venerdì 17 ottobre 2025

Perché sale il prezzo dell'oro

I vari esegeti di Benjamin Graham si chiedono perché l’oro raggiunga quotazioni così elevate, ormai ben sopra i 4000 dollari per oncia (28,35 grammi). Tra le risposte più accreditate vi è quella che il suo prezzo è legato alla fluttuazione della domanda, nel senso che aumenta perché è forte la domanda di acquisto: da parte delle banche centrali, di investitori verso attività considerate sicure (dal 2024 aumento acquisto di prodotti finanziari garantiti dall’oro), dei settori dell’oreficeria, dell’elettronica (7-8%). È un bene rifugio (rischi geopolitici, dazi, ecc.) poiché l’oro fisico mantiene il suo valore intrinseco (valore, non prezzo) anche se non genera interessi (salvo il suo prezzo eventualmente in aumento).

Inoltre, a fronte del significativo calo dei mercati immobiliari e azionari in Cina e dell’aumento delle capacità di risparmio in India, le famiglie cinesi e indiane hanno aumentato significativamente i loro investimenti in oro (dati del World Gold Council).

Sono risposte realistiche e di buon senso. L’oro è sì un bene finanziario, ma si tratta anzitutto di una merce, anzi della merce per eccellenza poiché l’oro è eletto, per le sue caratteristiche intrinseche, alla funzione di equivalente universale.

Per ovvi motivi sarebbe disagevole usare l’oro nelle transazioni commerciali, ed è per questo motivo che è stata creata la moneta (oltre ad altre forme di investimento e pagamento). Tutti i valori monetari, cartacei o elettronici, sono in realtà segni del valore, moneta a corso forzoso, fiduciaria. Laddove venga meno la fiducia, è immancabile che si tenda ad abbandonare il “segno del valore” per il valore sans phrases. Va anche rilevato, cosa non priva di conseguenze, che il dollaro dal 1971 non è convertibile in oro. Rimane la valuta dominante, ma la sua quota nelle riserve delle banche centrali è scesa al minimo degli ultimi 25 anni (FMI).

Ciò mi ricorda una vecchia storia, una tra le tante, ossia la storia dei cosiddetti “assegnati”. Al tempo della Rivoluzione del 1789, il problema finanziario si era fatto da anni molto pressante. Le casse statali erano vuote, metà della spesa pubblica era destinata a ripagare solo gli interessi sul debito pubblico, che non si sapeva nemmeno esattamente a quanto ammontasse (non esisteva una ragioneria dello Stato, la riscossione delle imposte veniva messa all’asta, eccetera).

Si pensò di nazionalizzare i beni della chiesa e altri beni nazionali e della corona. Quindi di metterli all’asta. Chi voleva e poteva acquistarli doveva munirsi di una speciale moneta cartacea, appunto gli “assegnati”, stampati dapprima in tagli da 1000 livres, per una somma complessiva di 400 milioni. Il patrimonio all’incanto era stimato tra i due o tre miliardi di livres. Gli assegnati si potevano acquistare in cambio di moneta metallica sonante (oro e argento). Quando gli assegnati usati per l’acquisto del patrimonio nazionalizzato rientravano nelle casse dello Stato era prevista la loro distruzione.

Tutto bene sulla ... carta. Sennonché, per farla breve, gli assegnati da moneta speciale divennero ben presto moneta corrente, valida per qualsiasi tipo di transazione e stampati in tagli di poche decine di livres e anche meno. Se ne stamparono sempre di più. Ovvio che in tal modo questa moneta, non più “assegnata” a dei beni tangibili, tendesse a inflazionarsi e dunque a deprezzarsi sempre di più. Altrettanto ovvio è che chi poteva approfittarne acquistava della buona terra e altri beni con moneta che già il giorno dopo valeva di meno. Ma questo è altro discorso.

