martedì 25 novembre 2025

L’assalto al quartier generale

 

Per un paio di giorni ci terranno occupati con altro, tuttavia l’esito del conflitto in corso in Ucraina ci riguarda da vicino fin troppo. Non ne sembriamo consapevoli e sbucciamo piselli come nulla fosse.

A seguito dei colloqui tra i rappresentanti di Stati Uniti, Ucraina e alcuni Stati membri dell’UE a Ginevra, sono state apportate modifiche a dir poco significative al piano di Donald Trump per porre fine alla guerra in Ucraina.

Questo piano attualmente esiste solo sulla carta, e senza l’accordo della Russia sul nuovo piano, il piano rivisto di Trump non è altro che aria fritta. La nuova bozza non include più gli obiettivi politici centrali della Russia, come l’esclusione dalla NATO, la limitazione delle dimensioni delle forze armate ucraine e la messa al bando dei gruppi fascisti in Ucraina. Il nuovo piano omette inoltre qualsiasi garanzia sullo status della lingua russa in Ucraina.

Quanto poi alla questione dei territori, siamo lontani anni luce da un accordo. Dunque sembra dubbio (eufemismo) che la Russia sia disposta ad accettare questa base negoziale dato l’attuale stato del conflitto. E allora a che cosa serve tutta questa manfrina? È solo propaganda, per addossare la responsabilità del rifiuto del piano alla Russia. Bisogna essere dei disonesti per non ammetterlo.

Inoltre, e questo ci riguarda da vicino, l’esito di Ginevra potrebbe rappresentare un successo per l’UE nella sua lotta con gli Stati Uniti per il riconoscimento come forza politica, soprattutto perché Trump l’aveva già designata come il più importante contributore finanziario.

Il vantaggio della bozza originale, quella di Trump, era che affrontava i principali obiettivi politici della Russia: dalla rinuncia all’espansione della NATO alla creazione di una nuova architettura di sicurezza europea e all’estensione dei più importanti accordi sul controllo degli armamenti. Il punto debole, molto debole, era dato dal fatto che rinviava sine die la questione territoriale. La nuova bozza su questo punto è addirittura peggiorativa e inaccettabile per la Russia.

Si potrebbe persino parlare di sabotaggio della pace. Ma una cosa è chiara: Volodymyr Zelensky può vivere tranquillamente con il “piano di pace” rivisto. Prolungherà la guerra e non dovrà più affrontare la minaccia di nuove elezioni, che molto probabilmente perderebbe. Il ritorno della pace in Ucraina è impossibile se gli ucraini non daranno l’assalto al proprio quartier generale.

lunedì 24 novembre 2025

Mario Draghi, l’architetto delle illusioni

 

Quante cose si sono dette e scritte sul famoso summit avvenuto nel 1992 sul panfilo Britannia, evento simbolico che ha dato il via alla massiccia stagione di privatizzazioni delle aziende statali che operano in settori assolutamente centrali per la consistenza economica, come le grandi banche, l’IRI, l'Eni e Telecom Italia.

Ieri, sul Sole 24 ore (e dove sennò?) ne ha parlato Giovanni Tamburi, “imprenditore- investitore innamorato delle imprese e delle strategie”. Ma soprattutto componente “della prima commissione presieduta da Luigi Cappugi, espressione del ministero del bilancio guidato da Paolo Cirino Pomicino durante l’ultimo governo Andreotti, [il quale] conserv[ò] la posizione durante il governo di Giuliano Amato, che portò avanti con grande decisione il progetto di privatizzare tutto il possibile”. Dunque, un tizio che le cose le ha viste da vicino, tanto è vero Tamburi partecipò all’organizzazione della crociera sul Britannia: “Il Britannia attraccò a Civitavecchia, Mario Draghi direttore generale del Tesoro salì a bordo, lesse agli investitori stranieri il discorso sul programma di privatizzazione e scese subito dallo yacht”.

Che un simile evento sia avvenuto su una nave privata battente bandiera straniera è già di per sé sintomatico, perciò che Draghi sia sceso dal battello subito dopo aver descritto il piano di svendita, come s’affretta a precisare Tamburi, è un’espressione che ha il fetore di una excusatio non petita. L’epoca era quella del Trattato di Maastricht, della liquidazione di un modello economico a forte impronta pubblica che, a causa del patronage politico, era fuori dalla logica economica, tanto che era opinione generalizzata che non si poteva evitare un ampio processo di privatizzazione.

Le motivazioni alla base della vasta operazione di privatizzazione erano queste: il settore pubblico era diventato una palude d’interessi politici e di intrecci corruttivi; la privatizzazione avrebbe contribuito ad attenuare l’entità del debito pubblico che negli anni Ottanta appariva fuori controllo, un punto questo su cui insisteva particolarmente l’Unione Europea (accordo Andreatta-Van Miert); inoltre, si pensava esistesse in Italia una riserva di imprenditorialità che con le privatizzazioni avrebbe avuto occasione di dispiegarsi senza ostacoli.

