martedì 11 novembre 2025

C’è bisogno di ben altro

 

Nel XVIII e XIX secolo, l’Europa conobbe uno sviluppo senza precedenti grazie all’ascesa del capitalismo. A ciò si aggiunse un ulteriore affinamento del concetto di progresso. L’idea che lo sviluppo dell’umanità progredisse non era semplicemente concepita come un’inevitabile sequenza graduale, ma si presumeva che questo processo realizzasse una predisposizione originaria dell’umanità.

Questa visione era spesso legata a una teleologia, ovvero al presupposto di un obiettivo predeterminato dello sviluppo, solitamente concepito come un processo di perfezionamento (l’influenza del cristianesimo non si può escludere, ma non fu comunque decisiva). Un approccio più appropriato di questa visione deterministica assolutizzata è quello di partire dalla premessa di condizioni concrete e sostanziali dei processi storici, di campi di possibilità e di una moltitudine di fattori condizionanti. Discorso troppo ampio da fare qui.

Karl Marx presupponeva “fasi naturali di sviluppo” che non potevano “né essere saltate né eliminate per decreto”. Allo stesso tempo, Marx ed Engels contrastavano una filosofia della storia deterministica, poiché le astrazioni (della storia) non forniscono affatto “una ricetta o uno schema secondo cui le epoche storiche possano essere accuratamente delimitate”.

Ciononostante, all’interno del movimento operaio e nell’intellighenzia (sia riformista che rivoluzionaria) si diffuse una nozione deterministica di una successione graduale e progressiva di formazioni sociali. Non c’è nulla che abbia illuso quanto la convinzione di seguire la corrente. Lo sviluppo tecnologico era visto come il gradiente della corrente con cui si pensava di seguire il corso delle cose.

È un errore, pur nella mutata situazione, in cui si tende ad incorrere anche oggi nella cieca fiducia nella tecnologia e i suoi “miracoli”. Un errore antico quello delle utopie del progresso, che ci ha condotto non di rado sull’orlo dell’abisso.

Nessuno nega che molto è cambiato in meglio negli ultimi decenni e secoli e molte dimensioni del progresso hanno migliorato la vita in ampie parti del mondo, e dunque tanto più la precarietà, bassi salari, povertà e mancanza di prospettive dovrebbero essere concetti estranei nella nostra epoca. Nessuno dovrebbe temere di perdere il lavoro o di non avere un reddito sufficiente per una vita dignitosa. Solo con questo progresso sociale stabile e generalizzato il capitalismo del XXI secolo potrebbe vantare di essere un sistema migliore di altri (*).

Invece assistiamo a una generale regressione: molte delle conquiste sociali di mezzo secolo fa o sono state annullate di fatto o stanno per esserlo. Inoltre e troppo spesso il progresso a cui si allude tende a distruggere troppe risorse o a essere utilizzato per legittimare il potere.

Un programma politico per essere credibile non può più puntare semplicemente a riformare questo sistema, tantomeno solo a livello nazionale, poiché è dimostrato che ogni cosa produce determinazioni di livello globale e questo sistema non può garantire generali condizioni sociali nelle quali non si debba temere disoccupazione, precarietà, povertà e mancanza di prospettive. Dunque c’è bisogno di ben altro di una “sinistra di governo”.

(*) Per altri versi e guardando all’insieme del mondo Friedrich Engels osservava che nella sua epoca “ogni progresso è allo stesso tempo una relativa regressione, in cui il benessere e lo sviluppo di alcuni prevalgono sulla sofferenza e la repressione di altri”. Questa è una posizione materialista e dialettica. Friedrich Nietzsche invece diceva che il progresso era “semplicemente un’idea moderna, cioè un’idea falsa”. Questa è una posizione idealistica e semplicisticamente nichilista: gli antibiotici e le otto ore di lavoro invece di dodici non sono solo un’idea, tantomeno falsa.

lunedì 10 novembre 2025

Un passo falso?