Per concludere: dagli iniziali 400 milioni di assegnati del 1789, man mano si arrivò ai 34 miliardi del 1795 e ai circa 45 miliardi del 1796. Le monete in oro e argento erano molto ricercate, ma sparirono dalla circolazione per il solito motivo: moneta cattiva scaccia quella buona. È così il pane, dal 1790 al 1795, aumentò del 3.260 per cento (**).

Nel 1797, i cliché con i quali erano stampati gli assegnati e altra moneta cartacea (con la quale si era tentato di sostituirli nel 1796), vennero distrutti e si tornò alla sana e concreta monetazione metallica.

Morale della fava: gli assegnati avevano avuto indubbiamente una funzione positiva, avevano permesso alla Francia rivoluzionaria di non fallire e di onorare gli impegni correnti di spesa. Tuttavia, alla fine, la passione per la “stampa” prese la mano e a rimetterci fu la povera gente, operai, servidorame vario e contadini poveri. Altri si arricchirono enormemente. Cosa da non crederci, vero?

Più o meno succede la stessa cosa oggi di tutto ciò che in vario modo circola forzatamente e fiduciariamente. A cominciare dal dollaro, il quale è utilizzato negli scambi come equivalente universale senza esserlo realmente, ma solo fiduciariamente. La fiducia è sempre a tempo, mai eterna. Si potrà eccepire che, a differenza degli assegnati francesi, il dollaro non si è molto deprezzato e anche i titoli del debito americano non soffrono troppo. Vero, finora. Quella che ho citata è una analogia storica, non una riproposizione pedissequa della storia. Il dollaro ha avuto e continua ad avere una funzione più ampia e contestualmente diversa rispetto all’assegnato. Circostanze da non trascurare. E però l’oro sale di prezzo. Anche di valore? Lo scopriremo solo vivendo.

(*) Dopo aver raggiunto i 2.000 dollari l’oncia nell’agosto 2020, al culmine della pandemia, il suo prezzo è rimasto relativamente stabile fino all’anno scorso, quando ha iniziato una vertiginosa ascesa: 2.500 dollari ad agosto, 3.000 dollari lo scorso marzo e 3.500 dollari a settembre, prima di superare la soglia dei 4.000 dollari. Dall’inizio dell’anno, il prezzo è aumentato di oltre il 50%. Il costo di produzione di un’oncia d’oro è stimato a 1.400 dollari circa.

(**) George E. Rudé, Prezzi, salari e moti popolari a Parigi durante la rivoluzione, in AA.VV., Sanculotti e contadini nella Riv. francese, Tabella a p. 171.

giovedì 16 ottobre 2025

La nuova crociata

 

Immaginiamo che un presidente del consiglio sia chiamato a rispondere del reato di corruzione in un tribunale. Che in aula, ad assistere al processo, oltre all’accusato/a si presentino i ministri del suo governo e tutti i deputati del suo partito. Abbastanza intimidatorio, penso.

È quanto è successo ieri al tribunale di Tel Aviv, dove seduto a una piccola scrivania, c’era Benjamin Netanyahu, che, sorridente, scrutava i banchi del pubblico dove stavano seduti i suoi sostenitori. Netanyahu e Sara Netanyahu (sua moglie) sono coinvolti in tre casi di corruzione, nel primo, il cosiddetto caso “1000”, è sospettato di aver fornito “favori” nel settore dei media ad Arnon Milchan, uomo d’affari e produttore cinematografico (Pretty Woman), in cambio di regali, champagne rosé, sigari e gioielli, per un valore di 260.000 dollari. In altri due casi, Netanyahu è accusato di aver tentato di “negoziare” una copertura mediatica più favorevole su due media israeliani.

“Sigari e champagne, a chi importa?”. Il presidente Donald Trump tre giorni fa aveva esortato il presidente israeliano Isaac Herzog a graziare il primo ministro Benjamin Netanyahu. Non è nuovo Trump nel chiedere l’annullamento del processo (“dovrebbe essere annullato immediatamente”, lo aveva già fatto nel giugno scorso, raccomandando altrimenti che venisse “concessa la grazia a un grande eroe”. Nero su bianco sul suo social network Truth.

