mercoledì 30 gennaio 2019

Anniversari


Hitler non fu un semplice incidente di percorso nella storia tedesca. Senza le particolarissime condizioni che lo videro salire alla ribalta, egli non sarebbe stato nulla. Difficile immaginare che potesse calcare le scene della storia in un’epoca diversa. […] Va detto che seppe sfruttare magnificamente la situazione. Più di ogni altro uomo politico del suo tempo, Hitler fu il portavoce delle paure, dei risentimenti e dei pregiudizi straordinariamente forti della gente comune non attratta dai partiti di sinistra né legata agli schieramenti cattolici. E più di ogni altro uomo politico dell’epoca, a quella gente seppe offrire il miraggio di una società nuova e migliore […]. Nel richiamo hitleriano la radiosa immagine dell’avvenire andava di pari passo con la denuncia del passato. Il crollo totale di fiducia verso un apparato statale fondato su una politica dei partiti e su un’amministrazione burocratica ormai screditata aveva condotto più di un terzo della cittadinanza a riporre fede e speranza nella politica della redenzione nazionale.

Ian Kershaw, Hitler, Bompiani, 2016, pp. 415-16.

Chi avrebbe osato dire che i nazisti nel perseguitare ebrei, comunisti, omosessuali e oppositori vari, non perseguivano l'interesse nazionale? E dunque chi persegue l'interesse nazionale è al di sopra della legge, vero? Si comincia sempre così, con "piccole" concessioni in deroga alla logica e al diritto.

Ancora su quella cazzata del signoraggio


I termini moneta e denaro alludono a concetti diversi, anche se agli effetti pratici del nostro vivere quotidiano non cambia nulla se usiamo i due termini come se tra loro fossero omologhi.

Ieri, in un negozio ho fatto degli acquisti pagando con carta moneta, per un importo di 50 euro. Il negoziante ovviamente non ha battuto ciglio, consegnandomi la merce acquistata. La merce corrisponde al valore delle materie prime e del lavoro in essa intrinseco (per farla semplice). La carta moneta con la quale ho pagato non contiene intrinsecamente una sola stilla di valore, concretamente è un foglietto di carta colorata. Tuttavia quella carta moneta rappresenta legalmente l’equivalente del prezzo della merce acquistata. In altri termini essa rappresenta il segno del valore, non il valore stesso; è un mezzo di pagamento accettato forzatamente e convenzionalmente.

Se invece che con un biglietto in euro avessi pagato con una certa quantità d’oro, ossia con dell’equivalente universale del valore, il commerciante avrebbe rifiutato la transazione, se non altro per ragioni pratiche. La moneta, nella fattispecie la carta moneta, serve appunto per rendere più pratiche e veloci le transazioni.

Le banche centrali, detengono, nei propri forzieri o in custodia in quelli di altre banche, solo una parte in oro dell’equivalente in moneta posto in circolazione. Del resto la moneta non è convertibile in oro (il dollaro si poteva convertire sino al 1971) e la massa monetaria circolante è ben superiore alla quantità di metallo tesaurizzato.

Quando la moneta di uno Stato si deprezza e il suo prezzo può cambiare notevolmente in breve tempo, quella moneta perde credito internazionale. In tal caso la banca centrale è costretta a regolare le transazioni sull’estero con denaro reale, ossia con oro, oppure facendosi fare credito tramite organismi internazionali che provvedono subito ad inviare i propri “ispettori” per cercare di rimettere in sesto la baracca.

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lunedì 28 gennaio 2019

La vera bomba


«Oggi c’è un grande entusiasmo per l’auto elettrica. Nessuno, però, considera il suo impatto sociale. In Europa, se smettessimo di produrre macchine a gasolio o a benzina e facessimo soltanto più auto elettriche perderemmo un lavoratore su tre. Compri il motore, compri la batteria e il 60% del valore dell’auto ce l’hai. Ma un milione di europei non avrebbe più una occupazione».

Alberto Bombassei, tra un “gnocchetto soffice, le chips di pane croccante verbena e pancetta croccante e la crema di zucca aromatizzata agli agrumi”, lancia l’allarme. Nel suo “milione” egli fa conto dei lavoratori direttamente coinvolti nell’industria automobilistica e dintorni. Il suo è un soffice ottimismo. Vero che l’auto elettrica rappresenterà una vera e propria rivoluzione anche in termini di occupazione, ma sono in gioco, per questo e altri motivi, decine di milioni di croccanti posti di lavoro, non solo in Europa e non solo a causa dell'auto elettrica.