 

Ieri è comparso, sul Sole 24ore, un articolo dal titolo Terre rare, il passo falso della Cina, scritto dal direttore dell’Institute for European Policymaking – Università Bocconi. È un articolo senza una fonte, che, in sintesi, sostiene come gli Stati Uniti importino dalla Cina una quantità importante di terre rare (dice: il 70%), relativamente lavorate, ma si tratterebbe di una quantità trascurabile in termini di valore, mentre Pechino sarebbe tributaria degli Stati Uniti per metalli rari lavorati ma a più alto valore. E ciò costituirebbe l’arma a doppio taglio in mano alla Cina. Vedo, di seguito, di precisare un po’ le cose.

Nel paradigma neoliberista della globalizzazione, il raggiungimento della sicurezza dell’approvvigionamento delle risorse naturali è stato relegato alle forze di mercato, portando a una crescente internazionalizzazione dei mercati, a una maggiore finanziarizzazione e a una riconfigurazione delle catene di approvvigionamento orientata alla massimizzazione dei profitti e del valore per gli azionisti.

Ultimamente le cose sono cambiate piuttosto bruscamente: le potenze occidentali hanno preso coscienza della loro dipendenza dalla Cina nell’ambito dei minerali oggi considerati “critici”. Diversi governi hanno quindi riconosciuto i limiti di una strategia di approvvigionamento basata sul libero mercato.

La Cina controlla in media due terzi della produzione o raffinazione di minerali critici chiave come litio, grafite, cobalto, nichel e rame, nonché una quota superiore al 90% per le terre rare (i “minerali critici”, che sono una sessantina, non includono combustibili come petrolio, gas, carbone o uranio. Sono altresì esclusi anche acqua, ghiaccio, neve o varietà comuni di sabbia, ghiaia, pietra, pomice, cenere e argilla).

Le terre rare sono costituite da 17 elementi con proprietà fisiche e chimiche che li rendono componenti essenziali di alcune delle tecnologie più cruciali al mondo, quali i microchips. I microchips traducono gli impulsi elettronici in istruzioni che i dispositivi devono seguire. Sono il fondamento dell’elettronica, consentendo il funzionamento dei nostri cellulari, computer, aerei, satelliti, eccetera.

Nel 2024, il 70 % delle terre rare importate e quasi l’intera capacità di raffinazione mondiale (circa il 90 %) erano ancora concentrate in Cina. Questa dipendenza cresce ulteriormente per gli elementi “pesanti”, indispensabili per magneti ad alte prestazioni, sensori militari e guida autonoma.

Secondo l’United States Geological Survey, dal 2020 al 2023, gli Stati Uniti hanno importato almeno 29 materie prime minerali dalla Cina (*). Per quanto riguarda le terre rare (composti e metalli), la dipendenza totale degli USA dalle importazioni era dell’80%, con un consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina del 56%.

Con l’amministrazione Trump, gli Stati Uniti puntano a una diversificazione delle fonti di approvvigionamento e alla reindustrializzazione. Questo approccio, tuttavia, soffre di diverse debolezze abbastanza tipiche, che riguardano un cambiamento fondamentale nel paradigma economico, un riconoscimento insufficiente dell’entità e della natura del predominio cinese, obiettivi eccessivamente ambiziosi ma scarsamente definiti.

Un esempio è significativo e riguarda il nichel, un materiale critico: sebbene la quota della Cina nelle esportazioni di nichel raffinato a livello mondiale si aggiri intorno al 20%, questa cifra riflette solo una frazione del suo predominio.

In effetti, gli investimenti cinesi nella tecnologia di lisciviazione acida ad alta pressione (HPAL) hanno radicalmente trasformato il settore, rendendo sfruttabili le vaste riserve indonesiane. In seguito al divieto imposto da Giacarta sulle esportazioni di minerale grezzo negli anni 2010, gli investitori cinesi hanno stabilito una presenza duratura nelle operazioni di lavorazione e raffinazione del nichel in Indonesia.

