domenica 30 novembre 2025

Viaggio filologico nella notte

Ho digitato una frase tratta dal romanzo di Céline: “quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia”. Che c’entra Garibaldi? Dialogo con Luigi Capeto? Buio, mistero.

Non c’è l’ho con la tecnologia, nemmeno con sta pseudo intelligenza artificiale. È che spesso, troppo spesso, si tratta di un guazzabuglio. Il passo di Céline, quasi per intero, recita così:

«Ve lo dico io, gentucola, coglioni della vita, bastonati, derubati, sudati da sempre, vi avverto, quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia... È il segnale... È infallibile. È con l’amore che comincia.»

È molto attuale il realismo di Céline .

Il titolo del libro di Céline, Viaggio al termine della notte, è preso da una strofa di una canzone: «Notre vie est un voyage / Dans l’Hiver et dans la Nuit /Nous cherchons notre passage / Dans le Ciel où rien ne luit» (La nostra vita è un viaggio / in Inverno e nella Notte / noi cerchiamo la strada / in un Cielo senza luce»).

Leggo da Wikipedia che Cèline pone la frase in esergo al romanzo, cosa esatta, “attribuendola all’ufficiale svizzero a capo delle guardie di Luigi XVI, Thomas Legler, al tempo della rivoluzione francese; in realtà, Legler era nato nel 1782 e cantò quella canzone, datata erroneamente da Céline al 1793, mentre era al servizio di Napoleone Bonaparte come guardia svizzera, durante la battaglia della Beresina del 1812 (Canto della Beresina)”.

Quei coglioni che lavoravano per Gallimard (editore che rileverà i diritti dell’opera negli anni Cinquanta), com’era già successo con il primo volume della Recherche, persero un’altra occasione: non s’accorsero che cosa avevano tra le mani e dunque il romanzo di Céline venne prima pubblicato da Robert Denoël (Denoël et Steele) nell’ottobre 1932. Tra parentesi e salvo la memoria non m’inganni, Cèline cita un solo scrittore nel suo libro: Proust (*).

Nell’edizione italiana, quella di Corbaccio del 1933, Thomas Legler non è citato. La strofa è attribuita alla “Canzone delle Guardie Svizzere, 1793”. Anche nell’edizione originale francese è stampato questo riferimento: “Chanson des Gardes suisses, 1793”. Dunque: da dove nasce la storia di Thomas Legler? Non certo da Céline.

In una notte di fine novembre del 2025, scopro, con sconcerto e disappunto, che nella mia biblioteca domestica non c’è una copia recente del romanzo di Céline, ma solo la prima edizione Corbaccio datata “31 maggio 1933”. Siccome ho la certezza di non aver letto il romanzo su tale edizione, mi chiedo infruttuosamente: a chi ho prestata la copia più recente del libro? Ah, dovrei chiederlo al dottor Alois A..

Leggo su Wikipedia che quest’opera di Céline è “un cupo, nichilistico romanzo in cui si mescolano misantropia e cinismo”. Dunque, la descrizione del generale sadico e dell’ipocrita piccolo borghese, suo complice, sarebbero “cinismo”? Da non credere: quando non si vuol capire un cazzo e si è prigionieri di un pregiudizio. Quella di Céline è una critica molto radicale (sennò che critica sarebbe?) di ogni eroismo militare, di ogni decoro piccolo-borghese (compreso quello proustiano). Innovativo, tuttavia mantiene un legame molto forte con la tradizione del romanzo francese del XIX secolo. In una lettera a Eugène Dabit, Céline scrive: “Non ho bisogno, vecchio mio, di lucidare il mio Destino per renderlo letterario, la vita mi serve oltre ogni aspettativa”.

Fortunato chi deve ancora leggere le due maggiori opere di Céline (Viaggio e Morte a credito).

(*) Nel 1922, Gallimard ha pubblicato una nuova edizione dal titolo Guerre, edizione curata da P. Fouché. Non l’ho letto. I critici definiscono l’edizione frettolosa (senza tener conto delle varianti, senza stabilire un apparato critico, e senza nemmeno utilizzare la trascrizione di Jean-Pierre Thibaudat). Guerre (titolo redazionale) è un romanzo inedito, scritto tra la pubblicazione di Voyage au bout de la nuit e quella di Mort à crédit (1936), più precisamente nel 1934? La questione del titolo, quella della datazione e quella dello statuto stesso del testo riguarda un’opera indipendente o piuttosto una bozza del Voyage? Sarebbe necessario analizzare la carta utilizzata, l’inchiostro impiegato da Céline, eccetera. Tutta roba seria. Una cosa mi pare certa, l’edizione di Guerre è il solito sfruttamento commerciale di uno dei più grandi scrittori del XX secolo. Nel 2031, le opere pubblicate di Céline entreranno finalmente nel pubblico dominio. Céline ha scritto anche altro di molto buono (facilmente reperibile), e anche Bagatelle, una cosa indigeribile, non perché antisemita, ma perché letterariamente è una ciofeca.

Céline mi ricorda anche Gianfranco Sanguinetti, un suo pamphlet in risposta a Bollati di Saint Pierre: «Lei si vanta ben a torto di conoscermi, Bollati, allorché non è nemmeno capace di riconoscere Céline da Stendhal! [...] Lei è un imbecille, Bollati di Saint Pierre, e la sua cultura ordinata e progressista non conosce Céline, ma in compenso conosce così bene Stendhal da non distinguerlo dal “reazionario” autore di Voyage au bout de la nuit. Come se fosse la cultura ad essere ontologicamente “reazionaria” o “progressista”, e non l’uso che se ne fa! In mano a lei non solo il mio libello, ma i Manoscritti del ‘44 diventano un’opera reazionaria, perché, se non ha capito il mio, sarà impossibile che comprenda quelli». Un’altra epoca, altri personaggi. Ora, prevalentemente, solo “coglioni della vita”. 

sabato 29 novembre 2025

Operazione Mida

 

Non occorrono grandi studi per camminare sulle corde emotive della storia e capire in quale direzione questa sta andando. Per quanto riguarda l’Ucraina è sufficiente tener d’occhio la cronaca criminale. Mentre a qualche chilometro i soldati muoiono nella fanghiglia gelata, a Kiev la borghesia rimasta a casa fa grandi affari e riempie i locali notturni: le mani dappertutto, sui culi e nelle tasche. Ciò significa che la guerra sta finendo o perlomeno deve finire al più presto (non ovviamente per i coglioni pro-Ucraina).

Domenica scorsa, Andriy Yermak, capo di gabinetto dell’Ufficio di presidenza dell’Ucraina, ha guidato la delegazione ucraina ai negoziati a Ginevra. Ieri mattina, l’Ufficio Nazionale Anticorruzione (NABU) e la Procura Specializzata Anticorruzione (SAP) hanno annunciato un’irruzione nel suo appartamento nel distretto governativo di Kiev. Nel pomeriggio, Yermak, ex produttore cinematografico e avvocato esperto di media, membro del Consiglio per la sicurezza e la difesa nazionale dell’Ucraina e presidente della sede di coordinamento per gli affari umanitari e sociali, ha presentato le sue dimissioni al suo amico di lunga data Zelenskyj (*).

L’Operazione Mida, un nome che è già di per sé eloquente, riguarda il più grande scandalo di corruzione che ha coinvolto il governo della premier Yulia Svyrydenko e del presidente Volodymr Zelensky, è stata resa pubblica dal NABU e dal SAP il 10 novembre. Ancora a luglio, Zelenskyj aveva tentato di estromettere NABU e SAP. A seguito di proteste in Ucraina e all’estero, entrambe le agenzie hanno potuto continuare il loro lavoro.

Il nuovo caso è solo l’ultimo di una serie che a corrente alternata ha colpito negli ultimi anni il governo, l’amministrazione e i settori economici e industriali, in primis quello militare: anche Oleksiy Reznikov, solo per citare uno dei nomi più noti, ministro della Difesa sino al 2023, era stato costretto alle dimissioni dopo ripetuti scandali che avevano interessato le forze armate. Due ministri, quella dell’Energia Svitlana Hrynchuk e quello della Giustizia German Galushchenko, sono stati costretti a farsi da parte dopo essere finiti nei radar del NABU. La corruzione è rimasta in sostanza un problema irrisolto in Ucraina, dove oligarchia e clientelismo sono assi portanti del sistema. L’Ucraina è attualmente al 105esimo posto al mondo nella classifica stilata da Transparency International.