P.S.: forse non ci crederete, ma grazie alle donazioni israeliane, viene costruito un villaggio per i bambini orfani di Gaza. È già iniziata la crociata per riscrivere la storia.

mercoledì 15 ottobre 2025

Persone come Claudio Velardi

 

La pratica della demolizione delle abitazioni palestinesi da parte degli israeliani è antica quanto lo Stato d’Israele. Il pretesto è sempre stato univoco: il terrorista, vero o solo presunto, che si oppone all’occupazione e all’apartheid, viene punito, oltre che con la carcerazione o la morte, anche con la distruzione dell’abitazione in cui vive la sua famiglia.

Pertanto, ciò che è successo nella Striscia di Gaza non è un inedito storico, ma la prosecuzione su larga scala di una procedura consolidata. Ciò che si vuole ottenere è l’estinzione palestinese nei territori occupati o che si vogliono occupare. In buona sostanza questa strategia ricalca esattamente quella posta in atto nel Nord America dai coloni bianchi, e anche il piano di colonizzazione nazista a riguardo dei territori dell’Est Europa.

La strategia sionista di giungere infine alla costruzione del grande Israele è sempre la stessa e non cambia. Dunque non cambieranno i metodi per ottenere il raggiungimento di questo scopo. Facendo attenzione a un dettaglio: per grande Israele non s’intende solo la Palestina. È solo questione di tempo e anche questo aspetto apparirà chiaro. Dapprima si procede da un punto di vista economico, poi anche sotto l’aspetto militare.

Quando Claudio Velardi scrive che «nessun essere umano può dirsi estraneo alla storia ultramillenaria di Israele, a partire da quel topos simbolico del sacrificio narrato nella Bibbia», ci sta dicendo anzitutto una cosa: la presenza degli ebrei in Palestina è un fatto storico e dunque non si discute il loro diritto, dopo quasi duemila anni, di rimpossessarsi della Palestina. Con qualsiasi mezzo e a prescindere da chi nel frattempo abbia abitato quella terra.

“Quel sacrificio non si è mai interrotto”, ci dice Velardi, «Abramo è pronto a offrire suo figlio Isacco sul monte Moria per obbedire a Dio. È il gesto che segna l’origine morale del popolo d’Israele». E quell’origine “morale” segna anche, ipso facto, il diritto di quel popolo su quella terra in obbedienza a Dio.

Velardi a questa premessa ne antepone un’altra: «Personalmente non mi riconosco in una cultura messianica. Per la verità non sono neppure credente». Non è credente, ma riconosce, come dovrebbe qualunque “essere umano”, che il diritto d’Israele è in obbedienza a Dio. Poi prosegue: «Ogni soldato caduto, ogni ostaggio non tornato è il volto moderno di Isacco, offerto non a un dio crudele, ma alle asperità della storia».

Le “asperità della storia” attengono non solo alla volontà degli ebrei di stabilirsi in Palestina, ma di volerne occupare le terre e cacciare i legittimi abitanti con ogni mezzo. Secondo l’ideologia sionista e le norme giuridiche costituzionali israeliane, chiunque possa dimostrare anche il più tenue legame con la storia e la tradizione ebraica, indipendentemente da dove o quando sia nato, ha diritti superiori sulla terra natale dei palestinesi, nonostante il fatto che i palestinesi la abitino e lavorino da diverse centinaia di anni.

Secondo questa ideologia, in virtù della sua nascita ebraica, una persona ha un legame praticamente eterno con il paese, e invece il legame di un palestinese con la terra in cui è nato e che lo circonda non ha lo stesso valore, perché non appartiene al “popolo eletto”.

Questa priorità degli ebrei sui non ebrei, anche se cittadini dello stesso Stato, non è solo una questione di ideologia egemonica, è anche la pratica dominante in tutti gli aspetti della vita in Israele fin dalla sua nascita.