Il risultato: nel 2023, Ford ha stretto una partnership con Vale Indonesia e Zhejiang Huayou Cobalt Co., un’azienda cinese, per sviluppare un impianto di lavorazione del nichel. Questo accordo illustra il dilemma che si trovano ad affrontare i gruppi industriali occidentali: finanziare un progetto di nichel senza un partner cinese sta diventando sempre più difficile, in quanto dispongono di tecnologia, competenza e capacità di esecuzione a basso costo superiori.

La resilienza americana per quanto riguarda i minerali critici si basa quindi su un paese dell’ASEAN, una filiale canadese di un gruppo brasiliano e un’azienda privata cinese (a tale proposito, sarebbe interessante raccontare la vicenda esemplare della Magnequench la filiale strategica della Ford acquisita a suo tempo da un fondo di investimento chiamato Sextant, in realtà di proprietà di due società cinesi, guidate da due generi di Deng Xiaoping).

E del resto gli Stati Uniti non sono soli in questa situazione. I dati che vengono non di rado presentati dalla stampa, come l’articolo del Sole 24ore più sopra citato, mascherano un altro tipo di predominio cinese: quello sui prodotti manifatturieri derivati da questi minerali essenziali, che spaziano dai magneti in terre rare ai veicoli elettrici e ai prodotti di tecnologia verde.

La concentrazione delle importazioni è in aumento in tutto il mondo da decenni, con il numero di prodotti provenienti da una gamma limitata di fornitori superiore del 50% all’inizio degli anni 2020 rispetto alla fine degli anni 1990. Secondo l’OCSE la quota della Cina sulle importazioni globali è aumentata dal 5% al 30% negli ultimi 25 anni, mentre il contributo combinato di Stati Uniti, Germania e Giappone è sceso dal 30% al 15%.

Più nello specifico, l’Unione Europea importa oltre il 90% dei suoi magneti ad alte prestazioni in terre rare dalla Cina, così come gli Stati Uniti. L’entità del predominio cinese deriva dal fatto che non si limita all’estrazione: si estende dalla separazione e raffinazione delle terre rare agli ecosistemi industriali che le integrano nei prodotti derivati.

È in questo contesto che Trump ha ammesso il delicato equilibrio di potere in atto, di fronte ai giornalisti nello Studio Ovale della Casa Bianca il 25 agosto, alla presenza del presidente sudcoreano Lee Jae-myung: “Se non ci forniscono magneti, dovremo imporre loro dazi del 200% [...] abbiamo un enorme potere su di loro, e loro hanno un certo potere su di noi grazie ai magneti”.

Se proprio si voleva evidenziare, nell’articolo del Sole 24ore, l’arma a doppio taglio in mano a Pechino, si doveva rilevare che le terre rare rappresentano un’eccezione alla regola. Uno studio, anche se non recentissimo, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, ha stimato che la Cina dipende dalle importazioni per oltre il 50% di 19 dei suoi 42 minerali non energetici, tra cui minerale di ferro e rame, ma anche cobalto, litio, berillio, niobio, minerale di cromite, metalli del gruppo del platino (platino, palladio e rodio) e tantalio.

Tuttavia, è essenziale tenere presente che il comportamento internazionale della Cina deriva anche dalle realtà economiche e politiche interne. Il caso dell’antimonio è eclatante a questo proposito. La produzione interna di antimonio sarebbe diminuita negli ultimi anni, mentre il suo prezzo è salito alle stelle (con un aumento del 250% solo nel 2024). Alcuni sostengono che le restrizioni cinesi all’esportazione di antimonio potrebbero non essere state mirate tanto a un pubblico internazionale quanto a garantire un approvvigionamento sufficiente per l’industria manifatturiera nazionale.

