco. Ma è vero anche il contrario: a Dubai, per esempio, non esiste alcuna imposta sul reddito. E anche in Italia, per i milionari provenienti dall’estero (“in fuga da regimi fiscali oppressivi”) l’imposizione è fissa a prescindere dal reddito: 200mila e pace, con possibilità di estendere il regime ai familiari, versando 25.000 euro annui per ciascuno, con esenzione da IVIE (immobili esteri), IVAFE (c/c esteri) e obblighi di monitoraggio fiscale su attività estere. Grazie al PD e a chi l’ha seguito (chi ha aderito prima dell’estate 2024 può continuare a versare la flat tax da 100.000 euro).

Sarebbe anche il caso di dare un’occhiata alle aliquote e alla progressione fiscale relativa alle successioni e donazioni, ma per carità lasciamo stare che prima o dopo veniamo invischiati più meno tutti in tale faccenda (mai sentito dibbbattito su questi e simili temi nei talk show?).

Quanto alla frode e all’evasione sulle transazioni internazionali, il capitolo è vasto e, come dicono gli apologeti dell’ordine capitalistico, “complesso”: manipolazione dei prezzi di trasferimento nelle transazioni tra filiali; trasferimento del debito da una filiale all’altra per gonfiare artificialmente i risultati, o la localizzazione di beni immateriali in paradisi fiscali e la loro fatturazione ad altre filiali; ridurre al minimo le imposte in caso di rimpatrio dei fondi inserendo una nuova struttura giuridica tra le filiali produttive e la società madre; esiste un insieme di non meno di 3.500 trattati fiscali bilaterali in vigore in tutto il mondo che mirano a prevenire la doppia imposizione e facilitare le attività transfrontaliere, che rappresentano fonti di opportunità di evasione fiscale e di profitti per consulenti e avvocati fiscali ... .

domenica 2 novembre 2025

Eventi che cambiano il mondo

 

Cinquant’anni fa, chi avrebbe immaginato un presidente della Repubblica Popolare Cinese partecipare a un forum economico come quello di Davos (già esisteva!)? Sarebbe stato preso per un burlone oppure per un folle. Se poi avesse aggiunto che lo stesso presidente cinese si sarebbe espresso a favore del capitalismo e del libero scambio globale, l’intero pianeta avrebbe riso a crepapelle.

Ed invece è esattamente ciò che è successo al World Economic Forum di Davos nel 2017, quando Xi Jinping lanciò un appassionato appello al libero scambio globale. Anche otto anni fa la cosa destò qualche perplessità. Fino ad allora, discorsi del genere erano più comunemente associati a leader di altre parti del mondo. Da allora, Xi ha ribadito questa posizione più volte, mentre l’allora presidente degli Stati Uniti, ancora oggi in carica, non ne vuole sapere e ha fatto del protezionismo un principio centrale dell’agenda del suo governo.

L’incontro tra Trump e Xi Jinping, tenutosi giovedì a Gyeongju, in Corea del Sud, si è concentrato sulla prevenzione di un’ulteriore escalation della guerra commerciale in corso tra Cina e Stati Uniti. Nessuno dei due leader ci crede, specie Trump, il quale ha altri progetti. Solo un giorno dopo, nello stesso luogo, il presidente cinese ha invitato gli Stati membri dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) a praticare un “genuino multilateralismo”. Li ha esortati a promuovere un ambiente economico regionale aperto e la liberalizzazione del commercio e degli investimenti. Ed è ciò che più conviene al gigante cinese, ma anche agli altri 20 Paesi che ne fanno parte, Stati Uniti compresi, che però hanno altre ambizioni, che non nascondono.

Ancora nell’anno 2000, la parola d’ordine era “liberalizzazione del commercio globale” e l’aspettativa era il “cambiamento attraverso il commercio”, perché ciò che veniva esportato non erano solo prodotti manifatturieri occidentali, ma anche un intero pacchetto di “valori” occidentali. E se l’esportazione di questi beni vacillava per un qualche motivo, c’era pronto quello che eufemisticamente veniva chiamato interventismo sui diritti umani: con mezzi militari, si diceva al recalcitrante che non avrebbero dovuto intraprendere alcuna azione indipendente, bensì mettere in vendita le sue risorse naturali e aprire il Paese all’importazione di beni a basso costo o alla loro produzione sotto la proprietà e il controllo di aziende occidentali, eccetera.

I salariati dei paesi del G7 producevano circa la metà del prodotto interno lordo globale; oggi è meno di un terzo. All’epoca, poco si accennava ai cambiamenti, a volte drammatici, nell’ordine mondiale. Un mondo unipolare e le nazioni industrializzate del Nord, soprattutto gli Stati Uniti, si sforzavano di imporre regole universalmente applicabili praticamente a tutti i Paesi al fine di aumentare le vendite e i profitti del loro capitale.

Ah, bei tempi quelli. Anche le classi subalterne occidentali ne traevano vantaggio. Quell’ordine mondiale appartiene al passato. Semplicemente perché la ricchezza generata dalla produzione di merci non rimane più concentrata esclusivamente nei vecchi centri capitalistici. L’unità contraddittoria dell’economia globale e della politica basata sugli Stati nazionali genera crisi ricorrenti. Il mercato globale si unifica e si frammenta simultaneamente, portando a uno sviluppo diseguale. Questo si può osservare – e anche la Corea del Sud sta inviando questo segnale – nell’ascesa della Cina e nel relativo declino degli Stati Uniti.

A guidare gli Stati Uniti è gente come Trump, che pensa di recuperare ruolo ed egemonia con le minacce, i dazi e la guerra con le cannoniere. Trump s’illude di vivere nel mondo di ieri, non vuol prendere atto che il nuovo secolo sarà sempre meno “americano”. Quanto all’Europa, alle prese con le sue irrisolte contraddizioni nazionalistiche, è sulla buona strada per tornare graniticamente fascista.