Questa è la principale caratteristica del sionismo, che è un’ideologia sistematica e un movimento politico con un apparato statale che la attua. Non sorprende quindi che la vita ebraica continui a prosperare nelle città, nelle aree urbane e nelle comunità di Israele, mentre quella degli arabi palestinesi nelle città arabe non fa che degenerare. Basta confrontare la città ebraica di Nazareth Alta e la Nazareth araba in termini di infrastrutture, zone industriali, pianificazione, istruzione scolastica, servizi sanitari e tempo libero, per comprendere che i profondi abissi che separano le due parti della stessa città non sono il risultato di un caso o di una cecità nelle politiche pubbliche.

Per gli ebrei, il sionismo è concepito come un’ideologia di emancipazione e sovranità, che organizza il mondo in entità dicotomiche, in termini binari. Ciò si manifesta in tutti gli aspetti della vita ebraica e in tutte le azioni dello Stato di Israele. È una visione politica e nazionale del mondo che tenta di depoliticizzare le giustificazioni con cui un popolo riceve privilegi in un paese che apparteneva a un altro popolo, e che istituzionalizza tali privilegi in un sofisticato ordine costituzionale.

Le politiche nazionali possono ostacolate temporaneamente un’etnia o un’altra, questo sta nelle cose e nella storia, non possiamo farci illusioni. Ma quando sono costantemente e sistematicamente orientate a facilitare l’espansione e la superiorità di un gruppo etnico nazionale, a causa di un’ideologia sofisticata, solidamente giustificata e propagandata dai media, e a escluderne un altro, definitivamente identificato come un “problema di sicurezza e demografico”, di che segno sono quelle politiche? Quando una comunità viene educata a sentirsi “a casa”, mentre l’altra viene descritta come straniera, estranea, invadente, è necessario porsi delle domande e trovare delle risposte.

Ma non è il caso di persone come Claudio Velardi.

martedì 14 ottobre 2025

La vostra citazione preferita


Avrebbe dovuto far ululare tutti i sostenitori della privacy quanto sta accadendo con lo spionaggio telefonico, e invece solo qualche bisbiglio. Del resto la cosiddetta privacy è solo un’altra delle ridicole trovate in un mondo in cui siamo costantemente costretti a divulgare informazioni private a siti che non meritano la nostra fiducia.

Anche a proposito del disegno di legge europeo soprannominato Chat Control (sembra il nome di un preservativo), che consentirebbe la scansione di tutte le nostre conversazioni di messaggistica, non s’è alzata paglia. L’ultima notizia è che non verrà discusso immediatamente. Sarebbe un’occasione per ricordare a tutti che, in tutto il mondo e con falsi pretesti, il sistema democratico ha una sola ossessione: accedere alle nostre conversazioni private.

In questo 14 ottobre, incastonato tra una conferenza stampa sul movimento pro-democrazia georgiano e una visita degli eurodeputati a un ospedale di Berlino, si è svolto lo studio del “Regolamento sugli abusi sessuali sui minori”, più comunemente noto come “Controllo delle chat”. Di cosa si tratta? I nostri stipendiati di Bruxelles vogliono poter costringere tutte le piattaforme di discussione, dalle e-mail ai servizi di messaggistica più tradizionali come WhatsApp, a scansionare ogni nostro scambio alla ricerca di contenuti pedopornografici.

Questa è una ragione sufficiente per spiare le email di oltre 400 milioni di europei? Un testo che, con la scusa di rafforzare il controllo contro gli abusi sessuali sui minori online, ha il merito di ottenere due riconoscimenti: quello di inefficacia (chiedere in Vaticano) e quello di progetto più liberticida del momento.

La tecnica che verrebbe utilizzata è chiamata “scansione lato client”, e non sono da escludere “numerosi falsi positivi”. Consentirebbe alle polizie (ma non solo a loro) di conoscere tutto ciò che pubblichiamo su qualsiasi piattaforma, di leggere le nostre email non crittografate e la nostra cronologia di navigazione, e, basandosi esclusivamente su un “ragionevole sospetto” (qualunque cosa ciò significhi), metterci nei guai. Tanto più che non sappiamo quale bischero ci stia spiando.

