mercoledì 3 settembre 2025

In guerra come si può

Laminatoio presso l’acciaieria di Magnitogorsk, 10 giugno 2025.

Siamo passati da: “la Russia fallirà domani”, al nuovo dogma: “il drago cinese s’inchiappetta l’orso russo”. Come in tutte le cose di questo mondo, che non sono mai semplici e lineari, sarchiando in questo nuovo terreno dogmatico si può trovare uno strato di verità.

È un fatto che la Russia dipende dalle sue esportazioni di idrocarburi, come un Kuwait qualsiasi, o quasi. Così come l’Italia dipende dalle sue esportazioni meccaniche, agro-alimentari, della moda, quindi dal turismo e altro. In modo non molto dissimile anche la Francia campa così. Gli Stati Uniti fanno eccezione: detengono il monopolio della moneta di scambio internazionale, di internet e dell’ideologia dominante.

La Russia, al contrario per esempio dell’Italia e della Francia, e al momento anche degli Stati Uniti, è un paese in guerra da tre anni e mezzo. È leader mondiale nell’esportazione e nella produzione di gas naturale e petrolio, possiede anche giacimenti di carbone, metalli e altre materie prime; tuttavia, essendo sottoposta a sanzioni economiche e finanziarie da parte dal suo tradizionale nemico, gli Stati Uniti, e dunque anche da parte dei satelliti di Washington, si trova a dover fronteggiare una situazione non facile per la sua economia: la crescita sta rallentando e il deficit di bilancio è in aumento.

A luglio, il Fondo Monetario Internazionale ha ridotto le previsioni di crescita del Paese dall’1,5% allo 0,9% per il 2025. Si tratta di un dato ben lontano dagli sbalorditivi tassi di crescita del 4% raggiunti nel 2023 e nel 2024, quando lo Stato aveva dedicato tutte le sue risorse finanziarie alla guerra (Le Monde).

Per la zona euro, la crescita prevista è dello 0,9%, anch’essa simile a quella del 2024 e a quella prevista per quest’anno in Russia. Quella dell’Italia si aggira generalmente attorno allo 0,5% - 0,7% (stima Istat e FMI), ma è noto che l’Italia è in guerra dal 1940.

Nel 2021, prima dell’escalation del conflitto tra Russia e Ucraina, la Russia ha importato 821 prodotti a duplice uso dai paesi che hanno imposto le sanzioni, 403 dei quali provenivano principalmente dall’Unione Europea. Questo elenco includeva beni di consumo come droni, prodotti intermedi come microprocessori e apparecchiature avanzate come termocamere e sistemi radar. Le importazioni russe di questi prodotti erano concentrate principalmente nei settori dei macchinari, della chimica e dei metalli.

Più in generale, nel 2021, l’Unione Europea (fornitore essenziale) e la Cina erano i due principali fornitori di beni a duplice uso alla Russia in ciascun settore. Con la guerra e le sanzioni a chi altri poteva rivolgersi Mosca se non ai Paesi che non le sono ostili?

Innanzitutto un dato, tenendo sempre conto che la Russia è un paese in guerra non solo contro l’Ucraina, cosa di non molto conto, ma con l’intera Alleanza Atlantica: le importazioni russe di questi prodotti a duplice uso sono aumentate fortemente tra il 2021 e il 2023, passando da 37,8 miliardi di dollari a 52,9 miliardi di dollari, con un incremento del 40%.

Non solo i prodotti a duplice uso sono particolarmente colpiti dalle restrizioni all’esportazione, ma le sanzioni finanziarie hanno reso più complessi gli scambi commerciali con l'Unione Europea in generale. Pertanto, le importazioni russe di prodotti a duplice uso dall’Unione non sono cessate del tutto, ma sono diminuite del 35% tra il 2021 e il 2023. Di fronte a questo shock, la Russia ha dovuto adeguare le proprie importazioni, rendendole più concentrate e quindi più dipendenti dai suoi nuovi fornitori.

Le importazioni dall’Unione Europea, che rappresentavano il 42% delle importazioni russe di beni a duplice uso prima della guerra, sono state sostituite da quelle provenienti da altri paesi (Cina, Turchia, ecc.). Pertanto, la quota delle importazioni russe di tali beni dalla Cina è più che raddoppiata, passando dal 30,2% nel 2021 al 66% nel 2023.

Oggi, le importazioni russe di beni a duplice uso dipendono quindi principalmente dalle forniture cinesi. E però c’è un altro dato di cui tener conto: a causa del calo delle importazioni di veicoli in Russia (saturazione del mercato) e del calo delle esportazioni di petrolio in Cina, i volumi degli scambi commerciali sono diminuiti dell’8,1% su base annua tra gennaio e luglio 2025, secondo i dati doganali cinesi pubblicati la scorsa settimana. Questi cali sono stati compensati da un forte incremento delle esportazioni russe di alluminio, rame e nichel.

Sebbene ridotte, le quote di altri fornitori come Turchia e Hong Kong sono aumentate considerevolmente dall’inizio della guerra, passando rispettivamente dall’1,78% e dal 2,8% nel 2021 al 4,8% e al 4,2% nel 2023. Percentuali comunque assai basse.

È dunque questa la situazione che evoca gridolini orgiastici presso i nostri soliti maître à penser della fellatio liberista. Con un’economia circa nove volte più grande di quella russa, non ci sono dubbi su chi domini le relazioni Russia-Cina, cosa che Mosca riconosce. Tra non molto ci sarà da considerare chi domina l’economia europea!