Gli articoli giornalistici unilaterali, sprovvisti di fonti, non consentono di comprendere appieno l’importanza dell’interconnessione economica nelle catene di approvvigionamento minerario critiche. A tale scopo serve una disposizione più sfumata e meno ideologica, multidimensionale, a riguardo delle questioni geopolitiche e, in questo caso, alle catene di approvvigionamento. Un approccio che tenga conto dei molteplici attori e strutture, che comprenda anche i flussi di investimento, gli assetti proprietari, l’innovazione, le infrastrutture e i trasporti, gli ecosistemi industriali, le borse dei metalli, eccetera. Sono articoli, tipo questo del Sole 24ore, con confronti quantitativi dell’impiego delle terre rare strampalati, che servono forse ad altri scopi, che però non sono né scientifici e nemmeno informativi.

(*) Secondo l’United States Geological Survey i minerali critici includono (la lista non è completa):

Ittrio (Dipendenza totale dalle importazioni: 100%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 93%)

Mica, foglio (Dipendenza totale dalle importazioni: 100%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 79%)

Abrasivi, ossido di alluminio (Dipendenza totale dalle importazioni: 95%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 61%)

Bismuto (dipendenza totale dalle importazioni: 89%, consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 60%)

Abrasivi, carburo di silicio (Dipendenza totale dalle importazioni: 69%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 69%)

Terre rare (composti e metalli) (Dipendenza totale dalle importazioni: 80%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 56%)

Antimonio (Dipendenza totale dalle importazioni: 85%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 54%)

Arsenico (Dipendenza totale dalle importazioni: 100%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 52%)

Grafite (Dipendenza totale dalle importazioni: 100%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 43%)

Pigmenti di ossido di ferro (dipendenza totale dalle importazioni: 87%, consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 38%)

Diamante (graniglia, polvere, polvere) (Dipendenza totale dalle importazioni: 47%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 36%)

Composti di magnesio (dipendenza totale dalle importazioni: 52%, consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 32%)

Tantalio (Dipendenza totale dalle importazioni: 100%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 22%)

Gallio (Dipendenza totale dalle importazioni: 100%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 19%)

Barite (Dipendenza totale dalle importazioni: 75%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 19%)

Mica, rottami e scaglie (dipendenza totale dalle importazioni: 41%, consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 16%)

Tungsteno (dipendenza totale dalle importazioni: 50%, consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 14%)

Germanio (Dipendenza totale dalle importazioni: 50%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 12%)

Fluorite (Dipendenza totale dalle importazioni: 100%, Consumo stimato coperto dalle importazioni dalla Cina: 8%)

Le importazioni dalla Cina rappresentavano meno del 5% del consumo statunitense di: granato, scorie di ferro e acciaio, alluminio, perlite, bromo e talco. Gli Stati Uniti importano anche cesio, rubidio, scandio e pietre ornamentali dalla Cina, ma non sono disponibili dati percentuali specifici.

domenica 9 novembre 2025

La patrimoniale silhouette

 

La Francia di Luigi XVI, quella del 1789, era tecnicamente fallita dal punto di vista finanziario: il 50% della spesa pubblica era destinato a pagare gli interessi sul debito. Il deficit annuale, la differenza tra entrate e uscite, era stimato del 20% circa. L’unico modo, si riteneva, per tentare di salvare il regime era quello di far pagare le imposte a clero e nobiltà. Che ovviamente non ne volevano sentir parlare. Il Parlamento di Parigi, composto da privilegiati, non faceva passare nessuna legge di riforma fiscale.

Si invocarono e furono convocati, nell’agosto 1788, gli Stati generali, vale a dire un’assemblea dei tre ordini che costituivano la struttura di classe della Francia: clero, nobiltà e borghesia (terzo stato). L’ultima volta che si erano riuniti gli Stati generali era il 1613. Si votava per “stato”, per ordine, non per “testa”. Sulle questioni decisive la partita era destinata a finire 2 a 1 (clero e nobiltà contro terzo stato).