Come potranno i governi fare fronte a questo terremoto economico e sociale? Con il reddito di disoccupazione variamente denominato? Prendiamo per buono questo escamotage. Con quali denari gli Stati super indebitati dovrebbero farvi fronte? Cucinando la ricetta di sempre, cioè tassando. E qui verrebbe proprio da ridere. Non perché in linea teorica (molto meno in pratica) non si possa far pagare più tasse sui profitti, sui robot e su quant’altro si riuscirà ad escogitare, ma perché si trascura una legge economica che opera con la stesse conseguenze di una legge di natura e che si fa beffe di ogni buon proposito dei buoni borghesi.

Il sistema economico attuale trova in questa legge la causa fondamentale dell’impossibilità di poter durare ancora a lungo. Si tratta di una tendenza che nei suoi effetti pratici è ben conosciuta dagli operatori economici, sebbene essa sia fraintesa nelle sue cause reali. Del resto neanche gli economisti hanno interesse da prenderla seriamente in considerazione, per non parlare dei ciarlatani pro tempore, intenti a questioni di ben altro momento.

Che cosa dice questa legge? Non ogni quantità di profitto (plusvalore) può trasformarsi in un aumento dell’apparato tecnico di produzione: per l’espansione – qualitativa e quantitativa – della scala della produzione è necessaria una quantità minima di capitale addizionale, quantità che nel processo di accumulazione diventa, a causa della crescita accelerata del capitale costante, sempre maggiore.

Il fatto che nella scala della produzione la quantità di capitale addizionale necessario per proseguire diventi sempre maggiore, si scontra con un limite. Vale a dire che il plusvalore prodotto diviene così piccolo, relativamente al capitale complessivo accumulato, che non è più sufficiente a valorizzare l’intero capitale.

Ma voi, egregi economisti, continuate a confondere questo con quello, mele e pere, oppure, come leggo in questi giorni in cui degli asini danno lezioni a degli ebeti (sul signoraggio), equiparando e rendendo intercambiabili concetti come denaro e moneta.

[...]



Eh già, lavorare tutti per lavorare di meno è una frase idiota. Non tiene conto della “produttività”, dice lo stakanovista ridens dalla sua scrivania. E allora avanti, continuiamo a far alzare la gente alle 5 del mattino, facciamoli lavorare 8-10 ore il giorno a produrre inutili cazzate per alimentate uno squilibrio mentale chiamato marketing. Quando ci saranno decine di milioni di disoccupati in Europa, vedremo cosa gli racconterete per farvi mantenere.

sabato 26 gennaio 2019

La supercazzola venezuelana


Non ho mai speso una sola parola a favore di Hugo Chavez, figuriamoci se prendo le difese di Maduro. E però ogni limite ha una pazienza, direbbe Pasquale Zagaria, nuovo commissario dell’Unesco. Possibile non capire l’azione di destabilizzazione che fa capo agli Usa? Come non bastassero per se stesse le cazzate di Maduro. Un dittatore viene definito, per quanto sia stato eletto democraticamente (pur essendo quel sistema poroso da ogni punto di vista).

Il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, ha annunciato che gli Stati Uniti devieranno tutti i beni detenuti dal governo venezuelano negli Stati Uniti al cosiddetto “governo provvisorio” di Juan Gerardo Guaidó. Ciò include i depositi bancari e le proprietà detenute da Citgo, la filiale di raffinazione con sede negli Stati Uniti della compagnia petrolifera di stato venezuelana, PDVSA. È appena il caso di ricordare che il 75% dei prodotti petroliferi grezzi sono venduti dal Venezuela agli Stati Uniti.