Questo riorientamento delle forniture di beni a duplice uso dimostra invece la capacità della Russia di adattarsi utilizzando nuove reti per aggirare le restrizioni commerciali. Va inoltre tenuto conto che l’aumento del valore delle importazioni russe potrebbe derivare da un aumento dei prezzi dei beni importati, e dunque per distinguere tra effetti di prezzo e quantità è necessario calcolare un tasso di compensazione per ciascun prodotto a duplice uso.

Questo tasso confronta la riduzione delle importazioni dai paesi che impongono sanzioni con l’aumento delle importazioni da altri paesi. Nel 2021, dei 600 prodotti importati principalmente dai paesi che impongono sanzioni alla Russia, 474 hanno visto il loro commercio diminuire (qualcuno in Italia se n’è accorto). Di questi, 154 sono stati interamente compensati da paesi che non hanno partecipato alle sanzioni, di cui 64 esclusivamente dalle esportazioni cinesi.

Settori strategici come i reattori nucleari, i macchinari e le apparecchiature elettriche e gli strumenti ottici mostrano tassi di compensazione particolarmente elevati: oltre un terzo delle forniture russe è stato completamente compensato in questi tre settori.

Sorprendentemente, nonostante l’attenzione prestata dai paesi occidentali alla cinquantina di prodotti utilizzati dall’esercito russo sul campo di battaglia in Ucraina, solo 31 hanno registrato un calo dei loro volumi di esportazione dai paesi che hanno imposto sanzioni. Di questi prodotti, 18 sono stati completamente compensati da altri paesi.

L’imposizione di restrizioni all’esportazione da parte dell’Unione Europea e di altri fornitori russi ha portato allo sviluppo di flussi commerciali volti ad aggirare il regime sanzionatorio. Alcuni paesi come Turchia, Armenia e Azerbaigian hanno consentito la spedizione di prodotti a duplice uso provenienti da paesi che applicano sanzioni sul mercato russo.

Per esempio gli ausili alla radionavigazione, un prodotto a duplice uso con numerose applicazioni militari, è emblematico. Mentre le esportazioni turche di questo prodotto verso la Russia erano quasi nulle prima della guerra, sono aumentate esponenzialmente (del 936%) a partire dal 2023, in concomitanza con un aumento delle importazioni turche dai paesi che impongono sanzioni.

Questo fenomeno è lungi dall’essere limitato a pochi casi aneddotici. Se consideriamo come riesportato un prodotto il cui aumento delle esportazioni verso la Russia rappresenta almeno la metà dell’aumento delle importazioni dai paesi che impongono sanzioni, quasi un quarto delle esportazioni turche verso la Russia è costituito da prodotti riesportati. Questa quota è significativa anche per altri paesi come Armenia (90%), Uzbekistan (74%) e Azerbaigian (66%).

Le sanzioni occidentali hanno tuttavia raggiunto un loro obiettivo, rendendo l’approvvigionamento dalla Russia non solo più difficile ma anche a volte più costoso e in certi casi anche di qualità inferiore. In guerra ci si arrangia come si può.

La soluzione di ogni problema

 

Ci sono due modi d’approcciare le innovazioni tecnologiche: abbracciarle con tutto il cuore o impuntarsi con tutte le proprie forze per illudersi di restarne fuori. Quindi, alcuni di noi le guarderanno per il resto della vita come fossero degli idioti davanti a un video su TikTok, e altri invece preferiranno stracciare la propria carta di credito piuttosto che abbonarsi a Netflix e simili.

C’è anche una terza opzione, più sfumata, di compromesso e più facile a dirsi che a farsi: sfruttare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie cercando, per quanto possibile, di non diventarne degli schiavi compulsivi.

Ci sarà sicuramente qualcuno (io, per esempio) che si rifiuta di rinunciare al proprio telefono fisso (finché dura il collegamento col Kremlino), pur maneggiando da mane a sera il cellulare. Ci viene chiesto lo spid o simili per tutte le nostre procedure amministrative (per sapere in tempo reale il pH delle mie urine, per esempio). Alcuni, specie i molto anziani, non ne capiscono niente e non hanno nemmeno un computer? Non è un problema in capo a chi decide di queste cose, è un problema che ricade sugli anziani stessi e preferibilmente sui loro congiunti più giovani (ne siamo entusiasti).

La tecnologia digitale si è insinuata furtivamente, peggio di un’invasione di cimici, e quel che è peggio è che, per quanto tu ti impegni, arriverà inevitabilmente il giorno in cui dovrai cedere a un corriere troppo zelante che ti chiederà un selfie per consegnarti un pacco raccomandato.

Certo, il digitale è fantastico, cambia la vita, e poi Amazon è davvero pratico, no? Acquisto un libro usato da un libraio di Vattelapesca e due giorni dopo lo sto già leggendo. E poi ancora più fantastica è arrivata l’intelligenza artificiale. A differenza di Internet, che ha lasciato il segno lentamente ma inesorabilmente, l’intelligenza artificiale, per chi se ne intende, è arrivata nelle nostre vite con la potenza di un bulldozer.

In uno schiocco di dita, le élite tecnologiche sono riuscite a diffondere la loro nuova creatura in tutto il pianeta. E come possiamo evitare qualcosa che ci viene imposto ovunque? Nei chatbot, sui social network, a scuola, nelle aziende. Su Google, che sorpresa. Digiti qualunque cosa, per esempio: “come si stura un lavandino?”, ed ecco che t’arriva la voce di un idraulico. Anche lui lavora in nero come un idraulico umano.