Ciò ricorda anche quanto successo quest’estate in Inghilterra con l’Online Safety Act, la normativa britannica che impone agli utenti dei social media di fornire i propri dati personali, inclusa la carta d’identità, per accedere alle pubblicazioni. Mentre l’obiettivo in questo caso era quello di proteggere i minori dall’esposizione a una serie di contenuti loschi, è stato il resto della popolazione a pagarne il prezzo: rifiutandosi di fornire la propria identità, gli utenti non hanno più avuto accesso a un’ampia gamma di pubblicazioni, inclusi articoli su Gaza o l’Ucraina.

Per concludere, potete inserire qui sotto nei commenti la vostra citazione preferita di Orwell. 

lunedì 13 ottobre 2025

Gli ostaggi palestinesi

 

Anche al parlamento israeliano Trump è intervenuto con il suo solito flusso di coscienza, divertendosi un mondo, inondato di applausi, risate e standing ovation. Lo spettacolo è stato essenzialmente un esercizio di reciproca adulazione tra Trump e Netanyahu, oltre che una celebrazione dell’eccellenza israeliana nei massacri di massa. Trump si è congratulato con Netanyahu per l’”ottimo lavoro”.

Trump si è vantato: “produciamo le migliori armi al mondo e abbiamo dato molto a Israele, [...] e voi le avete usate bene”. Immagina di aver ormai risolto “la catastrofe dei 3000 anni”. Buffone. L’annientamento dei palestinesi, che Trump non ha ovviamente menzionato, non avrà termine. Chi crede questo non conosce la storia dell’occupazione ebraica della Palestina, soprattutto finge di non conoscerne l’ideologia e gli scopi del sionismo.

La performance di Trump alla Knesset ha incluso numerosi discorsi promozionali a favore degli Accordi di Abramo, che ha sottolineato di preferire pronunciare “Avraham”, in ebraico. Sottolineando quanto gli accordi di normalizzazione siano stati vantaggiosi per le imprese, Trump ha dichiarato che i quattro firmatari esistenti hanno già “guadagnato un sacco di soldi come membri”.

Quando Trump ha deciso finalmente di concludere, le sue ultime parole sono state: “Amo Israele. Sono con voi fino in fondo”. Del resto, l’affetto degli Stati Uniti per uno Stato terrorista e genocida non dovrebbe sorprendere nessuno. Il resoconto unanime dei media occidentali rappresenta una finestra su una cultura mediatica che banalizza le sofferenze dei palestinesi e ne devia le responsabilità.

È giusto e ovvio mostrare i festeggiamenti per la liberazione degli ostaggi israeliani, però si tace sulla liberazione degli altri ostaggi, i palestinesi detenuti nelle carceri di Israele. Si dirà che quelli israeliani erano innocenti, mentre colpevoli quelli palestinesi. Su quale base si può giudicare colpevole chi lotta per la liberazione del proprio popolo e della sua terra?

In realtà gli ostaggi palestinesi liberati dagli israeliani non faranno ritorno alle loro case, non solo perché sono state rase al suolo dall’esercito israeliano usando esplosivi prodotti con materiale chimico fornito da società italiane con il placet del governo Meloni (ma poteva essere un governo qualsiasi), ma anche perché sono destinati all’esilio. Infatti, molti di quei prigionieri palestinesi rilasciati in base a un accordo di scambio saranno deportati in paesi terzi.

È una ennesima dimostrazione della violazione del diritto internazionale e dei doppi standard che circondano gli accordi di scambio. Erano detenuti nelle carceri israeliane assieme a circa 1.700 palestinesi rapiti dalla Striscia di Gaza durante i due anni di guerra israeliana, molti dei quali sono stati “fatti sparire forzatamente”, secondo le Nazioni Unite. Sono stati fatti passare tutti come dei terroristi.