lunedì 29 dicembre 2025

Ucraina: a chi fa più gioco il fattore tempo

Su quel trombone narciso di Corrado Banale non ho mai avuto dubbi.

All’inizio di gennaio 2025, Joe Biden era ancora formalmente il presidente degli Stati Uniti. Il suo successore, Donald Trump, si insediò solo alla fine del mese. Questo cambiamento nella composizione politica dell’amministrazione statunitense ha chiaramente innescato alcune dinamiche anche nel conflitto ucraino. Soprattutto, ha costretto l’UE ad abituarsi a condurre una propria politica ucraina. Con conseguenze disastrose.

Diplomaticamente, l’anno 2025 è stato segnato dall’emergere di una “coalizione dei volenterosi”, ovvero di coloro che cercano di prolungare la guerra a qualsiasi costo, purché a pagarne le conseguenze siano principalmente gli ucraini.

Quando Stati Uniti e Russia tentano di risolvere il conflitto tra loro, la terza – l’UE – si ritrova con solo due opzioni: conformarsi alla tendenza prevalente e quindi riconoscere implicitamente la propria insignificanza, oppure, al contrario, cercare di sabotare l’accordo degli altri due. Se quest’ultima opzione riesce, l’UE può assicurare a sé stessa e al mondo che è indispensabile, almeno nell’Europa orientale.

Quanto a Washington, si può percepire almeno una certa coerenza politica: non sostiene più l’Ucraina incondizionatamente, non ha approvato nuovi programmi dopo la scadenza dei generosi aiuti agli armamenti concessi sotto Biden e ora fornisce a Kiev solo equipaggiamento militare pagato dall’UE e dal Canada. Questo perché sa che l’Ucraina è fuori gioco e la UE perderà sia i suoi fondi che il suo prestigio. Da qui la decisione dell’UE a dicembre di mobilitare altri 90 miliardi di euro dal proprio bilancio per finanziare l’Ucraina, presumibilmente per due anni, anche se è ampiamente noto che non saranno sufficienti.

Tutti i vertici di crisi, i negoziati e così via, febbrili e frenetici, non sono finora riusciti a raggiungere la fase cruciale: i negoziati tra l’UE e la Russia, il vero nemico in guerra.

Ufficialmente, gli obiettivi di guerra proclamati da Putin e Lavrov sono gli stessi da anni: impedire l’adesione dellUcraina alla NATO e lo stazionamento di truppe NATO in Ucraina. Ciò include l’annessione di parti dell’Ucraina che la Russia rivendica come suoi territori storici, sia perché conquistate dalla Russia nel XVIII secolo, quando l’Ucraina non esisteva ancora, sia perché “donate” all’Ucraina da Lenin agli albori dellUnione Sovietica.

Queste si possono anche considerare come illusioni storiche, ma il fattore tempo gioca a favore di Mosca, mentre gli imbecilli che stanno dalla parte dei nazionalisti ucraini sono convinti, dopo quattro anni di guerra, che sia il contrario, ma ciò è smentito dai fatti, primi tra tutti quelli che riguardano la situazione sul terreno.

A gennaio scorso, i combattimenti infuriavano intorno al sito della centrale elettrica di Kurakhovo, circa 20 chilometri a ovest di Donetsk. Oggi, la linea del fronte si è spostata di circa 50 chilometri a ovest e nord-ovest da quel punto, raggiungendo attualmente le città gemelle di Pokrovsk e Mirnograd. Ieri, Putin ha annunciato la presa di Mirnograd. Inoltre, le forze russe mantengono il loro attacco alla conurbazione di Sloviansk- Kramatorsk, nell’estremo nord-ovest della regione di Donetsk. Su quel settore si decideranno le sorti della guerra, che peraltro sono già decise.

Putin lo ha ribadito, citando anche una ragione economica: i canali che forniscono acqua a tutto il Donbass iniziano nell’entroterra di queste due città. Attualmente, a Donetsk, Makeyevka, Horlivka e in altre zone, l’acqua del rubinetto scorre solo ogni tre o quattro giorni ed è praticamente imbevibile. Se Putin ammette apertamente questa crisi idrica, la situazione deve essere davvero disastrosa. Mi pare dunque evidente che i russi o conquisteranno Sloviansk-Kramatorsk, oppure le due città dovranno essere cedute da Kiev al tavolo delle trattative (cosa impensabile).