Ieri ho chiesto una cosa sulla rivoluzione francese e subito Google mi ha servito una torta Marie-Antoinette alla crema chantilly guarnita di bignè. È impossibile sfuggire a qualcosa che i geni del business si sono affrettati a etichettare come una “soluzione”. Soluzione a che cosa? A tutto, ovviamente! Riscaldamento globale? L’intelligenza artificiale troverà la soluzione. Ho cercato: “legislazione sulle successioni ereditarie rivoluzione francese”. Risultato: tutto apparentemente giusto, per chi si accontenta. Però parla di “libertà di testamento” e altri truismi. Col cavolo. Ho dovuto fare da me (*).

Solitudine? Basta parlare con un’intelligenza artificiale, come quel tizio nella telenovela Un posto al sole (questa mi è stata raccontata lunedì sera!). Quello che originariamente doveva essere solo uno strumento e un valido aiuto per determinati compiti si è rapidamente trasformato in un fine in sé. I geni che ci hanno venduto questo progresso sono, ovviamente, gli stessi che ignorano il danno ecologico, psicologico e molto altro ancora.

Ovviamente non parlano dei disturbi psicologici indotti da ChatGPT e simili, che hanno già causato anche dei suicidi, e ancor meno della standardizzazione del pensiero delle giovani generazioni e di quelle future, incapaci di formulare altro nella loro testa se non una domanda. Il tempo lo confermerà, abbiamo affrontato il problema dalla prospettiva sbagliata: l’intelligenza artificiale non è una soluzione, ma piuttosto l’inizio dei problemi.

(*) «I rivoluzionari non dimostrarono molta simpatia per la libertà di fare testamento. Mirabeau si oppose inutilmente al mantenimento dei testamenti e non riuscì ad ottenere la loro soppressione. Mirabeau considerava anormale che un uomo potesse disporre dei suoi beni dopo la morte, un figliol prodigo dissipato. Robespierre condivideva il suo punto di vista. La Convenzione lo seguì, considerano non valide le clausole imperative o proibitive dei testamenti, soppresse la facoltà di fare testamento, tranne per somme irrisorie e destinate a persone non appartenenti alla famiglia dell’autore del testamento» (Dizionario storico della Rivoluzione francese, Ponte alle Grazie, p. 899).

«La Costituente sopprime il sistema familiare dell’ancien régime e decide che tutti gli eredi dello stesso grado avranno lo stesso diritto di successione, abolendo così il diritto di primogenitura e concedendo ai bastardi riconosciuti dai genitori il diritto di ottenere la loro parte di eredità. Le sostituzioni e i maggioraschi sono soppressi e le donazioni tra vivi limitate. Il diritto di testamento è riservato ai non eredi, e limitato a somme irrisorie. La legislazione rivoluzionaria mirava così a spezzettare la proprietà e a pareggiare il più possibile i redditi» (ibidem, p. 888).

Vedi anche qua.

martedì 2 settembre 2025

Quando la Russia fallirà


Ci è stato raccontato che la Russia era prossima al default nel 2023, poi nel 2024 e ancora nel 2025. Sicuramente lo sarà nel 2026, o al più tardi nel 2027. Del resto anche Putin è moribondo a causa delle più svariate e gravi patologie. Con questo non voglio dire che Mosca se la passi bene.

Qualcuno che crede di essere spiritoso e di sapere come funziona il capitalismo, sostiene che per mettere in ginocchio la Russia è sufficiente tagliargli le esportazioni di idrocarburi. Anche dei carboidrati, soggiungo.

A chi vende Mosca il proprio gas e petrolio? Praticamente a tutti, anche all’Italia, ma specialmente Francia, Spagna e Belgio. Che magari poi riesportano in Germania. Non è da escludere che a Bruxelles si scaldino in parte col gas russo.

Abbiamo presente quell’oca starnazzante di Macron, che vuole inviare truppe europee a morire per Zelenskyj? Almeno fino all’inizio di quest’anno la Francia era il maggior importatore europeo di gas naturale liquefatto (GNL) russo, per un valore di 2,68 miliardi di dollari.

Secondo i dati del Centro per la ricerca sull’energia e l’aria pulita (CREA), al 29 maggio 2025 la Russia aveva generato oltre 883 miliardi di euro in esportazioni di combustibili fossili dall’inizio della guerra, di cui 209 miliardi di euro provenienti dagli Stati membri dell’UE.

Da quando l’Ucraina ha sospeso all’inizio di quest’anno il gasdotto Bratstvo, che riforniva l’Europa dalla Russia attraverso il territorio ucraino, l’Europa si è rivolta alla Turchia, con TurkStream, che attraversa il Mar Nero ed è operativo dal 2020. Nel periodo gennaio-febbraio 2025, le importazioni di gas russo in Europa, instradate attraverso la Turchia, sono aumentate del 26,77% rispetto al volume dell’anno scorso.

Oltre alle vendite dirette, la Russia può contare sui ricavi derivanti dalla raffinazione del petrolio: in Turchia e in India, le raffinerie lavorano il petrolio greggio russo sanzionato, a volte miscelato con petrolio proveniente da un’altra fonte, per rivenderlo ai paesi dell’UE. Una scappatoia che consente il riciclaggio di questo petrolio sanzionato da parte di un paese terzo.

La Francia è anche un importante consumatore di fertilizzanti russi. Dall’inizio del conflitto, le importazioni di questi fertilizzanti sono aumentate dell’86%, passando da 402.000 tonnellate nel 2021 a 750.000 nel 2023. L’agricoltura francese dipende dai fertilizzanti russi. Ma allora ci prendono in giro? Certo.

Una prova? Dal sito ufficiale dell’Unione Europea: «L’UE eliminerà gradualmente le importazioni di petrolio e gas dalla Russia entro la fine del 2027, in base a una proposta legislativa presentata oggi [giugno 2025] dalla Commissione europea». Quando i cosiddetti leader europei s’incontrano tra loro, si danno di gomito e ridono a crepapelle.

