La cosiddetta intelligenza artificiale mi ricorda Forrest Gump, l’incommensurabile azionista della Bubba Gump Shrimp Company, quando, a bordo del suo peschereccio chiamato Jenny, andava a pesca di gamberi. Ebbene l’IA funziona allo stesso modo di un peschereccio con reti a strascico. Pesca gamberi e altro, ma anche tavolette del cesso.
Se all’epoca di Hegel il falso era un momento del vero, all’epoca di Guy Debord il vero era già diventato un momento del falso. Presentata come la promessa di un futuro luminoso, generative AI è diventata una formidabile macchina per produrre falsità (una trappola per topi). Per mettere in piedi l’AI, i giganti della tecnologia hanno lanciato la più grande operazione di accaparramento di conoscenza nella storia dell’umanità. Questa corsa frenetica ha già saturato le reti, e potrebbe benissimo concludersi con la creazione di una macchina completamente alla Forrest Gump.
Il fraintendimento sta in origine, ossia parte dalla convinzione che essendo il cervello un oggetto fisico, questi obbedisca alle stesse leggi fisiche e si possa simularlo computazionalmente. Siccome queste stesse macchine sono in grado di eseguire operazioni algebriche molto complicate, e oggi anche di cucinare due uova al tegamino senza scottarsi i diti, si è deciso che di questo passo si potranno sostituire con delle macchine gli umani, esseri prevalentemente provvisti di comprensione e consapevolezza, ossia di una propria coscienza, che è un prodotto storico-sociale.
Immedesimandomi nel professor Vladimir Persikov, ho incaricato una di queste macchine super-intelligenti di cucinare due uova al tegamino. Di qui, mio malgrado, la scoperta che la macchina, quando cucina le uova, non ha alcuna comprensione di ciò che sta facendo, di che cosa si può fare o non fare con delle uova di gallina o di qualunque altro volatile, e segue in maniera inconsapevole degli algoritmi.
Nel procedimento delle uova al tegamino il tuorlo a volte si rompe. La macchina le butta nella pattumiera emettendo dei bip-bip di allarme. Certo, è bastato riprogrammare la macchina inserendo una modalità di cottura alternativa, di modo che, se il tuorlo si rompe, essa opera automaticamente di volgerle in uova strapazzate.
Mi resta una domanda che idealmente rivolgo a chi legge: dopo una settimana intera di uova strapazzate, è lecito ipotizzare che la macchina sia diventata dispettosa e ipso facto manifesti un segno di presa di coscienza?
L’anno scorso le banche italiane hanno registrato un utile netto di 45,6 miliardi, con un incremento del 14% rispetto l’anno prima (301 mld di ricavi e 112 di utili in tre anni, con cessione crediti deteriorati di 17 mld), l’utile sulle commissioni pesa per il 41%, gli alti tassi sui mutui e i prestiti fanno il resto. Redditività sul capitale oltre 13 per cento.
45,6 mld è una cifra che forse non viene percepita esattamente nella sua realtà mostruosa. Tradotta in lire è di oltre 90.000 miliardi di lire (esattamente: 90.036.506.223.272). Hanno pagato circa 11 mld di imposte, con un'incidenza del 24% sugli utili, meno di quanto trattenuto su una busta paga di irpef).
Negli ultimi sette anni si sono tagliate 6.000 filiali, tutto ciò per renderci la vita più comoda sopratutto nelle periferie e in provincia.
Per Intesa i ricavi sono stati di 8,66 miliardi, con un payout ratio (ossia il rapporto di distribuzione degli utili) del 70%, vale a dire di oltre 6 miliardi. Per Unicredit i ricavi sono stati di 9,3 miliardi, con un payout ratio del 90 per cento, ossia di circa 9 miliardi, con un riacquisto di azioni proprie (buyback) per 5,27 miliardi di euro. Il riacquisto di azioni proprie serve a ridurre il numero di azioni in circolazione, con lo scopo di aumentare l’utile per azione e dunque il valore del titolo e/o per scambiarle con altre società, ma anche per pagare generose stock option ai propri dirigenti apicali che con destrezza hanno praticato la rapina su larga scala.
Può un paese, per quanto fortunato come il nostro, continuare a farsi derubare in questo modo? Quando si sente parlare di “dittatura del proletariato” (ma quando mai c’è stata?), un fremito percorre la nostra schiena di gente di buonsenso liberale. Invece della dittatura della borghesia, un fatto ampiamente consolidato, ci frega sostanzialmente un cazzo.
Riprendo un tema che mi pare non goda più dell’empatia e dell’enfasi polemica di qualche tempo addietro, e del resto, come sappiamo almeno dall’epoca del buon dottor Guillotin, tutto ciò che accade è destinato a essere solo un complemento dello spettacolo. Dunque non c’è da stupirsi se i recenti e ancora inconsunti massacri in Palestina (ma anche altrove) stanno assumendo la forma utilitaristica di una delle tante banalità di fondo che governano i nostri delicati sentimenti di odio e amore. Un esempio di questa banalizzazione ce lo offre il titolo e la foto qui sotto.
Perché delle lezioni scolastiche sull’ebraismo? Per via dell’antisemitismo, si dice. Quello di mettere tutta la saliera nella minestra è un vecchio vizio. Si può accusare l’Italia di essere razzista, ma non antisemita (salvo qualche frangia di basso spessore politico che plasma un immaginario putrido di “purificazione”). Al contrario, in Italia esiste un generale e distinto sentimento filosemita e, salendo i gradini della buona società, anche filosionista.