Il 10 novembre, il capo di NABU, Alexander Abakumov, aveva annunciato in televisione la conclusione dell’Operazione Mida, che ha svelato le corruzioni all’interno di Energoatom, la società statale ucraina per l’energia nucleare, per ottenere tangenti pari al 10-15% del valore dei contratti. Gli investigatori hanno sostenuto che la rete ha riciclato circa 100 milioni di dollari. Abakumov ha dichiarato che, insieme a SAP, avevano raccolto più di mille ore di materiale audio che dimostravano l’esistenza di una organizzazione criminale di alto rango operante nei settori dell’energia e della difesa.

Il capo dell’organizzazione criminale era Timur Mindich (anche lui amico di lunga data dell’ex-attore specializzato in fallofonie e diventato presidente), comproprietario della casa cinematografica Kvartal 95 dello stesso Zelenskyj, oltre che proprietario di un immobile da 6 milioni di dollari in Svizzera. Poche ore prima che la banda venisse scoperta, era fuggito in Israele con un altro noto corruttore. La soffiata è arrivata dall’alto.

Il parlamento ucraino aveva già chiesto le dimissioni di Yermak; il suo nome appare spesso nelle registrazioni dell’inchiesta. È scomparso dalla scena pubblica per diversi giorni ed è ricomparso solo quando Trump ha attirato l’attenzione sul suo piano di pace, il 20 novembre. Più di recente, l’ex ministro della Difesa Rustem Umerov, che faceva parte della delegazione a Ginevra, è stato convocato dagli inquirenti per corruzione.

L’effetto dell’Operazione Mida non è solo giudiziario, bensì politico e si inserisce nel duello interno che è venuto in questi mesi in superficie, ma che in realtà è sempre stato sottotraccia: da una parte il presidente e il suo cerchio magico; dall’altra gli altri poteri forti, sia quelli interni, come quello capitanato dall’ex presidente Petro Poroshenko, che quelli più legati ai circoli occidentali, statunitensi ed europei. Bisogna anche tener conto delle tensioni fra il nuovo capo di stato maggiore, Oleksandre Syrsky, e il ministro della difesa, Rustem Umerov. Insomma, mentre il fronte ucraino sta cedendo in più punti, a Kiev è in atto una lotta di potere senza esclusione di colpi.

La Commissione europea, che teme che l’Ucraina diventi insolvente entro la metà del 2026, ieri ha rilasciato una dichiarazione a Bruxelles attraverso la portavoce Paula Pinho, affermando, con sprezzo del ridicolo, di considerare le perquisizioni nell’ufficio di Yermak come un segno dell’efficacia delle misure anticorruzione nel Paese. Motivo per dare altri soldi alla cricca di Kiev.

(*) L’Ufficio del Presidente dell’Ucraina, è un organismo istituito di consulente permanente dal Presidente dell'Ucraina ai sensi dell’articolo 106, comma 28, della Costituzione dell’Ucraina. L’Ufficio è composto dal capo dell’Ufficio del Presidente dell’Ucraina, dai vice capo, dal capo di Gabinetto, dal primo assistente del Presidente, dai consiglieri, dai consiglieri autorizzati, dal segretario stampa, dai rappresentanti del Presidente, dal gabinetto del Presidente, dal gabinetto del capo dell’Ufficio, dai Servizi, dalle Direzioni e dai Dipartimenti. La sede centrale è nella centralissima via Bankova (via della Banca) 11 a Kiev.

venerdì 28 novembre 2025

Sonnambuli

Non c’è uno di noi che non abbia avuto almeno un nonno antifascista e partigiano. Sembra che nell’Italia di allora esistessero solo antifascisti e partigiani. Mio nonno non è stato partigiano, perché non se lo poteva permettere. Nel senso che doveva provvedere a una famiglia numerosa della quale era l’unica fonte di sostentamento. E però, come altri, non se ne stette proprio inerte, per cui l’hanno rinchiuso nel carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia. Nonostante le suppliche di mia nonna, i tedeschi lo spedirono in villeggiatura all’estero, dalla quale tornò minato irrimediabilmente nella sua salute. Fu lui la prima persona, quando avevo cinque o sei anni, a parlarmi dei fascisti. Io non capivo chi fossero, e tantomeno capivo chi fossero i partigiani, che nella mia ingenuità infantile identificavo nei “giapponesi”, senza avere anche in tal caso la minima idea di chi fossero questi ultimi. La cosa che più mi stupiva del suo racconto, era il fatto che secondo lui i fascisti esistevano ancora e invece partigiani non più. Non comprendevo come ciò fosse avvenuto, perché erano scomparsi i partigiani? Il nonno tagliava corto e mi diceva che i partigiani erano scomparsi perché credevano di aver vinto contro i fascisti. Non riuscivo a venire a capo di tale enigma e mi ci volle qualche anno prima che la faccenda mi diventasse chiara. Da allora non ho più avuto dubbi sul perché i fascisti ci sono ancora e perché i partigiani sono scomparsi. Perché i fascisti hanno vinto.

giovedì 27 novembre 2025

Questa sinistra vittoriosa

 

Ciò che allontana le persone è semplicemente ciò che pensano e ciò in cui credono. E da dove viene questa roba? Dal sistema economico e finanziario che ha promosso le industrie della comunicazione sostenendo la proliferazione e la mobilità delle reti, creando una società dell’intrattenimento, nella quale siamo trascinati in una spirale di stupidità, inseguendo come criceti che corrono su una ruota una quantità astronomica di “notizie” di scarsa qualità (eufemismo).

Se controlli la comunicazione, direttamente o con l’intimidazione, è chiaro che controlli il processo politico e il consenso. Si dirà che giornali e tv hanno perso rilevanza, che è roba di fascia geriatrica. Non è così. La maggior parte delle notizie veicolate e amplificate dai social ha come base ciò che viene pubblicato dalla stampa e trasmesso dalle tv.

Per una analisi più soggettiva, va rilevato che non c’è nessuno, o quasi, che nella stampa o in tv abbia il coraggio di dire le cose per come sono, di chiamarle con il loro nome. Nessuno, per esempio, afferma che il riarmo e la guerra sono mezzi per sfuggire alla cronica crisi economica dell’Occidente. La coalizione pragmatica ed elettorale tra Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle, ha forse una posizione chiara e univoca sulla questione della guerra e della pace?

Oppure, nel rispondere a una domanda su questo o quel personaggio politico non c’è nessuno che evochi la parola “fascista”. Pierluigi Bersani arriva a dire che questi nostalgici vengono “da quella roba là”. A quale legame storico allude? Oltre non va, non s’azzarda a dare del fascista a gente che siede nei più alti scranni della repubblica e però esibisce con orgoglio il busto di Mussolini. Come se questi non fosse stato il maggior alleato di un certo Adolf Hitler!

Mai una parola sulle forze sociali ed economiche che spingono verso questa deriva populista, autoritaria e fascista. Quali interessi economici e finanziari sono coinvolti in questa situazione di crisi ormai avanzata? E anche quando si fa menzione della disuguaglianza sociale o della crescita dell’oligarchia miliardaria, sembra si parli degli omini verdi di Marte.

Negli ultimi due decenni, i governi che si sono succeduti hanno fatto sì che i salari in Italia fossero tra i più bassi d’Europa e, nonostante l’inflazione, in termini di potere d’acquisto siano inferiori a quelli di 20 anni fa. Lo dice la CGIL, che però ha ripreso le sue vecchie pratiche, ovvero negozia contratti quadriennali pessimi per i lavoratori che prevedono aumenti salariali irrisori.

La sinistra liberale e democristiana rimane intrappolata nel sistema esistente, non ne mette in discussione la logica. Nulla da dire sulla trasformazione tecnologica capitalista e la reale sottomissione della forza-lavoro attraverso la disoccupazione e il precariato strutturale, la competizione permanente tra i lavoratori (immigrazione e delocalizzazione, dequalificazione), eccetera. Il campo largo, per farne cosa?