L’attacco a Sloviansk non sembra più essere pianificato da sud-est, dall’area di Pokrovsk (a ovest di Horlivka), ma direttamente da est. Due settimane fa, le truppe russe hanno conquistato la città di Seversk e ottenuto alcune conquiste territoriali a ovest (dunque questo potrebbe essere il motivo del cambio di direzione dell’attacco, ma è solo una mia ipotesi).

I russi si sono anche recentemente avvicinati alla conquista dell’intera regione di Zaporižžja (molto vicina alla Crimea). Infatti, la città è minacciata direttamente anche da sud, dove le truppe russe stanno avanzando verso nord lungo l’ex bacino idrico di Kakhovka. Attualmente, i combattimenti si svolgono a circa 60 chilometri a ovest di Donetsk, intorno alla cittadina di Gulyaipole (Huljajpole), che è stata anch’essa conquistata.

Quelli che comandano in Europa affermano che spetta “agli ucraini” decidere su eventuali concessioni per un accordo di pace. Per il momento, devono continuare a combattere per indebolire la Russia il più possibile, paventando chissà quale minaccia russa per l’UE. In realtà Bruxelles sogna la propria importanza a spese dell’Ucraina. Per il resto e specie in materia di politica tariffaria, l’UE sta già strisciando sui capezzoli davanti a Trump. Mai l’Europa nel suo insieme è stata così irrilevante su tutti i fronti e su ogni tema. 

Il comunismo “magna & bevi”

 

Quando capita di leggere una citazione attribuita a Karl Marx, si può essere certi che è assente il riferimento bibliografico da cui essa è stata tratta. Oppure, il riferimento è generico, tipo: Il Capitale. Circa mezzo secolo fa mi capitò di leggere un lungo articolo zeppo di presunte citazioni marxiane delle quali il riferimento in nota diceva: “Opere Complete”.

Ciò mi rammenta le parole di Engels a proposito della disinvolta ciarlataneria con la quale Achille Loria trattava Marx: «[...] è un meridionale ardito, originario di un paese caldo, dove — come egli può testimoniare — la sfrontatezza è in un certo senso una condizione naturale». Laddove per “meridionale” Engels si riferiva tout court a “italiano” (*).

Nell’inserto culturale del Sole 24Ore di ieri, si può leggere un articolo, a firma di Enzo Gentile, dal titolo Il manifesto di pane & rose da Marx a Camerini. Appena ho letto il titolo, m’è sfuggito un bestemmione natalizio. Da decenni e anche più, viene attribuita a Marx una frase che Gentile riporta nell’articolo: «La testata si richiamava a una citazione da Karl Marx, impermeabile ai tempi: il comunismo è “pane e rose, il necessario e il superfluo, una società dove si mangia meglio e di più (non solo pane), dove si lavora meglio e di meno, ma anche una società dove si è più felici, realizzati e liberi”.»

E vai col comunismo “magna & bevi”. La cosa più impermeabile è la testa di certa gente che scrive senza documentarsi adeguatamente.

Chiunque abbia frequentato Marx non può credere, già di primo acchito, che quei volgari concetti possano appartenergli. Nemmeno durante una sbronza giovanile Marx avrebbe potuto pronunciare una simile frase, ed infatti mai la pronunciò o la mise per iscritto. Il riferimento a “pane e rose” riguarda uno slogan operaio del 1912, ma poi qualcuno evidentemente pensò di attribuirgli una livrea marxiana, ed infatti la citazione viene ripetuta a destra e a manca facendola derivare da un concetto espresso da Karl Marx sul “Comunismo” (sic!).