Mosca è il terzo produttore e il secondo esportatore di petrolio greggio al mondo. Vende soprattutto a Cina ed India, due potenze con una popolazione che assomma al 36% di quella mondiale. Un dato sul quale si riflette assai poco.

Un discorso a parte merita l’uranio, che vede protagoniste la Nigeria e la Georgia (ma guarda un po’). La Nigeria ha deciso di nazionalizzare l’estrazione dell’uranio del gruppo nucleare francese Orano, con evidente scorno della Francia e soddisfazione di Russia e Cina. La Georgia, che detiene alcune delle maggiori riserve di uranio della regione, ha annunciato ufficialmente la vendita delle sue riserve, in particolare alla Russia. C’è bisogno che a Tbilisi la gente scenda in piazza con le bandiere della UE.

E il debito pubblico russo? Il rapporto debito/PIL si aggirava intorno al 16-17% prima del 2022 e ha registrato una diminuzione fino al 16,4% nel 2024.

Quando si parla di debito pubblico, mi viene in mente quello italiano, ovviamente, ma anche quello statunitense non scherza. Nel mese di agosto, il debito pubblico degli Stati Uniti, in rapporto al PIL, ha superato il livello più alto raggiunto dall’inizio del XX secolo, considerando che nel 1945 era al 106% (Congressional Budget Office - CBO).

L’ammontare del debito americano oggi ammonta a più di 37.000 miliardi di dollari, ovvero il 130% del PIL. Solo dieci anni fa era circa la metà 18.176 miliardi di dollari, con un rapporto del 101,4%. Il governo degli Stati Uniti sta ora spendendo più per il pagamento degli interessi che per la difesa (la “difesa” più cospicua del mondo).

Queste cifre sono così enormi da essere vertiginose. Per darvi un’idea della situazione: ogni cinque mesi, gli Stati Uniti aumentano il loro debito di altri 1.000 miliardi di dollari; ogni anno, aggiungono due terzi del debito pubblico italiano, accumulato in cinquant’anni!

Scrive sempre il CBO, un ente indipendente: «Il debito pubblico, alimentato da ampi deficit, raggiungerà il livello più alto di sempre nel 2029 (misurato in percentuale del prodotto interno lordo) e continuerà a crescere, raggiungendo il 156% del PIL nel 2055. È destinato ad aumentare anche in seguito». Senza dire del debito privato ...

Quanto al deficit: «rimarrà elevato rispetto agli standard storici nei prossimi 30 anni, raggiungendo il 7,3% del PIL nel 2055».

È normale che un paese s’indebiti, soprattutto dopo una crisi economica o dopo una guerra. Ad esempio, dopo le guerre napoleoniche, il debito della Gran Bretagna era pari al 300% del suo PIL. Ma per un paese dove si prevede una crescita economica nei prossimi tre decenni più lenta rispetto a quella degli ultimi tre decenni, e con una crescita demografica che sarà più lenta nei prossimi 30 anni rispetto agli ultimi 30, più che della Russia mi occuperei della crisi americana.

Nei prossimi 25 anni, il principale fattore trainante dell’aumento della spesa federale a lungo termine sarà l’invecchiamento della popolazione americana, poiché il numero di persone di 65 anni o più aumenterà molto più rapidamente della popolazione in età lavorativa, determinando un aumento della spesa per i programmi per i pensionati. Mal comune mezzo gaudio dicono a Roma.

«Su base pro capite, il sistema sanitario statunitense è il più costoso tra gli altri paesi ricchi. Eppure, i risultati sanitari americani non sono generalmente migliori di quelli dei nostri pari e, in alcuni casi, sono peggiori, anche in ambiti come l’aspettativa di vita, la mortalità infantile, l’asma e il diabete.»

Notare che la spesa sanitaria italiana pro capite è inferiore alla media e appena superiore a quella coreana. 

domenica 31 agosto 2025

La Dichiarazione Balfour

 

Presumo naturalmente lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche pensare da sé. K. Marx

Sull’origine della famigerata dichiarazione Balfour si sono dette e scritte un’infinità di cose. Anch’io, nel 2019, ho trovato divertente raccontare in questo blog una vicenda che in qualche modo è attinente al caso ed è, indubbiamente, connotata di una sua verità storica; ma essa va presa con il beneficio d’inventario, così come tutta la storia che ci viene raccontata dai media a riguardo dell’ebraismo e del sionismo.

Ora, sulla vicenda della Dichiarazione Balfour di storia ne racconto qui un’altra. Ma prima penso siano necessarie una serie di premesse. La prima riguarda quella dell’idea di fondare uno Stato ebraico in Palestina. Un progetto che non si concretizzò, che sbocciò all’interno dei circoli coloniali europei molto tempo prima della nascita del movimento sionista alla fine del XIX secolo. Addirittura c’è chi anticipa tale idea al secolo XVIII, attribuendola a Napoleone Bonaparte (1).

Secondo documenti britannici risalenti al periodo in cui Lord Palmerston ricoprì la carica di segretario di Stato per gli Affari Esteri, questi aveva cominciato ad adottare esplicitamente l’idea di cui sto parlando, dopo che la pressione britannica ed europea era riuscita a costringere al ritiro dalla Grande Siria gli eserciti egiziani (1840). Ma non è mia intenzione di spingermi indietro in un tempo così remoto.