Presentano il mercato, ossia il capitalismo, come un ordine naturale della società, intriso di coerenza ontologica (la catallassi di Hayek!). Ci parlano di democrazia, che è una parola vuota quando la stragrande maggioranza della popolazione non conta nulla. Di libertà, che è una parola falsa quando si è obbligati a lavorare per la sopravvivenza arricchendo chi a suo capriccio ti sfrutta o ti licenzia. Questa è violenza consolidata.

Questa sinistra, non meno della destra, è contraria ad ogni forma di azione collettiva che sollevi interrogativi sul sistema. È contro qualsiasi sfida politica al capitalismo, contro ogni progetto di trasformazione basato sul superamento dell’impresa capitalista e il suo mercato. Riconosce come sacre le ragioni dell’accumulazione privata (salvo una più equa distribuzione: sono dei pagliacci), ed è consustanziale al potere del neocapitalismo globalizzato, alla guerra economica e sociale condotta dalle élite dominanti negli ultimi decenni, che ha distrutto e liquefatto l’ordine che un tempo tollerava le conquiste dello Stato sociale.

mercoledì 26 novembre 2025

[...]

 

Dopo aver riflettuto, ho deciso di non usare la trascrizione della mia cartella clinica nel post che sto scrivendo. Nonostante si tratti di trascrivere un’anamnesi breve, sincera e schietta, non penso interessino le mie patologie, che spaziano dalle notti insonni a certe giornate di noia.

Il mio medico era all’antica, scriveva le ricette con una penna a sfera finché non glielo hanno impedito. Negli ultimi anni, prima della pensione, fu costretto a dotarsi di computer e stampante, e ciò solo, mi diceva, per scrivere delle ricette. Lo faceva ribollire dentro.

Passavamo un’oretta assieme nel suo ambulatorio. Fuori, ad aspettare, quasi mai c’era qualcuno la sera tardi. Mi raccontava qualche sua storiella, vera o verosimile che fosse. Il suo modo di narrare mi intrigava. La prendeva alla lontana e, quando sembrava che si fosse perso nel discorso, in un lampo arrivava alla diagnosi: il mondo è sempre più di merda.

Mi raccontava anche cose più amene, di quando era stato in marina. I marinai, mi diceva, non soffrivano mai di mal di gola. E spiegava il perché di questo insolito fenomeno constatato in due anni di ferma come sottotenente medico.

A me non interessava fosse un bravo clinico, solo che non facesse difficoltà nel prescrivermi ciò di cui ho bisogno per affrontare la vita, dunque assai poco e sempre la solita mercanzia. Anche per i farmaci è tutta una questione di valore aggiunto.

È morto l’estate scorsa per un infarto all’età di 68 anni, poco dopo la pensione. Ricordo la cupa processione dei partecipanti al funerale, quasi tutte persone dalla settantina in su. La figlia, dietro la bara, era seguita da un flusso laminare di Opium di Chanel, di modo che l’incenso tardava ad attecchire.

Il medico che lo ha sostituito, con la faccia immersa nel suo computer, ha l’elocuzione pontificante di un prete nel suo confessionale. Cos’è questa nuova voce che si gonfia nel parlarmi? È consapevole del posto al vertice della gerarchia stabilita tra medico e paziente. Ha sempre una diagnosi pronta, vuole dimostrarmi rapidamente il suo sapere e potere. A trent’anni crede perfino di conoscere che cos’è il mal di vivere.

martedì 25 novembre 2025

Un fronte di resistenza

 

Il liberalismo ha assorbito i suoi avversari, dimostrando che altre forme politiche e sociali non possono sostituire quella della democrazia rappresentativa di mercato. Una diagnosi che sembrava inoppugnabile. Ci sono voluti circa vent’anni perché la concezione liberal- liberista del mondo (condivisa dalla corrente social-liberale) iniziasse a mostrare le corde. La violenza del processo di globalizzazione ha esacerbato le insopportabili contraddizioni tra sfruttatori e sfruttati nei paesi capitalistici centrali, e tra questi e le periferie.

Questa situazione si riverbera inevitabilmente nella “crisi della democrazia”, laddove il sistema rappresentativo non regge più laddove almeno la metà dell’elettorato non va al seggio. Non cambia nulla e “loro” fanno finta di niente. Il principio democratico è salvo. Tuttavia si crea nella società un fronte di resistenza passiva, che man mano diventa maggioritario. Anche così, però, non cambia nulla. E allora cosa si fa, chi osa mettere a rischio la propria libertà e incolumità personale? Ci vuole una motivazione forte per farlo.

Una motivazione ideologica, per esempio. Ma dove scovarla di questi tempi in cui tutti gli dèi e gli ideali sono nel fango degli altari e della storia? Benedetto Croce, nella sua Storia dell’Europa del XIX secolo, ci disse che l’era delle rivoluzioni politiche è finita e appare come una parentesi sanguinosa e inutile nella storia umana, una sospensione ingiustificabile del normale corso degli eventi, che implica solo una rivoluzione tecnologica permanente nel quadro del mercato globale e delle sue strutture giuridiche e politiche (*).

Un primo grosso ostacolo alla formazione di un movimento rivoluzionario di massa è certamente da ricercare nel passato immediato, ed è il fallimento della rivoluzione comunista nella sua forma sovietica, che non può essere facilmente o rapidamente dimenticato, tanto pesante è stato il prezzo pagato in errori e orrori. Un terrore strutturale che portò il regime alla feticizzazione di un’organizzazione militarizzata e gerarchica che sostituì l’iniziativa popolare, con l’eliminazione fisica dei suoi avversari reali o immaginari.

Se oggi una motivazione ideologica non c’è, allora sono necessarie condizioni individuali estreme, che, sommandosi, diventino motivazioni di massa. Loro, i manipolatori, lo sanno. Hanno dalla loro parte la statistica e altri strumenti per una sorveglianza capillare, che li allerta quando il vaso di Pandora sta per traboccare. Intervengono con misure mirate perché il malcontento sociale non trabocchi in disperazione e dunque in azione aperta e violenta.

Se la democrazia elettorale è un bluff, se lo stato sociale è diventato troppo costoso per le classi dirigenti (la dottrina dello stato minimo), se il compromesso tra le classi è in bilico, non resta che predisporre misure preventive, politiche e no, tantopiù che il ticchettio della bomba sociale è in sincrono con la bolla finanziaria.

Lo Stato è allineato a funzioni di controllo politico sulle popolazioni, modifica le regole della legalità perché non si vuole lasciare spazio a fermenti sociali “pericolosi”. La fobia per la sicurezza è all’ordine del giorno, ben alimentata dai media. È una operazione psicologica che viene sostenuta nella concreta tolleranza di azioni criminogene diffuse da parte di bande di grassatori e di spostati (per contro sono vietati i raduni giovanili).

Si raccomanda alle plebi di tenere scorte di denaro e di cibo, si alimenta il panico per un’imminente invasione russa, e così le ultime manovre della NATO si sono concentrate sulla guerriglia urbana in “ambienti ostili”. Per tacere di ciò che sta avvenendo nelle metropoli statunitensi.

Dunque, per concludere, è vero che capitalismo ha cancellato non solo il feudalesimo, ma anche il comunismo sovietico e tutte le forme immaginate di socialismo. È però si sta facendo strada, anche se lentamente, una rottura ontologica nel nostro rapporto con la realtà del capitalismo, il quale, com’è noto, riconosce solo la legge del suo spietato dinamismo strutturale, che non rispetta nulla e nessuno, se non la sua stessa legge, che si manifesta nella ricerca senza fine del più alto tasso di profitto. Un disincanto che svaluta ogni valore sociale ed umano che pretende di essere sacro, e ciò fa intravvedere la possibilità e anche la necessità del cambiamento.

(*) Non è casuale che la sinistra parlamentare italiana sia stata sempre crociana (se non nelle parole, certamente nei fatti) o stalinista, ma non marxiana. Per dirla con Rossana Rossanda: «Eravamo sempre là, al crocianesimo di ritorno nella formazione del gruppo dirigente comunista». E del resto, scriveva sempre Rossanda, Marx «nessuno lo leggeva”» (La ragazza del secolo scorso, p. 301).