La società di analisi finanziaria S&P Global Platts ha citato fonti vicine all'opposizione di destra in Venezuela affermando che Guaidó si stava preparando a nominare un nuovo consiglio di amministrazione per Citgo e ad inviare i suoi rappresentanti a rilevare il quartier generale della società a Houston. Goldman Sachs ha riferito che il colpo di stato sarebbe stato realizzato in concomitanza con la proclamazione di una nuova legge nazionale sugli idrocarburi, che avrebbe aperto le riserve petrolifere venezuelane a uno sfruttamento estero più diretto e completo.

venerdì 25 gennaio 2019

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Vedo che le mie preoccupazioni non erano solo suggestioni (qui). Si può pensare ciò che si vuole di Soros, tuttavia non sottovaluterei quanto dice a proposito delle nuove forme di controllo sociale (qui).

mercoledì 23 gennaio 2019

Il grande saccheggio



Il 23 gennaio 1933 nasceva l’IRI-Istituto per la Ricostruzione Industriale. Senza l’IRI il “miracolo” del dopoguerra non sarebbe stato possibile (quale capitale privato possedeva mezzi finanziari adeguati per sostenere i giganteschi investimenti infrastrutturali?). Poi, già dagli anni Sessanta, il perverso intreccio tra economia, affari e partitocrazia ha trasformato le partecipazioni statali in carrozzoni: investimenti sbagliati, clientelismo, crisi finanziaria del sistema, discipline dei prezzi imposti che vincolavano la redditività delle imprese, ecc..

L’IRI si poteva riformare con una politica industriale che avesse realmente al centro l’interesse nazionale, invece, senza alcun tipo di dibattito politico e sindacale, si è deciso di puntare su un modello liberista puro, con privatizzazioni prevalentemente integrali, che si è tradotto nella svendita del patrimonio industriale e bancario al capitale privato, con un forte intervento del capitale industriale e soprattutto finanziario internazionale (in particolare i fondi pensione e immobiliari, specializzati nel trattare titoli di imprese in via di privatizzazione). Nella realtà non si sono voluti assolutamente privilegiare gli acquirenti italiani rispetto quelli esteri, e del resto eventuali misure orientate a favorire gli investitori nazionali sarebbero state considerate inammissibili dai padroni della UE.

Le privatizzazioni sono processi assai complessi e operazioni di carattere essenzialmente politico, per cui è richiesta una definizione degli obiettivi ultimi e la verifica delle compatibilità strategiche nazionali e un’attenta selezione di ciò che è oggetto di privatizzazione. E invece le privatizzazioni di IRI, EFIM ed ENI solo nelle dichiarazioni di principio (la fola dell’azionariato diffuso, per es..) hanno risposto a obiettivi di miglioramento di competitività e di efficienza del sistema economico, ma in realtà esse hanno puntato anzitutto a ingrassare profitti e rendite (“plusvalenze private da capogiro“ le definì uno che se ne intende), e favorire un nuovo regime di monopolio (pensiamo solo all’acqua e ai servizi pubblici in genere, alle autostrade, ecc.).

A titolo d’esempio: il 6 Dicembre 1993, l’IRI metteva in vendita il 64% del capitale azionario del Credito Italiano, ma solo 12 azionisti in sostanza riescono a controllare la Banca con il solo 16% del capitale sociale. Il caso della Banca commerciale italiana è esemplificativo: nel 1992 era collocata ai vertici nelle classifiche mondiali, un patrimonio netto di circa 6.000 miliardi di lire e con attività pari a circa 130 miliardi di lire. Se la sono pappata le Generali, Ras, Benetton, Gestione Fondi Fininvest, eccetera.

Per quanto riguarda l’ENI, negli anni dal 1993 al 1996 ha ridotto il proprio personale di circa il 33.5%. Segnatamente dal 1993 al 1996 si è avuta una diminuzione del 23,7% dei dirigenti, del 17,7% degli impiegati, del 13,8% dei quadri e del 33,7% degli operai. La prima fase di privatizzazioni dell’ENI si è avuta nel dicembre 1995 ed è stata avviata anche grazie al record del bilancio consolidato del 1994, che aveva toccato un’utile netto di 3.215 miliardi, il più alto di tutta la storia e uno dei più alti in Italia.

Alcuni responsabili di quelle svendite – i cui nomi sono noti – sono ancora vivi e andrebbero processati e condannati, confiscati i loro beni e quelli dei loro eredi. Se la sovranità appartenesse effettivamente al popolo e la legge fosse realmente uguale per tutti.

lunedì 21 gennaio 2019

Insuperabile Makkox



Oxfam, bla bla bla


Questa mattina, a Radiotre, durante la trasmissione Tutta la città ne parla, il discorso verteva sulla vexata qæstio delle disuguaglianze tra ricchezza e povertà (vedi rapporto Oxfam). Se n’è parlato richiamando i soliti luoghi comuni e le fruste ricette riformistiche, quelle che individuano nelle politiche fiscali il rimedio d’elezione per ridurre tali disuguaglianze e renderle accettabili.

