I vari esegeti di Benjamin Graham si chiedono perché l’oro raggiunga quotazioni così elevate, ormai ben sopra i 4000 dollari per oncia (28,35 grammi). Tra le risposte più accreditate vi è quella che il suo prezzo è legato alla fluttuazione della domanda, nel senso che aumenta perché è forte la domanda di acquisto: da parte delle banche centrali, di investitori verso attività considerate sicure (dal 2024 aumento acquisto di prodotti finanziari garantiti dall’oro), dei settori dell’oreficeria, dell’elettronica (7-8%). È un bene rifugio (rischi geopolitici, dazi, ecc.) poiché l’oro fisico mantiene il suo valore intrinseco (valore, non prezzo) anche se non genera interessi (salvo il suo prezzo eventualmente in aumento).
Inoltre, a fronte del significativo calo dei mercati immobiliari e azionari in Cina e dell’aumento delle capacità di risparmio in India, le famiglie cinesi e indiane hanno aumentato significativamente i loro investimenti in oro (dati del World Gold Council).
Sono risposte realistiche e di buon senso. L’oro è sì un bene finanziario, ma si tratta anzitutto di una merce, anzi della merce per eccellenza poiché l’oro è eletto, per le sue caratteristiche intrinseche, alla funzione di equivalente universale.
Per ovvi motivi sarebbe disagevole usare l’oro nelle transazioni commerciali, ed è per questo motivo che è stata creata la moneta (oltre ad altre forme di investimento e pagamento). Tutti i valori monetari, cartacei o elettronici, sono in realtà segni del valore, moneta a corso forzoso, fiduciaria. Laddove venga meno la fiducia, è immancabile che si tenda ad abbandonare il “segno del valore” per il valore sans phrases. Va anche rilevato, cosa non priva di conseguenze, che il dollaro dal 1971 non è convertibile in oro. Rimane la valuta dominante, ma la sua quota nelle riserve delle banche centrali è scesa al minimo degli ultimi 25 anni (FMI).
Ciò mi ricorda una vecchia storia, una tra le tante, ossia la storia dei cosiddetti “assegnati”. Al tempo della Rivoluzione del 1789, il problema finanziario si era fatto da anni molto pressante. Le casse statali erano vuote, metà della spesa pubblica era destinata a ripagare solo gli interessi sul debito pubblico, che non si sapeva nemmeno esattamente a quanto ammontasse (non esisteva una ragioneria dello Stato, la riscossione delle imposte veniva messa all’asta, eccetera).
Si pensò di nazionalizzare i beni della chiesa e altri beni nazionali e della corona. Quindi di metterli all’asta. Chi voleva e poteva acquistarli doveva munirsi di una speciale moneta cartacea, appunto gli “assegnati”, stampati dapprima in tagli da 1000 livres, per una somma complessiva di 400 milioni. Il patrimonio all’incanto era stimato tra i due o tre miliardi di livres. Gli assegnati si potevano acquistare in cambio di moneta metallica sonante (oro e argento). Quando gli assegnati usati per l’acquisto del patrimonio nazionalizzato rientravano nelle casse dello Stato era prevista la loro distruzione.
Tutto bene sulla ... carta. Sennonché, per farla breve, gli assegnati da moneta speciale divennero ben presto moneta corrente, valida per qualsiasi tipo di transazione e stampati in tagli di poche decine di livres e anche meno. Se ne stamparono sempre di più. Ovvio che in tal modo questa moneta, non più “assegnata” a dei beni tangibili, tendesse a inflazionarsi e dunque a deprezzarsi sempre di più. Altrettanto ovvio è che chi poteva approfittarne acquistava della buona terra e altri beni con moneta che già il giorno dopo valeva di meno. Ma questo è altro discorso.
Per concludere: dagli iniziali 400 milioni di assegnati del 1789, man mano si arrivò ai 34 miliardi del 1795 e ai circa 45 miliardi del 1796. Le monete in oro e argento erano molto ricercate, ma sparirono dalla circolazione per il solito motivo: moneta cattiva scaccia quella buona. È così il pane, dal 1790 al 1795, aumentò del 3.260 per cento (**).
Nel 1797, i cliché con i quali erano stampati gli assegnati e altra moneta cartacea (con la quale si era tentato di sostituirli nel 1796), vennero distrutti e si tornò alla sana e concreta monetazione metallica.
Morale della fava: gli assegnati avevano avuto indubbiamente una funzione positiva, avevano permesso alla Francia rivoluzionaria di non fallire e di onorare gli impegni correnti di spesa. Tuttavia, alla fine, la passione per la “stampa” prese la mano e a rimetterci fu la povera gente, operai, servidorame vario e contadini poveri. Altri si arricchirono enormemente. Cosa da non crederci, vero?
Più o meno succede la stessa cosa oggi di tutto ciò che in vario modo circola forzatamente e fiduciariamente. A cominciare dal dollaro, il quale è utilizzato negli scambi come equivalente universale senza esserlo realmente, ma solo fiduciariamente. La fiducia è sempre a tempo, mai eterna. Si potrà eccepire che, a differenza degli assegnati francesi, il dollaro non si è molto deprezzato e anche i titoli del debito americano non soffrono troppo. Vero, finora. Quella che ho citata è una analogia storica, non una riproposizione pedissequa della storia. Il dollaro ha avuto e continua ad avere una funzione più ampia e contestualmente diversa rispetto all’assegnato. Circostanze da non trascurare. E però l’oro sale di prezzo. Anche di valore? Lo scopriremo solo vivendo.
(*) Dopo aver raggiunto i 2.000 dollari l’oncia nell’agosto 2020, al culmine della pandemia, il suo prezzo è rimasto relativamente stabile fino all’anno scorso, quando ha iniziato una vertiginosa ascesa: 2.500 dollari ad agosto, 3.000 dollari lo scorso marzo e 3.500 dollari a settembre, prima di superare la soglia dei 4.000 dollari. Dall’inizio dell’anno, il prezzo è aumentato di oltre il 50%. Il costo di produzione di un’oncia d’oro è stimato a 1.400 dollari circa.
(**) George E. Rudé, Prezzi, salari e moti popolari a Parigi durante la rivoluzione, in AA.VV., Sanculotti e contadini nella Riv. francese, Tabella a p. 171.