L’assalto al quartier generale

 

Per un paio di giorni ci terranno occupati con altro, tuttavia l’esito del conflitto in corso in Ucraina ci riguarda da vicino fin troppo. Non ne sembriamo consapevoli e sbucciamo piselli come nulla fosse.

A seguito dei colloqui tra i rappresentanti di Stati Uniti, Ucraina e alcuni Stati membri dell’UE a Ginevra, sono state apportate modifiche a dir poco significative al piano di Donald Trump per porre fine alla guerra in Ucraina.

Questo piano attualmente esiste solo sulla carta, e senza l’accordo della Russia sul nuovo piano, il piano rivisto di Trump non è altro che aria fritta. La nuova bozza non include più gli obiettivi politici centrali della Russia, come l’esclusione dalla NATO, la limitazione delle dimensioni delle forze armate ucraine e la messa al bando dei gruppi fascisti in Ucraina. Il nuovo piano omette inoltre qualsiasi garanzia sullo status della lingua russa in Ucraina.

Quanto poi alla questione dei territori, siamo lontani anni luce da un accordo. Dunque sembra dubbio (eufemismo) che la Russia sia disposta ad accettare questa base negoziale dato l’attuale stato del conflitto. E allora a che cosa serve tutta questa manfrina? È solo propaganda, per addossare la responsabilità del rifiuto del piano alla Russia. Bisogna essere dei disonesti per non ammetterlo.

Inoltre, e questo ci riguarda da vicino, l’esito di Ginevra potrebbe rappresentare un successo per l’UE nella sua lotta con gli Stati Uniti per il riconoscimento come forza politica, soprattutto perché Trump l’aveva già designata come il più importante contributore finanziario.

Il vantaggio della bozza originale, quella di Trump, era che affrontava i principali obiettivi politici della Russia: dalla rinuncia all’espansione della NATO alla creazione di una nuova architettura di sicurezza europea e all’estensione dei più importanti accordi sul controllo degli armamenti. Il punto debole, molto debole, era dato dal fatto che rinviava sine die la questione territoriale. La nuova bozza su questo punto è addirittura peggiorativa e inaccettabile per la Russia.

Si potrebbe persino parlare di sabotaggio della pace. Ma una cosa è chiara: Volodymyr Zelensky può vivere tranquillamente con il “piano di pace” rivisto. Prolungherà la guerra e non dovrà più affrontare la minaccia di nuove elezioni, che molto probabilmente perderebbe. Il ritorno della pace in Ucraina è impossibile se gli ucraini non daranno l’assalto al proprio quartier generale.

lunedì 24 novembre 2025

Mario Draghi, l’architetto delle illusioni

 

Quante cose si sono dette e scritte sul famoso summit avvenuto nel 1992 sul panfilo Britannia, evento simbolico che ha dato il via alla massiccia stagione di privatizzazioni delle aziende statali che operano in settori assolutamente centrali per la consistenza economica, come le grandi banche, l’IRI, l'Eni e Telecom Italia.

Ieri, sul Sole 24 ore (e dove sennò?) ne ha parlato Giovanni Tamburi, “imprenditore- investitore innamorato delle imprese e delle strategie”. Ma soprattutto componente “della prima commissione presieduta da Luigi Cappugi, espressione del ministero del bilancio guidato da Paolo Cirino Pomicino durante l’ultimo governo Andreotti, [il quale] conserv[ò] la posizione durante il governo di Giuliano Amato, che portò avanti con grande decisione il progetto di privatizzare tutto il possibile”. Dunque, un tizio che le cose le ha viste da vicino, tanto è vero Tamburi partecipò all’organizzazione della crociera sul Britannia: “Il Britannia attraccò a Civitavecchia, Mario Draghi direttore generale del Tesoro salì a bordo, lesse agli investitori stranieri il discorso sul programma di privatizzazione e scese subito dallo yacht”.

Che un simile evento sia avvenuto su una nave privata battente bandiera straniera è già di per sé sintomatico, perciò che Draghi sia sceso dal battello subito dopo aver descritto il piano di svendita, come s’affretta a precisare Tamburi, è un’espressione che ha il fetore di una excusatio non petita. L’epoca era quella del Trattato di Maastricht, della liquidazione di un modello economico a forte impronta pubblica che, a causa del patronage politico, era fuori dalla logica economica, tanto che era opinione generalizzata che non si poteva evitare un ampio processo di privatizzazione.

Le motivazioni alla base della vasta operazione di privatizzazione erano queste: il settore pubblico era diventato una palude d’interessi politici e di intrecci corruttivi; la privatizzazione avrebbe contribuito ad attenuare l’entità del debito pubblico che negli anni Ottanta appariva fuori controllo, un punto questo su cui insisteva particolarmente l’Unione Europea (accordo Andreatta-Van Miert); inoltre, si pensava esistesse in Italia una riserva di imprenditorialità che con le privatizzazioni avrebbe avuto occasione di dispiegarsi senza ostacoli.

Questi propositi mercatisti andranno in grandissima parte delusi. Pur essendo l’Italia quasi in testa alle classifiche per valore delle privatizzazioni operate dal 1985 al 2000, con i ricavi di esse il debito pubblico venne appena scalfito. Inoltre, la decisione di destinare i proventi delle privatizzazioni alla riduzione del debito pubblico piuttosto che agli investimenti si è rivelata contraddittoria. Quanto all’imprenditoria privata, essa si è dimostrata incapace di svolgere un ruolo strategico e aggregante. La vicenda dell’acciaieria di Taranto e dei Riva è ampiamente nota, così come quella dei Benetton, che hanno puntato senza riserve alla rendita con le autostrade. Discorso a parte meriterebbe la vicenda dei cosiddetti “capitani coraggiosi”, che conquistano la Telecom con un leverage.

Storicamente lo Stato ha compensato un capitalismo privato che, in momenti chiave dello sviluppo del Paese, ha dimostrato una mancanza di coesione e privilegiato guadagni a breve termine. Il disimpegno pubblico è stato disastroso per l’industria italiana. Le multinazionali straniere hanno acquisito aziende anche in settori strategici un tempo considerati vitali (informatica, prodotti chimici, elettronica di consumo, alta tecnologia e siderurgia). La presenza di capitali stranieri non è di per sé problematica. Tuttavia, sorgono problemi quando gli interessi strategici di un Paese sono subordinati a potenze straniere. Il trasferimento di aziende nazionali a proprietà straniera implica una perdita di controllo su decisioni cruciali: l’ubicazione dei siti produttivi (leggi occupazione), la ricerca, la distribuzione degli utili e il reinvestimento.

La fine del modello di economia mista (che andava riformato, non annientato), unita al calo della domanda interna a causa della compressione dei salari (a vantaggio delle rendite finanziarie e delle imprese esportatrici), ha portato a una riduzione ancora più drastica delle dimensioni aziendali. Ciò che è rimasto sul territorio ha subito un inesorabile declino e dimostra che il capitalismo italiano ha bisogno del sostegno statale per prosperare. Inoltre, va ricordato che l’Italia è uno dei pochi paesi europei ad aver ridotto il numero dei suoi dipendenti pubblici facendo ampio ricorso a pratiche di esternalizzazione per i servizi pubblici locali, in particolare nei settori dei trasporti, della sanità e dell’istruzione.

Che più della metà dell’elettorato non si rechi alle urne, non è un fatto incidentale.

La guerra continua

 

Hanno messo le manacce loro al cosiddetto piano in 28 punti di Trump. Avranno l’alibi che è la Russia a non voler accettare il piano riscritto radicalmente secondo i desiderata del capo dell’intelligence militare ucraina Kyrylo Budanov (presente a Gnevra). Basta leggere, per esempio, l’articolo 20 per avere chiaro che non vogliono la pace, laddove si legge che saranno “possibili scambi territoriali” ma da concordare successivamente. Non solo, l’articolo 13 prevede che “L’Ucraina sarà completamente ricostruita e risarcita economicamente anche tramite beni sovrani russi che resteranno congelati fino a quando la Russia non compenserà i danni causati all’Ucraina”.

Tutto è stato deciso con la partecipazione dell’Ucraina, ma senza la partecipazione della Russia. Vogliono la guerra. L’avranno.