Detto in numeri: gli ebrei nostrani sono meno di 30.000, gli islamici sono circa 1,6-1,7 milioni, pari a oltre il 30% della popolazione straniera totale, e il sentimento antislamico è sicuramente molto più diffuso rispetto all’antisemitismo, e non perché si è letto il Corano scoprendolo letterariamente poco attrattivo. Poi, presi singolarmente, siamo quasi tutti propensi a considerare che ogni individuo, qualunque sia la sua origine, meriti di essere difeso, ascoltato e, se necessario, sostenuto. In fondo siamo un Paese di cattolici apostolici.
Ad ogni modo, chiedo: accusare qualsiasi azione politica che perseguiti e uccida le minoranze, nel caso specifico i palestinesi da parte lo Stato d’Israele e del suo esercito, è antisemitismo? Opporsi alla dottrina coloniale del sionismo e sostenere che gli ebrei che occupano le terre palestinesi e praticano l’apartheid sono dei razzisti suprematisti, è antisemitismo?
Lo strumento principale utilizzato oggi per delegittimare e mettere a tacere le critiche a Israele è la definizione di antisemitismo dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), che afferma che l’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Questa definizione, di una organizzazione un tantino di parte, viene utilizzata ufficialmente, anche in ambito istituzionale UE, per censurare i difensori dei diritti dei palestinesi e ostacolare la libertà di espressione (non è qui il caso di tirarla per le lunghe, ma potrei dimostrarlo documentazione alla mano).
Hannah Arendt, filosofa ebrea, fu una delle prime persone ad affermare, in relazione a quanto accaduto durante il nazismo e oltre, che il male non nasceva dall’odio, ma dall’obbedienza cieca al sistema. Sono d’accordo e allungando di molto il discorso si potrebbe arrivare a chiedersi da dove e come nasca l’obbedienza cieca al sistema.
Esistono anche ebrei antisionisti che fanno proprie le stesse accuse di apartheid e ora di genocidio. Antisemiti anche loro? Non va dimenticato (e ne ho già scritto) che in origine il movimento sionista in Europa incontrò una forte opposizione all’interno delle comunità ebraiche stesse, dove molti lo percepivano principalmente come una minaccia per gli ebrei.
L’accusa di antisemitismo è diventata un’arma in mano a Israele e al sionismo, un loro simbolo di immunità morale e uno strumento politico di dominio. Con il pretesto di “proteggere” gli ebrei, le potenze occidentali hanno santificato dal secondo dopoguerra ad oggi i crimini di Israele mettendo a tacere ogni critica legittima.
Se si danno lezioni scolastiche sull’ebraismo, non vedo perché non impartirle anche sull’islamismo? Meglio ancora si potrebbe sostituire l’anacronistica ora di religione cattolica con la storia delle religioni. Ma non vorrei spingermi troppo oltre, del resto siamo solo nel XXI secolo, e comunque penso sia impossibile insegnare nelle scuole italiane, seriamente e senza sconti, storia delle religioni senza che si scatenino sparatorie furibonde tra gli alunni e specialmente tra i loro rispettivi genitori.
La frase latina De mortuis nil nisi bene guida il tono e lo stile delle notizie, e vale anche per quella riguardante un criminale di guerra che non è mai stato condannato: Dick Cheney. È morto lunedì ed è considerato il vicepresidente più potente della storia degli Stati Uniti e, soprattutto, la mente dietro la guerra contro l’Iraq del 2003, giustificata da menzogne che hanno causato centinaia di migliaia di vittime.
Quando le azioni di un politico non possono essere difese apertamente perché un residuo di etica lo impedirebbe, ecco che trattandosi di un vicepresidente degli Usa si ricorre alla falsificazione deliberata. Come fa il quotidiano più sionista d’Europa, che ritrae Cheney quale «principale artefice della “guerra al terrore”, che ha contribuito a guidare il Paese nella sfortunata guerra in Iraq basandosi su presupposti errati».
Non sulla base di deliberate falsificazioni e menzogne, bensì una guerra “sfortunata” basata su “presupposti errati”. Come quella di Hitler, del resto. O come quella in Vietnam e così come tante altre guerre. Il Corriere se la cava dicendo che «spetterà agli storici il giudizio sulla sua parabola politica», come se il ruolo avuto da Cheney fosse stato quello di un sottosegretario al turismo.
Le devastazioni, la sofferenza e la morte causate dalla “Guerra al Terrore”, da lui in gran parte orchestrata, non vengono ovviamente mai menzionate da nessuno dei giornali, nemmeno di sfuggita (secondo uno studio della Brown University, tra i 4,5 e i 4,7 milioni di persone sono morte nelle guerre successive all’11 settembre). Ben più importante è il ruolo di Cheney come statista anziano, lungimirante e critico nei confronti del presidente degli Stati Uniti in carica. Insomma, alla fine è uno che ha combattuto contro Donald Trump.
La meravigliosa catastrofe continua, ancora e ancora, inesorabilmente, ogni giorno davanti a un pubblico esaurito che, spesso indifferente, sbadiglia e sonnecchia, accasciato in una morbida indifferenza e intrappolato negli schermi, imbrogliato come si farebbe con dei bambini. Ma non per questo un pubblico innocente.