Di questo genere di “comunismo”, di queste allusioni apocrife a Marx, di “pane e rose” (tortelli e salamelle) s’è riempita la testa e la pancia la sinistra. Non deve dunque far specie la parabola alla quale è andata incontro con “la chitarra in mano”. Un “comunismo” italiano che, pur disponendo di cospicui mezzi, in oltre mezzo secolo non è nemmeno riuscito a completare la traduzione e pubblicazione delle opere complete di Marx ed Engels, per tacere di altro.

Si potrà eccepire che di ben altro ci si dovrebbe occupare oggi, che nuovi e drammatici sono i problemi che incombono. No, non sono d’accordo con questa retorica. Le lacune teoriche si scontano, così come si paga il fatto che la conoscenza del marxismo sia stata filtrata da non marxisti (sia pure “iscritti al partito”). Se non c’è cura per i fondamentali, non arrivi a giocare la Champions League, e puoi solo retrocedere. Sempre di più, fino agli esiti che conosciamo.

(*) Il Capitale, III, Prefazione.

domenica 28 dicembre 2025

Tutta colpa di Lenin

 

Il corpo imbalsamato di Lenin giace ancora nel mausoleo di Mosca. Il servizio di mappatura Yandex – l’equivalente russo di Google Maps – elenca ben 5.000 strade e circa altre 3.000 piazze, viali e vicoli intitolati a Lenin. Vedremo ancora per quanto tempo.

Vladimir Putin, in un’intervista televisiva con Tucker Carlson, poco dopo il centenario non ufficiale della morte di Lenin nel 2024, ha accusato Lenin di essere l’”inventore” dell’Ucraina, con cui la Russia è ora in guerra.

Putin ama riferirsi all’Ucraina come “Vladimir Il’ič Lenin Ucraina” e accusa il fondatore dell’Unione Sovietica di aver piazzato una “bomba a orologeria” sotto la Russia concedendo l’autonomia alla regione di confine chiamata “Piccola Russia”. Questa accusa ha un fondamento fattuale: fu Lenin non solo ad accettare la fondazione di una Repubblica Sovietica Ucraina, ma anche ad assegnare a questa repubblica territori russofoni da Kharkiv a Donetsk, all’incirca quei territori per la cui riconquista la Russia sta combattendo da quasi quattro anni.

Intorno al 1920, l’aspettativa di Lenin era che questi territori e le loro popolazioni avrebbero costituito un contrappeso etnico e sociale al “nazionalismo ucraino piccolo-borghese” con cui i bolscevichi avevano avuto amare esperienze durante la guerra civile, sotto forma della Repubblica Popolare Ucraina. Questo calcolo ha funzionato, in linea di principio, fino al colpo di stato del febbraio 2014.

Pertanto Lenin è oggi l’uomo le cui azioni non sono tanto responsabili della sopravvivenza della Russia dopo la perduta prima guerra mondiale, quanto piuttosto della sua disintegrazione dopo il 1991. In realtà, le critiche di Putin alle decisioni di Lenin ignorano sia il contesto storico effettivo sia l’intenzione alla base di questa ripartizione: ovvero, mantenere unita la Russia in condizioni in cui il separatismo era riemerso in tutte le regioni periferiche dell’ex impero.

Da pragmatico, Lenin dava per scontato che il nazionalismo ucraino dell’epoca, date le sue affinità culturali e linguistiche, potesse essere integrato nella società russa. Che questo si sia rivelato un errore di calcolo quasi un secolo dopo non può essere attribuito a Lenin, ma piuttosto al suo successore, Stalin. Nel 1939, Stalin non poté resistere alla tentazione di annettere l’Ucraina occidentale alla Repubblica Sovietica Ucraina. E questa repubblica era la roccaforte proprio di quei nazionalisti che ora dominano a Kiev. Eppure, oggi, in Russia non si critica Stalin, men che meno per questo errore strategico.

sabato 27 dicembre 2025

La Trappola di Tucidide

 

In un’intervista televisiva di cui ho visto ieri il promo e che sarà trasmessa stasera, il prof. Massimo Cacciari sostiene che per la teologia cristiana la guerra è stato un grande tema, un problema fondamentale era quello di stabilire: forse la guerra è necessaria, in questo caso inevitabile, ma come la conduco? C’è tutta una casistica infinita: devo rispettare le donne, i bambini, non posso rapinare, eccetera. Poi, venendo all’oggi, sostiene che le ultime guerre sono guerre al di fuori di ogni diritto, violenze che si basano sul diritto del più forte, che è una specie di diritto, ma dove si afferma anche il principio che “si colpisce direttamente ed esplicitamente la popolazione dello Stato governato dallo Stato avversario perché il nemico non diventa più lo Stato, ma lo diventa anche il popolo che viene assunto come complice dello Stato che vuoi che vuoi abbattere”, eccetera.