Questi propositi mercatisti andranno in grandissima parte delusi. Pur essendo l’Italia quasi in testa alle classifiche per valore delle privatizzazioni operate dal 1985 al 2000, con i ricavi di esse il debito pubblico venne appena scalfito. Inoltre, la decisione di destinare i proventi delle privatizzazioni alla riduzione del debito pubblico piuttosto che agli investimenti si è rivelata contraddittoria. Quanto all’imprenditoria privata, essa si è dimostrata incapace di svolgere un ruolo strategico e aggregante. La vicenda dell’acciaieria di Taranto e dei Riva è ampiamente nota, così come quella dei Benetton, che hanno puntato senza riserve alla rendita con le autostrade. Discorso a parte meriterebbe la vicenda dei cosiddetti “capitani coraggiosi”, che conquistano la Telecom con un leverage.

Storicamente lo Stato ha compensato un capitalismo privato che, in momenti chiave dello sviluppo del Paese, ha dimostrato una mancanza di coesione e privilegiato guadagni a breve termine. Il disimpegno pubblico è stato disastroso per l’industria italiana. Le multinazionali straniere hanno acquisito aziende anche in settori strategici un tempo considerati vitali (informatica, prodotti chimici, elettronica di consumo, alta tecnologia e siderurgia). La presenza di capitali stranieri non è di per sé problematica. Tuttavia, sorgono problemi quando gli interessi strategici di un Paese sono subordinati a potenze straniere. Il trasferimento di aziende nazionali a proprietà straniera implica una perdita di controllo su decisioni cruciali: l’ubicazione dei siti produttivi (leggi occupazione), la ricerca, la distribuzione degli utili e il reinvestimento.

La fine del modello di economia mista (che andava riformato, non annientato), unita al calo della domanda interna a causa della compressione dei salari (a vantaggio delle rendite finanziarie e delle imprese esportatrici), ha portato a una riduzione ancora più drastica delle dimensioni aziendali. Ciò che è rimasto sul territorio ha subito un inesorabile declino e dimostra che il capitalismo italiano ha bisogno del sostegno statale per prosperare. Inoltre, va ricordato che l’Italia è uno dei pochi paesi europei ad aver ridotto il numero dei suoi dipendenti pubblici facendo ampio ricorso a pratiche di esternalizzazione per i servizi pubblici locali, in particolare nei settori dei trasporti, della sanità e dell’istruzione.

Che più della metà dell’elettorato non si rechi alle urne, non è un fatto incidentale.

La guerra continua

 

Hanno messo le manacce loro al cosiddetto piano in 28 punti di Trump. Avranno l’alibi che è la Russia a non voler accettare il piano riscritto radicalmente secondo i desiderata del capo dell’intelligence militare ucraina Kyrylo Budanov (presente a Gnevra). Basta leggere, per esempio, l’articolo 20 per avere chiaro che non vogliono la pace, laddove si legge che saranno “possibili scambi territoriali” ma da concordare successivamente. Non solo, l’articolo 13 prevede che “L’Ucraina sarà completamente ricostruita e risarcita economicamente anche tramite beni sovrani russi che resteranno congelati fino a quando la Russia non compenserà i danni causati all’Ucraina”.

Tutto è stato deciso con la partecipazione dell’Ucraina, ma senza la partecipazione della Russia. Vogliono la guerra. L’avranno.

Il prigioniero


C’è trepidante attesa sul mercato librario francese. Il 10 dicembre uscirà l’attesissimo Diario di un prigioniero (Journal d’un prisonnier). Si potrebbe supporre che si tratti di un detenuto con una palla al piede, soprattutto perché è appena uscito nelle sale francesi l’adattamento cinematografico del racconto di Jean Valjean, creato dalla penna di Victor Hugo. La vicenda di un uomo uscito di galera dopo una condanna ventennale ai lavori forzati a causa di un furto commesso per fame (*).

E invece le memorie di prigionia che stanno per uscire per i tipi delle edizioni Fayard – il marchio è stato recentemente acquisito dal multimiliardario di estrema destra Vincent Bolloré – riguardano un ex galeotto che ha trascorso non più di venti giorni nel prestigioso carcere di La Santé a Parigi, nutrendosi quasi solo di yogurt.

Si tratta del marito di Carla Bruni, condannato a cinque anni di carcere per corruzione internazionale e finanziamento politico illecito, che ha iniziato a scontare la pena il 21 ottobre. Sebbene sia riuscito a evitare l’incarcerazione immediata dopo il verdetto (come è avvenuto per i suoi coimputati, l’intermediario Alexandre (Ahmad) Djouhri e il banchiere 81enne Wahib Nacer, rilasciato il 28 ottobre), il tribunale non gli ha permesso di attendere il processo d’appello (le udienze sono previste da marzo a giugno) in libertà e nemmeno agli arresti domiciliari (**).