Lo scenario ideologico degli avvenimenti che seguono, è costituito dalla vecchia tradizione antisemita occidentale, che stabilirà immediatamente un accordo tra le mire degli Amanti di Sion, i sentimenti dello zar di tutte le Russia, soddisfattissimo della prospettiva di vedersi liberato dei suoi ebrei, e l’imperialismo britannico che bramava le spoglie dell’Impero ottomano.

C’era un posto dove le contraddizioni erano più acute che altrove: l’impero austroungarico, che riuniva nel suo territorio regioni economicamente arretrate appartenenti all’Europa orientale e regioni industrializzate dell’Europa occidentale. L’emigrazione degli ebrei avrà luogo all’inizio e principalmente all’interno dello stesso paese, una specie di esodo rurale.

L’ebreo dello Shtetl della Galizia, della Transilvania o della Rutenia subcarpatica approderà direttamente a Vienna. Come per caso, è proprio in questa città, vero nodo delle contraddizioni, che inizierà la rinascita dell’antisemitismo occidentale. È proprio in questa città, come per caso, che visse un certo Theodor Herzl.

Nacque così il sionismo, che fu fin dalla sua origine connotato di razzismo, come del resto denunciato da diverse votazioni all’ONU e all’UNESCO, in tal caso scatenando ipocrite doglianze nelle nazioni occidentali (vi dedicherò un post più avanti, parlando anche delle molte e gravi responsabilità della collaborazione sionisti-nazisti, e dunque cercando di ristabilire una verità deformata).

Il Programma di Basilea adottato al Primo Congresso Sionista, che diede il via al sionismo politico nel 1897, non fece alcun riferimento a una popolazione nativa palestinese quando espresse l’obiettivo del movimento: “la creazione di una patria pubblicamente e legalmente garantita in Palestina per il popolo ebraico”.

I sionisti avevano propalato la favola che la Palestina fosse “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, slogan coniato da Israel Zangwill, un importante scrittore anglo-ebreo spesso citato dalla stampa britannica come portavoce del sionismo e uno dei primi organizzatori del movimento sionista in Gran Bretagna.

Nel 1914, Chaim Weizmann, che sarebbe diventato il primo presidente di Israele e che, insieme a Theodor Herzl e David Ben-Gurion, fu uno dei tre uomini maggiormente responsabili della trasformazione del sogno sionista in realtà, affermò: «Nella sua fase iniziale, il sionismo fu concepito dai suoi pionieri come un movimento interamente dipendente da fattori meccanici: c’è un paese che si chiama Palestina, un paese senza popolo, e, d’altra parte, esiste il popolo ebraico, ma non ha paese. Cos’altro è necessario, allora, se non incastrare la gemma nell’anello, unire questo popolo a questo paese? I proprietari del paese [i turchi] devono, quindi, essere persuasi e convinti che questo matrimonio sia vantaggioso, non solo per il popolo [ebraico] e per il paese, ma anche per loro stessi.» (2)

Che la Palestina fosse un paese senza popolazione (90% arabi) risultò palesemente falso per tutti gli immigrati ebrei della prima aliyah (immigrazione) appena sbarcati in Palestina. Non solo la “terra”, anche la demografia fa parte della posta in gioco.

È interessante notare come Moshe Smilansky, scrittore sionista e poi leader laburista, in un suo racconto in ebraico, Rehovot 1891, che si riferisce proprio all’aliyah del 1881, riporta un dialogo avvenuto nel 1891 tra due pionieri di Hovevie Tzion (Amanti di Sion):

“I sionisti ci hanno mentito. Il paese è abitato dagli Arabi e poiché una stessa terra non può servire da patria a due popoli contemporaneamente, gli Amanti di Sion devono partire di qui e andare a cercarsi un’altra patria. Dovremmo andare a est, in Transgiordania. Sarebbe una prova per il nostro movimento”. “Sciocchezze ... non c’è abbastanza terra in Giudea e Galilea?”. “La terra in Giudea e Galilea è occupata dagli arabi”. Ribattuta: “Bene, gliela toglieremo”. Domanda: “Come?”. La risposta non si fece attendere: “Un rivoluzionario non fa domande ingenue”. (3)

A nulla varrà il grido del sionista francese Max Nordau rivolto ad Herzl: «Ma allora commettiamo un’ingiustizia!», quando scoprirà, con spavento, l’esistenza degli arabi nel paese che sognava vuoto.

Tuttavia, né Zangwill né Weizmann intendevano dire che non ci fosse un popolo in Palestina, ma che non c’era un popolo degno di essere considerato nel quadro delle nozioni di supremazia europea allora dominanti. A questo proposito, un commento di Weizmann ad Arthur Ruppin, capo del dipartimento di colonizzazione dell’Agenzia Ebraica, è particolarmente rivelatore. Alla domanda di Ruppin sugli arabi palestinesi, Weizmann rispose: «Gli inglesi ci hanno detto che ci sono alcune centinaia di migliaia di negri [Kushim] e per loro non c’è alcun valore.» (4)

Lo stesso Zangwill spiegò il vero significato del suo slogan con ammirevole chiarezza nel 1920: «Se Lord Shaftesbury è stato letteralmente inesatto nel descrivere la Palestina come un paese senza popolo, aveva sostanzialmente ragione, poiché non esiste un popolo arabo che viva in intima fusione con il paese, utilizzandone le risorse e imprimendogli un’impronta caratteristica: esiste al massimo un accampamento arabo.» (5)

Come si evince dai loro scritti, gli atteggiamenti prevalenti tra la maggior parte dei gruppi sionisti e dei coloni nei confronti della popolazione palestinese indigena andavano dall’indifferenza e dal disprezzo alla superiorità paternalistica. Un esempio tipico si può trovare proprie nelle opere del citato Smilansky: «Non abbiamo troppa familiarità con i fellahin arabi, affinché i nostri figli non adottino i loro costumi e imparino dalle loro brutte azioni. Che tutti coloro che sono leali alla Torah evitino la bruttezza e ciò che le assomiglia e mantengano le distanze dai fellahin e dai loro vili attributi.»