Che i teologi si siano occupati di tutto, anche di stabilire criteri di umanità cristiana nel condurre una guerra, lo posso credere, ma la pratica concreta dei cattolici-apostolici-romani è stata sempre di segno contrario (vedi le crociate contro le eresie, ad esempio). Quanto al diritto internazionale, non vedo quando esso sia stato effettivamente rispettato nel passato più o meno recente. Semmai ex post. È prevalso sempre il diritto del più forte, e la popolazione ha sempre avuto un ruolo di “obiettivo” (vedi per esempio gli assedi di città). Tuttavia, questa intervista al filosofo del sestiere di Castello mi dà lo spunto per una riflessione veloce e più generale sulle cause della guerra con particolare riguardo anche alla situazione geopolitica attuale, che è la cosa che più m’interessa.

In premessa: nessuna guerra è senza propaganda. La regola è che uno deve andarci per qualcun altro e quindi deve essere convinto che lo sta facendo non per qualcun altro, ma anche e soprattutto per sé stesso.

La teoria più antica sull’argomento guerra, almeno la più materialistica e internamente coerente, proviene da Tucidide (V sec. e.c.). Molto schematicamente: nella sua Storia della guerra del Peloponneso, egli identifica le cause della guerra principalmente in quella economica (causa oggettiva), e in quella destata dalla paura, più precisamente la paura che porta a fare esattamente ciò che si teme che facciano gli altri (in sintesi, la “trappola di Tucidide”, non è altro che una guerra preventiva).

Esistono teorie più strutturate e dettagliate sul fenomeno della guerra, ma quella di Tucidide ha il vantaggio di essere la più completa possibile pur mantenendo il livello di semplicità più elevato.

Dimmi da dove vieni e ti dirò dove stai andando. Dopo che un ordine mondiale multipolare nel XX secolo portò a due guerre mondiali, durante la Guerra Fredda sembrò prevalere una relativa stabilità. Relativa, perché anche questo periodo fu segnato da guerre, in particolare, oltre ai conflitti territoriali extraeuropei, dagli interventi degli stati imperialisti, il cui attore principale furono gli Stati Uniti d’America.

Ciononostante, l’ordine mondiale mantenne un tipo di stabilità che oggi non è più concepibile. Ciò fu in parte dovuto all’integrità territoriale dell’Europa e del Nord America, che consentì la creazione di uno spazio di sicurezza transatlantico di Stati militarmente ed economicamente privilegiati, da cui poter effettuare interventi militari o politici in altre parti del mondo. Inoltre, la struttura bipolare tra il blocco di potere degli stati dell’Est e quelli dell’Ovest ebbe evidentemente un effetto moderatore e stabilizzante sul mondo nel suo complesso.

Con il crollo del blocco dell’Est, emerse una struttura egemonica. Gli Stati Uniti si liberarono del loro rivale e, all’inizio degli anni Novanta, si diffuse un’euforia oggi difficilmente comprensibile. A posteriori, è facile deridere la “fine della storia” di Francis Fukuyama. Sebbene la sua argomentazione fosse certamente più ragionata di quanto la sua accoglienza suggerisse, esprimeva comunque lo stato d’animo generale: la gente era inebriata dalla vittoria nella lotta sistemica (una ubriacatura della quale si portano tutt’ora i postumi).