Il ministro delle Finanze, Jacques Necker, ebbe l’idea di raddoppiare il numero degli eletti del terzo stato e di far votare gli Stati generali per testa anziché per ordine. Il voto per “testa” sarebbe valso, nelle intenzioni, solo sulle leggi fiscali, non sulle altre. La nobiltà di oppose, ma il provvedimento di raddoppio dei rappresentanti del terzo stato passò, ma in esso non era indicata la modalità di voto.

Nel maggio del 1789, vi fu l’inaugurazione degli Stati generali. Rimaneva da chiarire la questione del voto: per stato o per testa? Il terzo stato voleva ovviamente votare per testa, e non solo in materia fiscale, mentre clero e nobiltà volevano il voto per stato. Inoltre, il terzo stato chiedeva che le decisioni fossero prese in seduta comune. Luigi XVI minacciò di scioglimento il terzo stato, riunito in assemblea permanente nella Sala della Pallacorda. Lo scioglimento del terzo stato riunito in assemblea avrebbe creato una situazione esplosiva.

Alla fine Luigi Capeto cedette e ordinò che i tre stati si riunissero in seduta comune. I delegati dei tre stati si proclamarono assemblea nazionale. Era il 27 giugno. Questa data segna una rivoluzione politica. Nella prima decade di luglio, l’assemblea nazionale si proclamò assemblea nazionale costituente. Era la fine della monarchia assoluta. Nella notte del 3/4 agosto 1789, l’Assemblea nazionale vota l’abolizione dei privilegi e il riscatto dai diritti feudali. Dopo la rivoluzione politica del 27 giugno, quella del 4 agosto è una rivoluzione sociale.

Nel marzo 1790, si fa strada il nuovo diritto successorio: abolizione dei diritti di anzianità e di mascolinità sui beni nobiliari; seguirono altre leggi, come quello dell’8 aprile 1791, sull’uguaglianza tra gli eredi (successione legittima) e la libertà di testare. La fine del “maggiorasco” segna anche la fine di uno dei pilastri del feudalesimo.

Veniamo all’oggi. In Francia, la “patrimoniale” è stata abolita nel 2018, dopo il suo sostanziale conclamato fallimento. Ora si vuole reintrodurla con un altro nome. In tal senso va un emendamento (approvato) al disegno di legge di bilancio 2026, che rilancia il vecchio concetto di imposta sul patrimonio, pur sostenendo di limitarla alla cosiddetta ricchezza “improduttiva”. Va a sostituire l’IFI, che tassava il valore netto del patrimonio immobiliare superiore a 1,3 milioni di euro, esclusi gli investimenti finanziari. Ora, questa legge amplia la base imponibile oltre i beni immobili, includendo anche i beni personali tangibili (oggetti preziosi, automobili, yacht, opere d’arte), le attività digitali (criptovalute) e la maggior parte dei prodotti assicurativi sulla vita. La scala progressiva dell’imposta è sostituita da un’aliquota fissa dell’1% sulla quota eccedente la soglia di 1,3 milioni di euro.

È solo un’altra trovata, una réclame per gli allocchi. Già il governo precedente propose un provvedimento che mirava a creare un’imposta minima sul patrimonio (IPF) per lo 0,01% dei contribuenti più ricchi, ovvero coloro che possiedono più di 100 milioni di euro (!!!), per garantire che pagassero almeno il 2% del loro patrimonio in tasse.

Ciò mi ricorda, nel dettaglio delle curiosità, che nell’ancien régime si era provato di tutto per fare pagare le tasse, come testimonia il termine, divenuto poi di uso comune, di “silhouette”. Esso si riferisce ad Étienne de Silhouette (1709-1767), che quanto a fantasia impositiva non fu secondo a nessuno. Arrivò a tassare gli edifici sulla base del numero delle finestre e delle porte, quindi “invitò i privati a portare la loro argenteria all’erario per farne moneta” (risate).