La Dichiarazione Balfour del novembre 1917, che garantiva il sostegno della Gran Bretagna alla creazione di un focolare nazionale ebraico in Palestina, migliorò drasticamente le prospettive degli ebrei in Palestina, soprattutto perché a quel punto era praticamente certo – data l’imminente conquista militare della Palestina da parte della Gran Bretagna e gli accordi già presi per la spartizione dell’Impero Ottomano tra le Grandi Potenze – che la Palestina sarebbe diventata un protettorato britannico.

Vediamo com’è formulata e chi e che cosa impegna la Dichiarazione Balfour, ricordando che all’epoca della Dichiarazione gli ebrei costituivano circa il 10% della popolazione della Palestina e possedevano circa il 2% del territorio.

Caro Lord Rothschild, ho il piacere di inviarvi, a nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni dell’ebraismo sionista, che è stata sottoposta e approvata dal Gabinetto.

“Il governo di Sua Maestà vede con favore l’insediamento in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e compirà i suoi sforzi per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaramente inteso che nulla sarà fatto che possa pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, né i diritti e lo status politico di cui godono gli ebrei in qualsiasi altro paese”.

Le sarò grato se vorrà portare questa dichiarazione a conoscenza della Federazione Sionista. Arthur James Balfour.

Ciò che colpisce innanzitutto alla lettura di questo testo è la sua brevità lapidaria. Tutti coloro che hanno sentito parlare di questa famosa dichiarazione sono portati a pensare che si tratti di un piano completo e coerente o quantomeno di una dichiarazione molto articolata. Grande è perciò la loro sorpresa nel constatarne la povertà.

Ma ancora più grande è la sorpresa quando si passa all’esame del testo ed all’analisi dei termini che lo costituiscono. Se si pensa che ciascuno dei termini di questa dichiarazione è stato pesato e soppesato con tanta cura, non si può fare a meno di meravigliarsi del fatto che quando i termini sono precisi sono del tutto impropri, e quando, viceversa, non lo sono, sono totalmente ambigui da prestarsi a qualsiasi interpretazione.

Mi limito qui a dare degli esempi di improprietà dei termini per spiegare cosa intendo per improprietà. Per indicare il 90% della popolazione della Palestina all’epoca della sua pubblicazione, il testo utilizza la perifrasi puramente negativa di: “comunità non ebraiche esistenti in Palestina”. Come se, al giorno d’oggi, volendo legiferare nell’ambito dei lavoratori immigrati, il governo di un paese qualsiasi si mettesse a parlare della propria popolazione nazionale o comunque autoctona come di “popolazione non immigrata”.

Non c’è nulla di ambiguo, al contrario. Il partito preso a favore degli uni (i sionisti) ed a scapito degli altri (le popolazioni locali) è flagrante. Non si presta ad alcuna ambiguità l’adozione della terminologia (e, di conseguenza, dell’ideologia) sionista, del “popolo ebraico”. Soltanto per l’ideologia sionista esiste un popolo ebraico (e vale la pena di leggere i libri dello storico israeliano Shlomo Sand). In epoca non troppo lontana, il Dipartimento di Stato americano in una lettera al Consiglio americano per il Giudaismo del 20 aprile 1964, lo disse esplicitamente: «Di conseguenza dovrebbe essere chiaro che il Dipartimento di Stato non considera il concetto di popolo ebraico come un concetto di diritto internazionale.»

Se in merito a questa espressione di “popolo ebraico” il testo è chiaro, per tutto il resto esso è di un’ambiguità tale da aprire la porta a tutte le interpretazioni. Per esempio, che dire di “un focolare nazionale”? Qual è esattamente l’impegno della Gran Bretagna, nel promettere di favorire l’insediamento in Palestina di “un focolare nazionale” per il popolo ebraico? Nessuno può dirlo con precisione perché questo termine è stato usato a bella posta in quanto era ambiguo e perché lasciava la porta aperta a tutte le interpretazioni.

Questo documento, di Balfour ha soltanto il suo nome perché costui non ha fatto altro che firmare una dichiarazione preparata da ben altre mani. Infatti, la brutta copia di questa lettera ha circolato per 18 mesi da una riva all’altra dell’Atlantico, facendo la spola tra Londra e Washington. I veri autori sono un gruppo di ebrei sionisti di Londra, facenti capo a Chaim Weizmann. Questa minuta del documento è stata sottoposta sia al gabinetto che alla casa bianca dove il famoso colonnello House serviva da intermediario con il presidente Wilson.

La Dichiarazione Balfour cominciò ad essere usata in una piega più pragmatica e meno visionaria alla Conferenza di Pace di Parigi del 1919, che doveva disporre dei territori conquistati agli Asburgo e agli Ottomani sconfitti durante la guerra. Chaim Weizmann, a capo della Commissione Sionista, chiese l’imposizione di un Mandato britannico su una Palestina che si estendesse a nord fino al fiume Litani, in quello che oggi è il Libano, e a est fino alla linea ferroviaria dell’Hijaz, ben a est del fiume Giordano. Chiese una Palestina “tanto ebraica quanto l’Inghilterra è Inglese”.