E veniamo agli esperti contemporanei. Uno di questi vedeva le cose con esemplare chiarezza per essere uno stratega della Casa Bianca. Si chiamava Zbigniew Brzezinski, consigliere per la Sicurezza Nazionale di Jimmy Carter dal 1977 al 1981. Nel 1997 scrisse La Grande Scacchiera, in cui analizzò la situazione dopo la fine della Guerra Fredda e delineò un concetto strategico per gestirla.

Per lui, la posizione egemonica degli Stati Uniti come unica superpotenza non era un dono, o se lo era, era un dono avvelenato. Quando uno Stato detiene l’egemonia globale, inevitabilmente si crea una dinamica. Le potenze medie e gli Stati più piccoli si uniscono, minano le alleanze e le relazioni diventano complessivamente più bilaterali. Il caos aumenta, ma può ancora essere contenuto.

Brzezinski sosteneva una strategia di divisione dall’alto, di approfondimento deliberato delle divergenze tra le restanti potenze imperialiste in attesa, che poi avrebbero dovuto essere contrapposte l’una all’altra. In apparenza, questa strategia ha impedito a vari Stati di unirsi contro gli USA, ma allo stesso tempo i mezzi impiegati (intelligence, diplomazia, economia, forze armate) hanno portato a un caos maggiore e a più focolai globali.

Questo caos che si sarebbe voluto controllare, e che è aumentato, è stato il terreno fertile su cui si sono verificati gli sviluppi degli ultimi decenni. L’unipolarismo ereditato dal bipolarismo si è evoluto in multipolarismo. Di fronte al blocco transatlantico, si è formato un blocco attorno alla Russia, che non è più una potenza media, ma le cui risorse militari, economiche e diplomatiche sono, per il momento, insufficienti per controllare gli Stati confinanti (ma che non poteva tirarsi indietro sulla Crimea e l’Ucraina).

Attualmente, l’evoluzione del multipolarismo appare come un bipolarismo immaturo perché un terzo blocco, checché se ne dica, non è ancora evidente. A differenza della Guerra Fredda, tuttavia, l’attuale situazione mondiale non ha il potenziale per una struttura bipolare saldamente consolidata.

I principali attori dei conflitti globali – ad eccezione della Cina – non presentano profonde differenze nelle loro strutture sociali o nella loro natura sistemica. Sono attori pienamente sviluppati o in via di sviluppo di un’epoca caratterizzata da strutture imperialiste. L’attuale costellazione globale non assomiglia a quella della Guerra Fredda, né a quella del 1939.

Se fosse possibile un’analogia storica, sceglierei come riferimento, come ho scritto in altre occasioni, al periodo intorno il 1914. I conflitti del nostro presente sono di natura più competitiva che sistemica, il che influisce anche sulle relazioni e sulle alleanze, che, in condizioni di mera competizione, sono molto più intercambiabili e di conseguenza meno stabili.

Dunque la Cina, non come blocco geopolitico (a parte la Corea del Nord), ma come entità statuale e sistemica a sé stante, che vestire i panni dello sfidante. La Cina di Xi Jimping, un leader che può vantare orgoglio patriottico e soprattutto visione strategica. Nel corso di una generazione, l’ascesa della Cina ha cambiato completamente lo scenario internazionale, a cominciare da quello dei rapporti economici («il 40% dell’intera crescita mondiale si è realizzato in un solo paese: la Cina»), tanto da spostare l’orizzonte strategico.

E qui si ritorna a Tucidide, alla sua “trappola”, all’enorme complesso di superiorità degli Stati Uniti, alla questione, come osservo da sempre, dell’egemonia, della vita o della morte, della necessità e inevitabilità dello scontro strategico.

Si avvicina l’alba, e oggi ho molto altro da fare. Ci ritornerò sopra.

venerdì 26 dicembre 2025

Bilancio

 


Ho scritto questo post il giorno di Natale, perciò sarebbe estremamente scortese non leggerlo.