Dopo decenni di queste ricette siamo pressappoco al punto di partenza, ossia aumentano anziché diminuire le disuguaglianze tra ricchi e poveri, anche se le punte estreme della povertà assoluta sembrano ridursi, ma ciò per effetto dello sviluppo economico e non certo per la bontà delle ricette fiscali proposte.

In buona sostanza tra questi emeriti stronzi c’è tacito accordo di censura, e dunque evitano con accuratezza di dire l’unica cosa sensata che dovrebbe essere posta in luce sul tema, e cioè che le disuguaglianze sociali sono l’architrave su cui poggia ogni società di classe, e che dunque la borghesia ha tutto l’interesse a far intendere che si tratti di un problema che riguarda la distribuzione e non già le forme di produzione della ricchezza, dunque i rapporti sociali borghesi(in primis i rapporti di proprietà).

I regimi sedicenti comunisti sono inevitabilmente e miseramente falliti; tuttavia ciò non significa che l’analisi marxiana e le ragioni del comunismo siano falliti con quei regimi.

giovedì 17 gennaio 2019

L'ingenuo prof. Canfora


Ieri sera, durante una trasmissione televisiva, il prof. Luciano Canfora ha affermato che chi considera l’innovazione tecnologica come una delle cause della riduzione della domanda di forza-lavoro ha una visione “ingenua” dell’economia. Semmai è invece proprio Canfora ad avere una visione ingenua, cioè idealistica, del modo di produzione capitalistico e delle sue leggi.

Partiamo propedeutici, giammai per chi sta sul palco ma per la platea.


domenica 13 gennaio 2019

Mito cinematografico e realtà storica degli U-boote


Sky sta trasmettendo otto episodi di uno sceneggiato incentrato sul tema degli U-boote. Un vero pastrocchio non solo dal punto di vista storico. In realtà si racconta di un solo U-boot (U-612) e della base atlantica di La Rochelle (*). Agli autori andrebbe ricordato, se non altro, che nel periodo bellico, e non solo a La Rochelle, vigeva il coprifuoco serale e notturno. Ad ogni modo, per chi volesse farsi un’idea dell’epopea degli U-boote nella seconda grande guerra, propongo la lettura di quattro post (immane fatica leggerli, meglio un twitter) che scrissi sull’argomento nel lontano maggio del 2011 (clicca). Già la prima frase potrebbe indurvi una qualche curiosità:

“I sottomarini sono un prodotto dell’industria bellica recente, comparsi sul finire dell’ultimo conflitto mondiale, negli ultimi giorni di quel delirio”.

Tra le altre curiosità: solo circa il 44% degli U-boote furono affondati dalla marina nemica.

Tanto per smentire ogni interpretazione cinematografica apparsa finora.

(*) La città si arrese solo al termine della guerra, nove mesi dopo la liberazione di Parigi, in seguito alla capitolazione tedesca dell'8 maggio 1945.

Nella realtà storica l’U-612 (Tipo VII C) il 5 marzo 1942 fu assegnato alla quinta Flottiglia, che era di stanza a Kiel . Durante questo periodo, il comandante Siegmann intraprese viaggi di addestramento nel Mar Baltico. L’U 612 affondò durante un’esercitazione il 6 agosto 1942 dopo una collisione con l'U 444 . Recuperato a 48 metri di profondità, il battello 612 presentava danni rilevanti e perciò fu adibito solo a scopi di addestramento. Il suo equipaggio fu assegnato all’U-230, il quale fu a sua volta distrutto dal suo equipaggio nell'agosto del 1944 quando gli alleati sbarcarono vicino a Tolone.

venerdì 11 gennaio 2019

Solo un dubbio


Da un articolo apparso oggi su Repubblica apprendo che persone della mia condizione farebbero parte delle élite: quelle che riescono a mettere assieme il pranzo con la cena e possiedono, dato alquanto significativo per entrare nel novero elitario, più di cinquecento libri. Insomma, solchiamo la stessa onda spumeggiante di un Soros. Solo un dubbio: ma Soros li avrà letti i suoi cinquecento libri?

giovedì 10 gennaio 2019

Solo un passepartout



Non ci sono soluzioni all'interno del sistema, non ce ne sono mai state e non ci potrebbero essere (sul motivo ho annoiato abbastanza). Siamo fermi all'illusione democratica, la quale è sempre più in crisi (le motivazioni addotte dagli “esperti” si sprecano). Ci spaventano con i cosiddetti populismi, sdoganando la canea fascistoide. Il vero totalitarismo è ben altro.