Il prigioniero


C’è trepidante attesa sul mercato librario francese. Il 10 dicembre uscirà l’attesissimo Diario di un prigioniero (Journal d’un prisonnier). Si potrebbe supporre che si tratti di un detenuto con una palla al piede, soprattutto perché è appena uscito nelle sale francesi l’adattamento cinematografico del racconto di Jean Valjean, creato dalla penna di Victor Hugo. La vicenda di un uomo uscito di galera dopo una condanna ventennale ai lavori forzati a causa di un furto commesso per fame (*).

E invece le memorie di prigionia che stanno per uscire per i tipi delle edizioni Fayard – il marchio è stato recentemente acquisito dal multimiliardario di estrema destra Vincent Bolloré – riguardano un ex galeotto che ha trascorso non più di venti giorni nel prestigioso carcere di La Santé a Parigi, nutrendosi quasi solo di yogurt.

Si tratta del marito di Carla Bruni, condannato a cinque anni di carcere per corruzione internazionale e finanziamento politico illecito, che ha iniziato a scontare la pena il 21 ottobre. Sebbene sia riuscito a evitare l’incarcerazione immediata dopo il verdetto (come è avvenuto per i suoi coimputati, l’intermediario Alexandre (Ahmad) Djouhri e il banchiere 81enne Wahib Nacer, rilasciato il 28 ottobre), il tribunale non gli ha permesso di attendere il processo d’appello (le udienze sono previste da marzo a giugno) in libertà e nemmeno agli arresti domiciliari (**).

Il prigioniero, meno di tre settimane dopo, il 10 novembre, è stato rilasciato dalla Corte d’Appello di Parigi, che ha stabilito che non rappresentava un rischio di fuga e lo ha posto sotto sorveglianza giudiziaria. I giudici di primo grado avevano giustificato l’ordine di custodia cautelare immediata con la “gravità eccezionale” dei reati.

Al povero Nicolas, questo il nome del marito della Bruni, sono state imposte alcune dure condizioni. La più importante, e decisamente disumana, fu che non gli fu permesso di incontrare di persona il ministro della Giustizia in carica, Gérald Darmanin, durante il periodo precedente al processo. Darmanin, ex collega di partito di Nicolas, gli ha comunque fatto visita in carcere il 29 ottobre, durante la sua fulminea detenzione.

Il settantenne ha maturato profonde intuizioni filosofiche durante la sua prigionia. “Simile a un soggiorno nel deserto”, scrive su X, “la prigione rafforza la vita spirituale interiore” (A l’image du désert, la vie intérieure se fortifie en prison). Dunque, Nicolas dovrebbe rimpiangere che il suo periodo dietro le sbarre sia stato troppo breve perché potesse davvero beneficiare di questo vantaggio.

(*) A firma del regista Éric Besnard, con protagonista Grégory Gadebois, già col. Hubert- Joseph Henry nel film di Polanskiy L’ufficiale e la spia.

In un angolo nascosto del cimitero di Pere-Lachaise a Parigi si trova la tomba di Jean Valjean, il protagonista del libro. In un luogo deserto, vicino a un vecchio muro, sotto un grande tasso – scrive Hugo – c’è una lapide senza nome. A nessuno verrà in mente di andarla a cercare perché non è vicina ad alcun sentiero e l’erba lì attorno cresce folta e bagna i piedi. Al massimo, quando c’è un po’ di sole, andranno a visitarla le lucertole.

Un certo numero di persone, alcune o moltissime, avranno provato almeno una volta a rintracciare quel vecchio muro, quell’albero e quella lapide senza nome. Sarebbe come cercare la tomba di Madame Bovary. 

(**) L’imprenditore libanese Ziad Takieddine ha raccontato più volte di aver trasferito milioni di dollari su un aereo privato da Tripoli all’aeroporto Le Bourget e di averli consegnati al braccio destro di Sarkozy, Claude Gueant (già ministro dell’Interno e segretario generale della presidenza della repubblica, per l’affare libico è stato condannato ad un anno). In particolare, Takieddine era un concorrente di Djouhri nel commercio di armi e nella mediazione in Libia.

Il nome di Ziad Takieddine evoca un altro affaire, quello dei sottomarini della classe Agosta, uno scandalo che coinvolse le presidenze di François Mitterrand e Jacques Chirac. Il più pulito ha la rogna. 

domenica 23 novembre 2025

In ordine sparso

 

I cosiddetti “bambini nel bosco”. Sono diventati un caso mediatico, ecco perché se ne occupano i magistrati e, quel che è peggio, i politicanti (“politica” è un termine nobile, non si pratica da decenni). Che cosa vorrebbero farne di quei bambini? Separarli per darli in adozione ad altre famiglie? Follia. Siamo sicuri che i bambini delle periferie, di certi quartieri, o di certi “campi”, vivono in condizioni migliori? Sono felici quei “bambini nel bosco”, che non è poco. E sicuramente anche in quelle condizioni cresceranno meglio di tanti altri bambini dotati di tutti i comfort (o presunti tali). La questione dell’istruzione? Basterebbe una maestra di sostegno a domicilio qualche ora la settimana. Il resto, se quei bambini hanno una buona predisposizione, verrà da sé.

I sedicenti leader europei, l’ho già detto (sempre per ciò che vale, ovvio), non vogliono ammettere la sconfitta. La loro sconfitta. È una questione di orgoglio (non solo). Dell’Ucraina non gliene importa nulla, anzi, gliene importa “il giusto”. I 28 punti sono una resa ... ai punti, ovvio. E però sono convinti che la continuazione della guerra in Ucraina sia preferibile a una pace in cui l’Ucraina debba fare delle concessioni. Ma anno dopo anno, mese dopo mese, sarà sempre peggio. Basta morti e distruzioni. Pensare che la Russia possa stare fuori dell’Europa è da sconsiderati. Quando i cinesi avranno preso, di fatto, il potere in Europa, ne riparliamo. Stupidi.

Le teologhe femministe? Basta, non se ne può più di questa gente che ti parla a bassa voce e con un tono da crema calda. Vanagloriose e furbe, elaborano meticolosamente la loro narrazione e non perdono mai l’occasione di proclamare in lungo e in largo che sono le autentiche interpreti della Verità rivelata.

Lockdown per ricchi.

sabato 22 novembre 2025

Il rettile

 

Quando tutto è valore, denaro, un valore d’uso diventa il suo opposto, contraddice il semplice buon senso: nessun valore è più valido. Uno scontro di valori. Un esempio? La vita, che dovrebbe essere il valore supremo. Ci definiamo pro-life, ma allo stesso tempo fabbrichiamo e vendiamo armi da fuoco sempre più letali. Un altro? Ci definiamo democratici, ma facciamo tutto il possibile per danneggiare gruppi di persone che lottano per la propria libertà, popoli che lottano per la propria terra e indipendenza. Ma perfino l’argomento sesso. Solo se accompagnati dai genitori. Loro di sesso e affettività ne sanno, eccome. Interroghiamo il ministro sulle sue competenze di genitore, sulla educazione ricevuta, l’ambiente familiare, la sua formazione, scolastica e professionale, sui suoi “valori”. Turbato davanti a lesbismo e omosessualità. A disagio davanti all’articolo tre. Come dice ministro? Ah, il codice genetico non accetta parità. Il maschio è maschio e la donna è sempre un po’ mamma e un po’ troia, vero? Tranne la sua di mamma; tranne la sua di moglie. Va bene, buttiamola sul biologico. Lei sa che cos’è il codice genetico? Se lo sapesse non lo tirerebbe in ballo. Tutti i primati derivano dai rettili, e lei un po’ rettile è rimasto.

venerdì 21 novembre 2025

Un fenomeno meramente superficiale

 

La disuguaglianza è considerata un fatto naturale, e la prosperità è ben meritata se il singolo individuo ha dimostrato spirito imprenditoriale e audacia. La ricchezza, concentrata nelle mani di pochi eletti, è cresciuta fino a raggiungere proporzioni quasi inimmaginabili, mentre la povertà si diffonde inesorabilmente verso la classe media. I leader politici si rendono sicuramente conto che il perdurare di questa tendenza minaccia seriamente la stabilità di una società che produce un simile fenomeno, ma se ne fottono per varie ragioni.