Non è che il mondo fosse un luogo pacifico e armonioso il 19 gennaio 2025, il giorno prima dell’insediamento di Donald Trump, il pacificatore inesistente. Conflitti e guerre sono in gran parte causati dai grandi spostamenti tettonici nell’equilibrio di potere globale. Possiamo dunque dire che dal 20 gennaio 2025, il mondo è stato esposto a diversi shock e sconvolgimenti aggiuntivi provocati in gran parte dal barone delle criptovalute che vive alla Casa Bianca, utilizzando per esempio la frusta doganale, che sta facendo sprofondare l’Europa ancora più in profondità nella crisi.

Spostamenti tettonici: energia a basso costo dalla Russia, mercati inesauribili in Cina e altrove, facile sostegno da parte della macchina militare statunitense, sono tutti fattori di un modello che è saltato, che ha raggiunto i suoi limiti storici, tra i quali anche quelli geografici, come ha segnalato sia Putin e sia, per altri versi, Trump.

Non c’è accordo europeo sul carbone/acciaio, non c’è unione europea, non c’è moneta comune, non c’è nulla di nulla che possa risolvere le contraddizioni immanenti del capitalismo (chi l’ha creduto in buona fede è un illuso, gli altri sono dei fetenti).

Ciò che, tra l’altro, sollecita la mia attenzione è il fatto, ovviamente non casuale, che si stia disperatamente cercando di rendere l’arte (!) di uccidere appetibile ai giovani, per mascherare la totale mancanza di visione e di idee dei nostri cari leader politici (salvo non siano idee e progetti favorevoli al “libero” mercato).

Il vecchio Occidente transatlantico è in un declino a medio-lungo termine – l’UE più degli Stati Uniti. La Francia soffre un inesorabile declino (aggravato dai riverberi allogeni della colonizzazione), come del resto l’Italia (declino economico e sociale aggravato dalla questione demografica).

Per decenni ci hanno ripetuto che lo stato sociale è troppo gonfio, troppo lento, troppo costoso, e che l’era degli aiuti ai pigri deve finire. Chi più e chi meno, s’è creduto fosse vero. Così il welfare pubblico ha subito la sorte del carciofo. Rendere il lavoro più economico e quindi aumentare il plusvalore assoluto era e resta l’obiettivo di tali richieste. Poi piangere sull’inverno demografico di cui sopra.

Quanto alla Germania, ossia il capitale tedesco, le cose dell’economia non vanno diversamente dal resto dell’Europa. L’unica opzione rimasta è quella che conosce meglio da una prospettiva storica: un’azione aggressiva e autonoma. Non c’è altra ragione per la propaganda guerresca e il massiccio riarmo tedesco.

Chi detiene il potere non ha risposte sul domani, se non il riarmo, la guerra e la morte. Il declino dell’economia stessa farà sì che le caserme si riempiano, poiché un numero significativo di settori d’importanza sistemica non reggono più; sono in ballo milioni di posti di lavoro, ad esempio nella produzione automobilistica, ma non solo.

L’economia della Cina sta superando sempre di più i paesi del G7 in diversi settori merceologici. Il capitale statunitense ha imparato la lezione dopo un paio di decenni di inutili tentativi di contenere il suo “rivale sistemico” dell’Asia orientale e sta ricorrendo ai metodi consolidati da grande potenza imperiale.

In vista del redde rationem con Pechino, è indispensabile tener in ordine il cortile di casa, tenendovi, per quanto possibile, lontana la Cina: una delle prime misure dell’amministrazione Trump è stata quella di tentare di strappare il controllo di due porti sul Canale di Panama all’influenza di una società di Hong Kong; a oggi, non ci è riuscita. Quindi la sottomissione dell’America Latina e la distruzione di Cuba, senza escludere l’imminente guerra calda contro il Venezuela.

I veri regali per il 2026 sono, per esempio, i giganteschi ordini che i governi di mezzo mondo hanno affidando all’industria bellica. Oppure i 428,3 miliardi di dollari in obbligazioni (cioè debito) emessi dalle aziende tecnologiche globali.

Diceva un tale, molto tempo fa, che il limite al capitale è il capitale stesso. Il barbuto di Treviri, ecclissato dalla scena mediatica, vedrete che tornerà in auge. Al modo che ne fanno solitamente i furbi e i farabutti, che sono forza mediatica prevalente.