Quella del populismo è la deliberata politica del caos e del confusionismo costruito a tavolino. Basta farci caso: chi ha dato spazio mediatico a un movimento che al primo colpo s’è aggiudicato il 25% del voto elettorale? Nel 2013 non c’era momento in cui Grillo scoreggiasse dal palco che non fosse ripreso in diretta da tutte le tv. E il fenomeno Salvini? Com’è stato costruito e da chi è stato sostenuto e alimentato? Dalla rete, dai social? È la vecchia tv a fare ancora la differenza per quanto riguarda il consenso elettorale di massa.

Vi pare che un Salvini abbia la stoffa di un leader, non dico à la Mussolini, ma anche solo a livello di un Almirante riveduto e corretto anni duemila? Non lo credono nemmeno quei simpatici ragazzotti di CasaPound. È solo chiacchiere sgangherate e bucatini al ragù. Può essere (e penso che lo sia realmente) solo un passepartout. Serve ad altri, per il momento.

mercoledì 9 gennaio 2019

Antenna Italia



Un tecnico è venuto a sostituire la centralina dell’antenna televisiva. Mi ha raccontato che cosa gli accade quotidianamente nel suo lavoro. Per esempio: sale sul tetto di uno stabile e installa una parabola per la visione di Sky. Nello scendere dal tetto, gli si avvicina una signora dello stesso condominio, non interessata alla parabola di Sky, la quale lo rimprovera perché “prima vedevo meglio”. In un altro condominio, dove c’erano problemi di ricezione dei canali televisivi, un tizio gli ha detto che, dato il costo preventivato per la sostituzione della vecchia antenna, lui non avrebbe aderito alla spesa e invece si sarebbe comprato un nuovo televisore (sic!).

Questa è gente che vota, al pari di quella che è stata votata e governa questo disperato paese.

martedì 8 gennaio 2019

Come processo di storia naturale


Massimo Cacciari è preoccupato per la crisi della democrazia rappresentativa. Individua le cause di questa crisi anzitutto nella mancanza di reali riforme degli assetti istituzionali, dunque dei “poteri e funzioni tra centro, regioni e enti locali", in modo da stabilire "un rafforzamento delle assemblee legislative, riducendo drasticamente il numero dei rappresentanti, eliminando il senato, rivedendo i regolamenti così da rendere ancora più rapide le procedure, ma limitando a un tempo radicalmente la possibilità di ricorrere alla fiducia”. Questa analisi coglie il fenomeno, per quanto molto evidente, e trascura le cause più generali e profonde della crisi della democrazia rappresentativa.

Cacciari trascura  un aspetto essenziale della crisi, il quale riguarda proprio l'insufficienza del riformismo in quanto tale, cioè la sempre crescente difficoltà della politica nell’affrontare le insanabili contraddizioni del sistema capitalistico con aggiustamenti e pannicelli caldi, ossia con nuove leggi e regolamenti, con più snelle procedure, eccetera (ed infatti Cacciari lamenta che tale crisi non riguarda solo l’Italia, storicamente refrattaria a tali riforme).

Il riformismo aveva indubbiamente un senso e una validità pratica in certi periodi storici, ma oggi il capitalismo è diventato ben altro e le sue divaricanti contraddizioni procedono di pari passo con l’impetuoso sviluppo delle forze produttive che sta travolgendo i tradizionali rapporti sociali e cioè le condizioni di vita di tutti, in particolare modo di quella che fu la cosiddetta classe media sulla quale poggiavano le fortune politiche dei maggiori partiti.

Si sarebbe potuto evitare la caduta dell’ancien régime e dunque la rivoluzione borghese in Francia nel 1789? Al massimo, con misure più accorte, si sarebbe potuto tirare più in lungo la crisi di quel sistema e delle sue articolazioni statuali, ma non si sarebbe potuto evitarne la caduta, più o meno tragica e violenta. Ciò diventa chiaro solo se si concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale e non come il prodotto di singole, ma anche collettive, volontà politiche, economiche, militari, eccetera. Per una riflessione seria su questi temi bisognerebbe lasciar stare la mitica Maria della leggendaria Nazareth e tornare a qualche lettura riposta troppo in fretta molti decenni or sono.