La ricchezza dei miliardari nei paesi del G20, come Oxfam ha ora comunicato al mondo, è aumentata di 2,2 trilioni di dollari in un anno: del 16,5%, da 13,4 trilioni a 15,6 trilioni di dollari. Si replica che questo aumento da solo sarebbe sufficiente a far uscire dalla povertà 3,8 miliardi di persone. Da qui la richiesta di una “tassazione efficace” dei super-ricchi del mondo. E una miriade di libri inutili da Stiglitz a Piketty (per citare) che ci vogliono spiegare l’origine della disuguaglianza moderna.

Su una maggiore tassazione si può essere d’accordo, ma la questione reale non viene con ciò affrontata in radice. È vero che negli ultimi decenni i paesi industrializzati dell’OCSE hanno sistematicamente abbassato le aliquote fiscali più alte rispetto al livello a metà degli anni ‘60, avviando così una massiccia ridistribuzione del reddito e della ricchezza verso la cima della piramide sociale che continua ancora oggi. E ciò rivela chiaramente nell’interesse di chi è stata e continua a essere condotta la politica.

Il diavolo continua a cagare sul mucchio più grande: i ricchi fanno i ricchi, ossia i propri interessi, discutere su ciò è sterile. L’eccesso di ricchezza di pochi eletti è un sintomo di sovraccumulazione cronica, non un segno di successo, bensì di crisi. Pertanto, criticare i ricchi non è un errore, ma soffermarsi solo su tale aspetto significa criticare in modo inadeguato il capitalismo concentrandosi su un fenomeno meramente superficiale.

Il 3 dicembre di dieci anni fa, scrivevo: «il fatto che si rimproveri ai ricchi la loro ricchezza dà il senso del generale disorientamento. Sarebbero dunque i “ricchi” la causa dei problemi, e non dunque essi stessi il prodotto di determinati rapporti sociali. È questo il volgare e imbarazzante modo di concepire lo scontro di classe con le categorie politico-sociologiche del cambriano».

Ecco dunque la differenza tra una critica laterale del sistema rispetto a una critica radicale del modo di produzione capitalistico. È la differenza tra Marx e Proudhon, tra un socialismo rivoluzionario e un socialismo piccolo-borghese (alla Bertinotti, tanto per intenderci), per tacere di quel socialismo liberale (???) che piace a Bersani & C.. Le riforme (le “lenzuolate”), i miglioramenti che si svolgono sul terreno dei rapporti di produzione borghesi, non cambiano nulla nel rapporto fra capitale e lavoro salariato, ma, nel migliore dei casi, diminuiscono le spese che la borghesia deve sostenere per il suo dominio.

Chi ha perso la faccia

 

Come previsto, quasi quattro anni or sono, né i russi hanno vinto, né gli ucraini hanno perso definitivamente. Chi ha perso per sempre sono quelle centinaia di migliaia di giovani e meno giovani che sono morti a causa di una guerra demenziale voluta e provocata non si sa bene da chi, poniamo dal destino cinico e baro.

Ieri era prevista in Ucraina una delegazione statunitense di alto rango. Ufficialmente, la delegazione era lì per informarsi sulle capacità produttive ucraine di droni. Ufficiosamente avrebbe dovuto presentare alla cricca di Kiev il piano, negoziato ufficiosamente tra l’amministrazione Trump e i rappresentanti russi, per porre fine alla guerra (dubito ci sarà mai una fine duratura).

Si sa poco sul contenuto del piano negoziato tra Steve Witkoff, in rappresentanza degli Stati Uniti, e Kirill Dmitriev, rappresentante russo per gli investimenti esteri. Washington intende convincere Kiev a cedere definitivamente il controllo delle regioni di Luhansk e Donetsk alla Russia. Questa dovrebbe pagare una quota, ancora da negoziare, per le risorse minerarie catturate. Gli Stati Uniti sarebbero pronti a riconoscere la sovranità russa sulla Crimea.

Meno chiare sono le condizioni politiche che circondano il piano: la parte della regione di Donetsk che sarà evacuata dall’Ucraina verrà smilitarizzata, impedendo alla Russia di stazionarvi truppe. Le forze armate ucraine saranno ridotte da circa un milione di effettivi a 400.000 soldati e sarà loro vietato possedere armi di distruzione di massa o armi a lungo raggio. Inoltre, nessuna truppa straniera dovrà essere stazionata sul suolo ucraino.

Si tratta di una resa degli ucraini. Del resto non sono in condizione di porre condizioni. Il fatto che la delegazione statunitense inviata a Kiev sia composta da tre generali statunitensi di alto rango è probabilmente inteso a evidenziare che la situazione militare dell’Ucraina è disperata. Era chiaro fin dall’inizio che sarebbe stata una follia pensare di sconfiggere la Russia.

Come concessione chiave a Mosca, gli Stati Uniti avrebbero promesso il “completo ritorno della Russia nell’economia globale”, ovvero la revoca delle sanzioni. Sul piano politico, ed economico, a perdere questa guerra e la faccia sarà la UE e i suoi proconsoli.

Trump, anche se non ha letto Kissinger, se l’è fatto raccontare.

giovedì 20 novembre 2025

Il futuro prossimo del libro

«La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali» (K.M.).

Sono sempre di meno quelli che ricordano l’odore delle vecchie tipografie. E il rumore: quello ritmato delle linotype, la monotonia di una Roland, lo sbuffare di una “platina” Heidelberg o lo sferragliare di un “mezzo elefante” Nebiolo. Archeologia. Venne la fotocomposizione e prevalse l’offset. Addio vecchio e malsano piombo, basta con esami periodici della piombemia. Oggi si avvelena più la mente che i polmoni.

Nessuna tipografia, di allora e di oggi, stamperebbe una sola copia di un libro. Ma nemmeno 50 o 100 copie. E però presto avremo un modello di stampa on demand ad alte prestazioni che avrà un impatto duraturo sul mercato e stabilirà nuovi standard in termini di efficienza, flessibilità e ottimizzazione dei processi. Questo è almeno il peana degli enfatici che non si sono mai sporcate le manine in una tipografia.

L’obiettivo, dicono sempre questi Superman del capitalismo, è ottimizzare la catena del valore del settore librario, alleggerire il carico di lavoro degli editori (che delicatezza umanitaria!) e rendere disponibile ai lettori una varietà di titoli (specialmente di merda) ancora maggiore nel più breve tempo possibile. Cosa si nasconde dietro queste promesse altisonanti?

Print-on-demand significa stampare solo su richiesta specifica. Se un titolo è fuori catalogo, le librerie ti dicono che è disponibile, forse, solo sul mercato dell’usato. In un futuro prossimo, un addetto di una libreria (piuttosto un “assistente automatico”) risponderà: “Il libro richiesto, sebbene fuori catalogo, sarà pronto per il ritiro domani mattina dalle 10”. Dio, che goduria! Anzi, “te lo spediamo a casa”. Doppio orgasmo in “terapia tapioco”.

L’ordine di stampa verrà generato con un clic del mouse, ma probabilmente non ci sarà bisogno nemmeno di quello. Una macchina da stampa digitale completamente automatizzata, ricevuto l’input via Proxima Centauri, produce una singola copia, che viene poi spedita al negozio o direttamente al cliente durante la notte. Prezzo non modico, immagino, almeno finché non si costituirà adeguato background digitale dell’opera richiesta.

L’avessero raccontato anche solo 40anni fa, avrebbero vinto a man bassa il Premio Hugo. Anche oggi, per i piccoli editori, ristampare un titolo esaurito è fuori discussione, e anche i costi unitari per le piccole tirature sono troppo elevati. La stampa-on-demand è una pratica comune per gli album fotografici personalizzati. Ecco, prevedo che la cosa funzionerà esattamente in tal modo anche per la stampa dei libri.

Gli editori si trovano ad affrontare la sfida di qualunque capitalista non monopolista, ossia di poter solo stimare le vendite effettive di un libro. Nessuno sa se una nuova uscita sarà un flop o un bestseller. Un libro di Veltroni può vendere infinitamente di più di Das Kapital, e ciò prova il fatto che anche una merda può avere florido mercato. A volte, il successo commerciale di un libro diventa evidente solo con la seconda o la terza ristampa. A volte, dopo decenni, come Moby Dick. Ma non ci sono più le balene di una volta.