Il prigioniero, meno di tre settimane dopo, il 10 novembre, è stato rilasciato dalla Corte d’Appello di Parigi, che ha stabilito che non rappresentava un rischio di fuga e lo ha posto sotto sorveglianza giudiziaria. I giudici di primo grado avevano giustificato l’ordine di custodia cautelare immediata con la “gravità eccezionale” dei reati.

Al povero Nicolas, questo il nome del marito della Bruni, sono state imposte alcune dure condizioni. La più importante, e decisamente disumana, fu che non gli fu permesso di incontrare di persona il ministro della Giustizia in carica, Gérald Darmanin, durante il periodo precedente al processo. Darmanin, ex collega di partito di Nicolas, gli ha comunque fatto visita in carcere il 29 ottobre, durante la sua fulminea detenzione.

Il settantenne ha maturato profonde intuizioni filosofiche durante la sua prigionia. “Simile a un soggiorno nel deserto”, scrive su X, “la prigione rafforza la vita spirituale interiore” (A l’image du désert, la vie intérieure se fortifie en prison). Dunque, Nicolas dovrebbe rimpiangere che il suo periodo dietro le sbarre sia stato troppo breve perché potesse davvero beneficiare di questo vantaggio.

(*) A firma del regista Éric Besnard, con protagonista Grégory Gadebois, già col. Hubert- Joseph Henry nel film di Polanskiy L’ufficiale e la spia.

In un angolo nascosto del cimitero di Pere-Lachaise a Parigi si trova la tomba di Jean Valjean, il protagonista del libro. In un luogo deserto, vicino a un vecchio muro, sotto un grande tasso – scrive Hugo – c’è una lapide senza nome. A nessuno verrà in mente di andarla a cercare perché non è vicina ad alcun sentiero e l’erba lì attorno cresce folta e bagna i piedi. Al massimo, quando c’è un po’ di sole, andranno a visitarla le lucertole.

Un certo numero di persone, alcune o moltissime, avranno provato almeno una volta a rintracciare quel vecchio muro, quell’albero e quella lapide senza nome. Sarebbe come cercare la tomba di Madame Bovary. 

(**) L’imprenditore libanese Ziad Takieddine ha raccontato più volte di aver trasferito milioni di dollari su un aereo privato da Tripoli all’aeroporto Le Bourget e di averli consegnati al braccio destro di Sarkozy, Claude Gueant (già ministro dell’Interno e segretario generale della presidenza della repubblica, per l’affare libico è stato condannato ad un anno). In particolare, Takieddine era un concorrente di Djouhri nel commercio di armi e nella mediazione in Libia.

Il nome di Ziad Takieddine evoca un altro affaire, quello dei sottomarini della classe Agosta, uno scandalo che coinvolse le presidenze di François Mitterrand e Jacques Chirac. Il più pulito ha la rogna. 

domenica 23 novembre 2025

In ordine sparso

 

I cosiddetti “bambini nel bosco”. Sono diventati un caso mediatico, ecco perché se ne occupano i magistrati e, quel che è peggio, i politicanti (“politica” è un termine nobile, non si pratica da decenni). Che cosa vorrebbero farne di quei bambini? Separarli per darli in adozione ad altre famiglie? Follia. Siamo sicuri che i bambini delle periferie, di certi quartieri, o di certi “campi”, vivono in condizioni migliori? Sono felici quei “bambini nel bosco”, che non è poco. E sicuramente anche in quelle condizioni cresceranno meglio di tanti altri bambini dotati di tutti i comfort (o presunti tali). La questione dell’istruzione? Basterebbe una maestra di sostegno a domicilio qualche ora la settimana. Il resto, se quei bambini hanno una buona predisposizione, verrà da sé.

I sedicenti leader europei, l’ho già detto (sempre per ciò che vale, ovvio), non vogliono ammettere la sconfitta. La loro sconfitta. È una questione di orgoglio (non solo). Dell’Ucraina non gliene importa nulla, anzi, gliene importa “il giusto”. I 28 punti sono una resa ... ai punti, ovvio. E però sono convinti che la continuazione della guerra in Ucraina sia preferibile a una pace in cui l’Ucraina debba fare delle concessioni. Ma anno dopo anno, mese dopo mese, sarà sempre peggio. Basta morti e distruzioni. Pensare che la Russia possa stare fuori dell’Europa è da sconsiderati. Quando i cinesi avranno preso, di fatto, il potere in Europa, ne riparliamo. Stupidi.

Le teologhe femministe? Basta, non se ne può più di questa gente che ti parla a bassa voce e con un tono da crema calda. Vanagloriose e furbe, elaborano meticolosamente la loro narrazione e non perdono mai l’occasione di proclamare in lungo e in largo che sono le autentiche interpreti della Verità rivelata.

Lockdown per ricchi.