Nell’Italia di oggi, il 43 per cento dei contribuenti non versa un solo euro di imposte. Il debito pubblico è, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil, ai limiti della sostenibilità tecnica. Gli interessi sul debito, nel 2024, sono stati di 100 miliardi tondi, su una spesa pubblica di 886,4 miliardi, vale a dire l’11,28 per cento. La situazione è destinata a peggiorare nei prossimi anni, e chi dovesse sostenere il contrario, mente sapendo di mentire.

Chi pensa di risolvere la questione della crisi finanziaria e di bilancio dello Stato, magari invocando una “patrimoniale” (che nessuno realmente vuole), non può essere in buona fede. Non è questione di destra o di sinistra. In un sistema capitalista, in un regime a forte impronta classista dove non si riesce a strappare neppure un salario un po’ più alto e in linea con l’inflazione, ogni tentativo di riforma è inutile. È sempre più evidente, nella crisi del sistema, che senza scardinare l’intero ordine sul quale si basa ogni privilegio di classe, le cose non possono davvero cambiare.

sabato 8 novembre 2025

Arte dal vivo

 

Sì, con i voti del tuo compare di merende Cuffaro.


Ops! Ho sbagliato foto.



Ah, ecco, con questa non ci si annoia
e si vende anche di più.

venerdì 7 novembre 2025

Uova fatali

 

La cosiddetta intelligenza artificiale mi ricorda Forrest Gump, l’incommensurabile azionista della Bubba Gump Shrimp Company, quando, a bordo del suo peschereccio chiamato Jenny, andava a pesca di gamberi. Ebbene l’IA funziona allo stesso modo di un peschereccio con reti a strascico. Pesca gamberi e altro, ma anche tavolette del cesso.

Se all’epoca di Hegel il falso era un momento del vero, all’epoca di Guy Debord il vero era già diventato un momento del falso. Presentata come la promessa di un futuro luminoso, generative AI è diventata una formidabile macchina per produrre falsità (una trappola per topi). Per mettere in piedi l’AI, i giganti della tecnologia hanno lanciato la più grande operazione di accaparramento di conoscenza nella storia dell’umanità. Questa corsa frenetica ha già saturato le reti, e potrebbe benissimo concludersi con la creazione di una macchina completamente alla Forrest Gump.

Il fraintendimento sta in origine, ossia parte dalla convinzione che essendo il cervello un oggetto fisico, questi obbedisca alle stesse leggi fisiche e si possa simularlo computazionalmente. Siccome queste stesse macchine sono in grado di eseguire operazioni algebriche molto complicate, e oggi anche di cucinare due uova al tegamino senza scottarsi i diti, si è deciso che di questo passo si potranno sostituire con delle macchine gli umani, esseri prevalentemente provvisti di comprensione e consapevolezza, ossia di una propria coscienza, che è un prodotto storico-sociale.

Immedesimandomi nel professor Vladimir Persikov, ho incaricato una di queste macchine super-intelligenti di cucinare due uova al tegamino. Di qui, mio malgrado, la scoperta che la macchina, quando cucina le uova, non ha alcuna comprensione di ciò che sta facendo, di che cosa si può fare o non fare con delle uova di gallina o di qualunque altro volatile, e segue in maniera inconsapevole degli algoritmi.

Nel procedimento delle uova al tegamino il tuorlo a volte si rompe. La macchina le butta nella pattumiera emettendo dei bip-bip di allarme. Certo, è bastato riprogrammare la macchina inserendo una modalità di cottura alternativa, di modo che, se il tuorlo si rompe, essa opera automaticamente di volgerle in uova strapazzate.

Mi resta una domanda che idealmente rivolgo a chi legge: dopo una settimana intera di uova strapazzate, è lecito ipotizzare che la macchina sia diventata dispettosa e ipso facto manifesti un segno di presa di coscienza?