Sebbene il trasferimento o l’espulsione della popolazione nativa sia implicito in tale visione, essa rimase taciuta nelle deliberazioni ufficiali della conferenza. Ma un altro membro della Commissione Sionista, Aaron Aaronsohn (di cui ho trattato in un post precedente) ne parlò nei corridoi della conferenza. Aaronsohn, un agronomo, era membro dell’Esecutivo Sionista e direttore della Palestine Land Development Company (in ebraico, Hevrat Hachsharat Hayishuv).

Mentre lavorava per l’intelligence britannica, Aaronsohn durante la guerra aveva scritto sul settimanale di intelligence Arab Bulletin della necessità di “allontanare con la forza” i mezzadri arabi dalle terre da acquistare dai proprietari terrieri arabi assenti per la colonizzazione sionista.

L’amico di Aaronsohn, William K. Bullitt, membro della missione statunitense alla Conferenza di Pace di Parigi, ricordò in seguito: “Molte volte durante la Conferenza di Pace di Parigi mi sono unito a lui [cioè Aaronsohn] e al Dr. Weizmann mentre entrambi stavano valutando politiche e piani. La proposta di Aaronsohn era la seguente: mentre la Palestina doveva essere trasformata in uno Stato ebraico, la vasta valle dell’Iraq doveva essere restaurata attraverso l’irrigazione pianificata, per diventare il paradiso del mondo [...] e inoltre agli arabi di Palestina dovevano essere offerte delle terre [...] verso le quali il maggior numero possibile di arabi avrebbe dovuto essere convinto a emigrare.

Le manifestazioni contro l’immigrazione ebraica iniziate nei primi anni Venti, spazzarono via ogni illusione rimasta sulla facilità di risolvere il “problema arabo”. La cautela nelle dichiarazioni pubbliche era quindi essenziale, non solo per non inimicarsi gli altri Paesi arabi, ma anche per riguardo alla sensibilità dell’opinione pubblica britannica e internazionale nei confronti della gestione del “problema arabo”; dopotutto, oltre a promettere una patria nazionale agli ebrei, la Dichiarazione Balfour aveva promesso di non pregiudicare i diritti delle “comunità non ebraiche esistenti in Palestina”.

Pertanto, ciò che sta facendo oggi Benjamin Netanyahu (e i suoi predecessori) non dipende dalle pressioni dell’estrema destra israeliana, ma riguarda gli scopi fondamentali del sionismo e della presenza degli ebrei in Palestina. E ciò conferma anche quanto ho scritto da tempo a riguardo di tali scopi, ovvero la costruzione della Grande Israele. E dunque non è avventato anche ciò che ho scritto a riguardo del fatto che l’espansione israeliana non si fermerà con la Palestina. De te fabula narratur.

(1) Ipotesi contestata dagli storici, se non altro per il fatto che la comunità ebraica in Francia, all’epoca, contava poche migliaia di persone e non era in grado di garantire le necessarie risorse umane per una simile impresa e non si poteva ancora parlare della formazione di una coscienza nazionale ebraica alla fine del XVIII secolo. Inoltre, momento dell’entrata del suo esercito in Palestina, Napoleone non aveva nessun interesse particolare a guadagnare il favore degli ebrei della zona, peraltro pochissimi, che stavano dalla parte del governatore di Acri, città che Napoleone assediò invano.

(2) Theodor Herzl si era già mosso in questo senso. Nel giugno 1896 fece la prima visita ad Istanbul. Incontrando il figlio del gran visir, Cavid Bey, egli presentò il progetto sionista, ma il responsabile turco espresse la propria opposizione all’insediamento ebraico in Palestina. Herzl cercò di impegnarsi in prima persona nella questione armena per

convincere il sultano “che gli ebrei hanno un ruolo attivo nelle politiche locali e internazionali”, e che sono capaci di “convincere i leader armeni a fermare la sollevazione contro il sultano”.

Dopo il fallimento di questo tentativo, sottopose al sultano un’offerta allettante, che includeva il pagamento di “20 milioni di lire turche”, di cui “2 milioni in cambio della Palestina [...] e con i 18 milioni restanti la Turchia sarà liberata dal mandato di protezione europeo”. Nel 1898, Herzl, profittando della visita del Kaiser tedesco a Istanbul e poi a Gerusalemme, cercò di ottenere il favore del governo tedesco, in ottimi rapporti con quello ottomano, affinché appoggiasse il progetto sionista: “Del quale beneficeranno non solo gli ebrei, ma anche la Germania, che potrà allungare la mano in oriente, economicamente, politicamente e militarmente, diventando la protettrice degli ebrei”. Nuovo fallimento dell’iniziativa sionista.

Nel maggio 1901, Herzl si recò a Istanbul per la terza volta e riuscì a incontrare il sultano Abd al-Hamid, che aveva accettato di riceverlo “in qualità di importante giornalista ebreo e non nella sua veste di capo dell’Organizzazione sionista mondiale”. Herzl fece notare che gli aiuti economici offerti dagli ebrei, “un milione e mezzo di sterline”, avrebbe potuto liquidare i debiti dello Stato ottomano, e si offrì inoltre di mediare per la cessazione delle campagne dei giornali del comitato dei “Giovani turchi” in Europa contro il sultano.

Abd al-Hamid rifiutò la proposta di fondare uno Stato ebraico in Palestina, ma accettò “un’immigrazione ebraica in Asia minore e nei paesi tra i due fiumi (Iraq), in cambio del pagamento dei debiti contratti dallo Stato ottomano”.

Nel febbraio 1902, Herzl compì la sua quarta visita a Istanbul: questa volta non incontrò il sultano, ma solo alcuni suoi consiglieri, i quali affermarono che “sarebbe stato lo Stato ottomano a stabilire le zone dove gli ebrei potevano abitare, come l’Iraq e l’Asia minore, ma non la Palestina”. Nello stesso anno fece una quinta e ultima visita a Istanbul, durante la quale incontrò il gran visir Said Pascià, senza però ottenere alcun risultato significativo.