In generale, maggiore è la tiratura, minore è il costo unitario di stampa per libro, questo è ovvio. Ma che si tratti di un libro di cucina o del capolavoro di Melville, si tratta comunque di una merce, quindi di un valore di scambio che prescinde dal suo valore d’uso effettivo. Le tirature sono diminuite, così come il numero complessivo di nuove uscite. Tirature inferiori comportano costi unitari più elevati, il che rende la merce-libro più costosa e può ridurre i profitti.

Gli editori si assumono il rischio principale, poiché i fornitori di servizi e gli stampatori devono essere pagati prima che un libro possa essere venduto. Le spese di distribuzione, stoccaggio e vendita all’ingrosso sono del 15% circa, e possono arrivare fino al 30% dei costi totali. Nel tempo prevedo che anche la figura dell’editore subirà radicali trasformazioni. Forse sarà mandato a spasso pure lui.

Dunque il modello di business è chiaro: espandere la capacità di stampa riducendo al contempo i costi del personale, con la produttività per addetto che farà un altro balzo in avanti. Ulteriore disoccupazione e drastica perdita di qualità professionali. I sistemi di stampa, già ora, sono facili da usare in modo che anche dei pischelli senza aver frequentato scuole di grafica e lungo tirocinio lavorativo possono essere formati rapidamente.

Si perderanno definitivamente secoli di esperienza e arte tipo-litografica, come del resto è già avvenuto per molte altre tipologie professionali (pensiamo, per esempio, ai fotografi). Aumenterà l’investimento di capitale, e dopo le piccole tipografie, scomparse da tempo, anche quelle medio-grandi dovranno fare i conti con la composizione tecnica del proprio capitale investito.

«Il capitalismo, nel suo stadio imperialistico, conduce decisamente alla più universale socializzazione della produzione; trascina, per così dire, i capitalisti, a dispetto della loro coscienza, in un nuovo ordinamento sociale, che segna il passaggio dalla libertà di concorrenza completa alla socializzazione completa.

Viene socializzata la produzione, ma l’appropriazione dei prodotti resta privata. I mezzi sociali di produzione restano proprietà di un ristretto numero di persone. Rimane intatto il quadro generale della libera concorrenza formalmente riconosciuta, ma l’oppressione che i pochi monopolisti esercitano sul resto della popolazione viene resa cento volte peggiore, più gravosa, più insopportabile» (V .I.U.).

Safari

Ogni notte si fa più pesante con l’attesa del giorno seguente. In questa stagione poi ... E penso a quando eravamo bambini: sapevamo che i nostri genitori avevano dei progetti. Vedevamo nei loro occhi aspettative più grandi, più consapevoli e più distanti delle nostre. Non le capivamo tutte, ma le sapevamo.

A che punto è questa guerra, e quell’altra? E la prossima, dove? Non sappiamo più bene cosa stia succedendo. Ora ci raccontano di cecchini a Sarajevo nel weekend. Pagavano per uccidere. Sparare sui civili, donne e bambini compresi, come se si trattasse di una battuta di caccia. Uccidere gli anziani era gratis. Questa cosa, se fosse vera, sarebbe enorme.

I cani sono migliori degli umani. Certo, abbaiano, sbavano e puzzano, come gli umani del resto, ma loro non hanno bisogno di molto; una palla o un giocattolo li tiene occupati all’infinito. A volte piccoli litigi tra loro, ma è raro. Di diverse linee e razze, il più delle volte vanno d’accordo e si divertono insieme, ci danno meravigliose lezioni di vita.

Anche ciò che avviene a Gaza e in Cisgiordania è safari. Come già il 7 ottobre 2023 a parti invertite. Mi chiedo: com’è possibile che la popolazione ebraica di Israele accetti che il proprio governo compia, in suo nome, un genocidio? Com’è stato possibile che in due anni, nelle manifestazioni di piazza contro Netanyahu, la gran parte dei cittadini israeliani abbia chiesto a gran voce la fine della guerra a Gaza unicamente in nome della liberazione degli ostaggi?

In fondo, proveniamo da una mentalità preistorica piuttosto simile: i cani con il branco e noi con la tribù. Loro, i cani, aiutano persone di ogni classe sociale, genere ed età, di ogni estrazione religiosa e sessuale, e persino con diverse convinzioni politiche.

Com’è possibile che la popolazione russa accetti che il proprio governo, in suo nome, continui una guerra contro una popolazione che fino a qualche decennio fa era parte della popolazione russa? Com’è stato possibile che dal 2014 la popolazione ucraina abbia accettato che il proprio governo, in suo nome, iniziasse una guerra contro una popolazione con la quale condivideva la stessa nazionalità e la stessa lingua?

Grandi cimiteri sotto la luna, scriveva Bernanos a proposito della guerra civile spagnola. Chi legge più Bernanos? Qualche mese fa ho letto i diari di Luca Pietromarchi, e mi chiedevo: come poteva, questo galoppino che per conto di Galeazzo Ciano sovraintendeva l’organizzazione della cooperazione bellica italiana, descrivere in modo così asettico ciò che avveniva in Spagna?

Pietromarchi inframmezzava il suo racconto tra quello di una cena e la recensione di un film che aveva visto. E però in seguito la repubblica italiana “nata dalla resistenza” gli conferì l’incarico di ambasciatore. Tante storie come la sua. Dunque, perché dovrei meravigliarmi di Sarajevo, di Gaza e di molto altro? La storia non si ripete mai uguale, ma la strage è la stessa.

Era il XX secolo, quando le principali nazioni europee si univano con fervore al governo di un Duce, di un Führer o di un Caudillo. Ma ora, nell’epoca dell’intelligenza artificiale? Sembra il delirio di un guidatore al buio con gli occhi iniettati di sangue. 

mercoledì 19 novembre 2025

Sangue operaio

 

Mentre ferve la polemica sulla candidata al Quirinale (sembra sgradita all’attuale titolare del Soglio Presidenziale stesso), si chiude definitivamente la vicenda della giovane apprendista operaia Luana D’Orazio, mamma di un bambino, la quale nel 2021 fu stritolata in un “orditoio”. Una morte orribile che vide i due titolari dell’azienda, indagati per omicidio colposo e rimozione dolosa delle cautele antinfortunistiche, patteggiare una pena rispettivamente ad un anno e sei mesi e due anni. Con la condizionale, ovviamente.

Li chiamano “incidenti sul lavoro”, vengono raccontati in tono drammatico e fatalista, puntando sull’accettazione sociale (uno scherzo del destino). In realtà sono omicidi premeditati e più in generale crimini contro l’integrità fisica e mentale dei lavoratori.

Nel corso dell’inchiesta, l’ingegner Carlo Gini, consulente della pubblica accusa, documentò che il macchinario era impostato per lavorare senza il sistema di sicurezza: “La macchina presentava una evidente manomissione con un altrettanto evidente nesso causale con l’infortunio”. Senza quella manomissione del macchinario, i vestiti di Luana non si sarebbero impigliati nell’orditoio.

Di questo tipo di “manomissioni” ne ho viste centinaia, moltissime dita e mani tranciate, in un paio di casi entrambe le mani e parte degli avambracci troncati di netto sotto le presse. Sempre lo stesso motivo: le “sicurezze” vanno disattivate altrimenti rallentano l’intensità del ritmo del lavoro e fermano la produzione troppo spesso.

Le nozioni di produttività e di efficienza economica non sono concetti asettici e neutrali, ma risultano inestricabilmente dall’interazione combinata di tecniche di produzione e dominio.

Anche quando si parla di “comportamenti a rischio” da parte dei lavoratori, si trascura il fatto che i lavoratori sono spesso esposti a rapporti di lavoro precari (apprendisti, giovani poco qualificati, neoassunti, lavoratori temporanei), il che riduce significativamente la loro consapevolezza dei rischi e riduce anche l’autonomia nello svolgimento del lavoro, rendendo impossibile esercitare il loro diritto di recesso da una situazione che hanno ragionevoli motivi di ritenere rappresenti un pericolo grave e imminente per la loro vita o la loro salute: “o così, oppure stai a casa”.