(3) Moshe Smilansky, prozio del noto scrittore Yizhar Smilansky, in realtà si stabilì in Palestina e divenne in seguito fautore della creazione di uno stato arabo-ebraico presso la Commissione d’inchiesta anglo-americana. Il sionismo, in origine, ebbe diverse “anime”.

(4) Verbale del discorso di Ruppin alla riunione del Comitato Esecutivo dell’Agenzia Ebraica, 20 maggio 1936, in La lotta per lo Stato: la politica sionista 1936–1948, Gerusalemme, 1984, p. 140.

(5) Nonostante tali affermazioni, tuttavia, i sionisti fin dall’inizio erano ben consapevoli che non solo c’era una popolazione sul territorio, ma che era presente in gran numero. Zangwill, che aveva visitato la Palestina nel 1897 e si era scontrato con la realtà demografica, riconobbe nel 1905, in un discorso a un gruppo sionista a Manchester, che «la Palestina vera e propria ha già i suoi abitanti. Il pashalik [o pascialato] di Gerusalemme è già due volte più densamente popolato degli Stati Uniti, con cinquantadue anime per miglio quadrato, e gli ebrei non sono nemmeno il 25%». Israel Zangwill fu uno dei più convinti sostenitori del trasferimento della popolazione nativa fuori dalla Palestina. Zangwill rimase fermo su questa idea negli anni successivi, formulando le sue argomentazioni a favore del trasferimento in termini pragmatici e geopolitici. In una conversazione durante l’estate del 1916 con Vladimir Jabotinsky (che in seguito fondò il Sionismo Revisionista, precursore dell’attuale Likud), Zangwill sostenne che l’allontanamento degli arabi dalla Palestina per far posto all’insediamento delle masse ebraiche europee fosse una precondizione per la realizzazione del sionismo. Quando Jabotinsky sottolineò che gli arabi non avrebbero mai abbandonato volontariamente la loro terra natale, Zangwill replicò che l’impresa sionista avrebbe dovuto essere parte di un nuovo ordine mondiale in cui non ci sarebbe stato spazio per discussioni sentimentali.

sabato 30 agosto 2025

Le illusioni dei "pacifisti"

 

Si sta preparando uno spettacolo pirotecnico. Tra pochi giorni, circa quindici altri paesi, tra i quali Regno Unito, Francia, Malta, Canada e Australia riconosceranno lo Stato palestinese davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Evviva! Non resta che stabilire in quale forma, con chi, su quale territorio, a quali condizioni e da quando è ipotizzabile che possa effettivamente vedere la luce lo Stato palestinese. Un’inezia.

Ora sono 147 su 193 i Paesi membri delle Nazioni Unite che riconoscono lo Stato di Palestina. Tra questi non c’è l’Italia, quella governata per tanti anni dalla “sinistra”. Un po’ meglio ha fatto l’Italia governata dai fascisti, che si è astenuta l’anno scorso quando l’Assemblea Onu ha votato una risoluzione affermando che la Palestina è “qualificata a diventare Stato membro”. Tuttavia Meloni ha definito “prematuro” e “controproducente” riconoscere la Palestina.

L’amministrazione statunitense ha annunciato che negherà e revocherà i visti ai membri dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e dell’Autorità palestinese (ANP) prima dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA) a settembre.

L’annuncio è stato fatto in una dichiarazione rilasciata ieri dal Dipartimento di Stato americano che ha inoltre accusato l’Autorità Palestinese di “tentativi di aggirare i negoziati” facendo appello alla Corte penale internazionale e alla Corte internazionale di giustizia per le stragi israeliane commesse sia nella Cisgiordania occupata sia durante la guerra di Israele a Gaza.

Quando le Nazioni Unite furono fondate nel 1947 e la loro sede centrale fu stabilita a New York, si concordò che, di fatto, le politiche sull’immigrazione degli Stati Uniti non avrebbero avuto alcun impatto su chi desiderava recarsi all’ONU per motivi ufficiali. Per esempio, ciò spiega il motivo per il quale Fidel Castro partecipò alle riunioni dell’assemblea a New York.

Anche in passato gli Stati Uniti hanno negato i visti ad alcuni funzionari, tra cui il rifiuto all’allora presidente dell’OLP Yasser Arafat di essere presente presso la sede delle Nazioni Unite nel 1988, spingendo l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a tenersi invece a Ginevra, in Svizzera, quell’anno. In quell’occasione, Arafat fece appello per la preparazione di una conferenza internazionale di pace in Medioriente, aprendo al riconoscimento d’Israele.

S’illudeva a proposito del progetto sionista. Grave errore quello di Arafat di riconoscere, nel 1993, lo Stato sionista, rinunciando a contrastare l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Fu uno dei motivi della trasformazione dell’islam tradizionalista in islam jihadista, che già aveva preso piede dopo che in Egitto aveva preso il potere Anwar al- Sadat (1971), il quale, oltre che riconoscere Israele, favorì i Fratelli musulmani per indebolire l’OLP .

Più di recente, gli Stati Uniti hanno negato il visto a Omar al-Bashir, allora capo di Stato del Sudan, per partecipare all’incontro nel 2013. Il motivo è che era ricercato dalla Corte penale internazionale.

Anche quella canaglia di Benjamin Netanyahu è ricercato dalla Corte Penale Internazionale. Tuttavia, si prevede che sarà a New York il mese prossimo.