Pertanto, la questione degli omicidi e infortuni sul lavoro si pone come un problema politico e sociale, prima ancora che giudiziario. In tutti i casi, compreso quello di Luana, i procedimenti si concludono con blande condanne e secondo una logica assicurativa, ossia di mero risarcimento monetario del “danno”.

I responsabili sono certamente i padroni e i loro complici sono facilmente individuabili a livello politico, ossia tutti quelli che favoriscono o accettano passivamente che l’organizzazione del lavoro sia e resti il prodotto di un sistema di potere a spese del sangue operaio.


martedì 18 novembre 2025

Il pollo fritto e la prossima crisi finanziaria

 

Il ristorante Kkanbu Chicken di Seul è un locale molto modesto dove si mangia prevalentemente una delle specialità ... americane: il pollo fritto. Un posto dove eviterei di mangiare, dunque. Alla fine di ottobre, ad un tavolo stavano seduti a sorseggiare birra e mangiare pollo fritto tre poveracci: l’amministratore delegato di Nvidia, con il vicepresidente di Samsung Electronics e l’amministratore delegato di Hyundai Motor Company. È bastato questo perché nel giro di pochi giorni il prezzo delle azioni dei ristoranti e dei fornitori di pollo fritto sudcoreani schizzasse fino al 20%.

Questo aneddoto illustra ciò che tutti sanno: gli speculatori investono in qualsiasi cosa abbia a che fare con l’intelligenza artificiale e in qualsiasi cosa anche lontanamente correlata al clamore suscitato dall’AI. La qual cosa potrebbe ricordare cosa accadde tra il 1997 e il 2000 con la cosiddetta bolla delle dot-com, ossia la bolla legata alle società del settore “internet”.

Anche allora, gli speculatori avevano scommesso sulla formazione di nuovi mercati, sull’aumento della produttività e sui relativi profitti alla luce delle innovazioni tecnologiche. Allora come oggi, aspettative gonfiate hanno portato a investimenti esagerati, sullo sfondo dell’attuale crisi di accumulazione di capitale, di cui ho scritto più volte, ad esempio in un post di nove anni fa dal titolo: La tendenza storica dell’accumulazione capitalistica.

La crisi dell’accumulazione capitalistica costituisce la base di un’economia di bolla divenuta cronica a partire dagli anni Ottanta. Il plusvalore prodotto è divenuto così piccolo, relativamente al capitale complessivo accumulato, che non è più sufficiente a valorizzare l’intero capitale, facendogli compiere il necessario salto di composizione organica.

In altri termini: contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i tassi di profitto non sono più sufficienti a valorizzare l’intero capitale, in quanto il capitale costante (macchinari, materie prime, ecc.) è cresciuto a dismisura rispetto a quello variabile (ossia rispetto al capitale investito in forza-lavoro), e perciò la crescita viene ripetutamente forzata attraverso la speculazione: prima con la bolla delle dot-com, poi con la bolla immobiliare e infine con la bolla di liquidità gonfiata dalle banche centrali durante gli anni dei tassi di interesse zero.

Invece di risolvere la crisi, queste bolle non fanno altro che rinviare le conseguenze dell’eccesso di capitale che non trova adeguato impiego nella produzione. L’intelligenza artificiale appare come l’ultimo tentativo di mascherare questo problema strutturale con un nuovo mito del profitto: un’ultima, grandiosa promessa che il capitale fittizio accumulato possa ancora essere trasformato in profitti reali.

Il successo dell’AI non può nascondere il fatto che i ricavi non tengono il passo con gli investimenti e molti sistemi sono tecnicamente immaturi. Circa il 95% delle aziende non ha ancora registrato un aumento misurabile di profitti o ricavi, nonostante gli investimenti miliardari. L’80% delle aziende non vede alcun contributo materiale ai propri profitti derivante dall’uso dell’intelligenza artificiale generativa.

Attraverso fondi indicizzati e altre strategie passive, quantità sempre maggiori di denaro affluiscono nelle società di intelligenza artificiale. Gli indici azionari sono in aumento e il capitale è prontamente disponibile. Per sostenere queste elevate aspettative con una crescita tangibile, le società di IA stanno sempre più incanalando questo denaro a basso costo in accordi tra loro, scambiando miliardi di dollari in chip e servizi cloud, essenzialmente acquistando i propri ricavi futuri.

Questo crea l’impressione di una crescita enorme, anche se una parte di questa crescita viene semplicemente ridistribuita all’interno del settore. La speculazione è intrappolata in una sorta di circolo vizioso che si autoalimenta.

Già a metà ottobre, la Banca d’Inghilterra e il Fondo Monetario Internazionale, tra gli altri, avevano lanciato l’allarme per una brusca correzione del mercato. In pratica si osservava che l’euforia che circondava l’IA stava spingendo gli speculatori verso una pericolosa frenesia; tutti sono consapevoli del pericolo, “ma non riescono a uscirne”. È vero: è un disastro incombente, ma nessuno osa andarsene: chi lo fa potrebbe perdere l’occasione, e dunque finché il denaro continuerà a fluire in borsa, nessuna azienda, nessun investitore si tira indietro.

L’80% dei profitti generati sui mercati azionari statunitensi nel 2025 è stato realizzato da aziende di intelligenza artificiale. Il mercato azionario guidato dall’intelligenza artificiale sta attraendo denaro da tutto il mondo: nel secondo trimestre del 2025, fondi esteri per un valore di 290 miliardi di dollari sono confluiti in azioni statunitensi, rappresentando circa il 30% del mercato, un livello mai visto dalla Seconda Guerra Mondiale.

La bolla dell’intelligenza artificiale è 17 volte più grande della bolla delle dot-com e quattro volte più grande della bolla dei mutui subprime, il cui scoppio ha innescato la crisi finanziaria del 2008.

Mi pare di aver detto tutto l’essenziale che c’è da dire. Poi vedrete che gli “esperti” avranno da dire molto di più, ignorando però la causa fondamentale, che, come detto, non riguarda semplicemente la “speculazione”, ovvero la crisi all’interno della sfera della circolazione (benché il fenomeno “crisi” si manifesti in tale ambito), bensì riguarda la crisi storica dell’accumulazione capitalistica.

Tutto in un titolo

 

Altre armi e nuovi finanziamenti. Il consigliere di Zelensky, Mykhailo Podoliak, in un’intervista televisiva ha affermato che la corruzione è un “segno distintivo di qualsiasi economia sviluppata”, e dunque deve essere accettata come tale.

Questi signori, invece di promuovere una mediazione, di cercare una soluzione a un conflitto che da più di dieci anni vede soffrire e morire civili innocenti (e decine di migliaia di soldati uccisi o traumatizzati da entrambi le parti), insistono nel voler mandare altre armi nella scellerata illusione di sconfiggere la Russia, che, ci ricordano, non ha mai smesso di essere il regno del Male.

Questa loro determinazione alla guerra è ben più di un equivoco che potrebbe essere corretto con una chiara analisi delle circostanze reali. Così intelligenti, baluardi di democrazia e di questo sistema, si sono costruiti una coscienza che definire semplicemente falsa non rende giustizia della loro natura e del gioco insano di cui sono, allo stesso tempo, pupari e infime marionette.

Si dichiarano fautori di armoniosi rapporti sociali e di vacuità redistributive, ma in ogni aumento di imposte che li riguardi vedono violato e insultato il diritto al rendimento. E dunque non è difficile immaginare i loro ululati se i denari per le armi e altro fossero tratti direttamente dai loro conti correnti e non dal comune calderone erariale.

Arriverebbero al punto di mandare i loro figli e nipoti a morire per Kiev (fingendo fosse Danzica e Putin un altro Hitler) pur di potersi gloriare di avere avuto ragione.

I portuali di Genova del Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali (CALP), già dal 2014, intercettano e bloccano le spedizioni di container di armi prodotte in Italia. Nel maggio scorso hanno bloccato l’invio di razzi prodotti in zona Bergamo ai terroristi con a capo il criminale ricercato Netanyahu. Purtroppo CGIL e UIL fanno da spettatori. Come meravigliarsi della crisi del sindacato?