Solo poche ore dopo l’annuncio delle tariffe “Liberation Day” del presidente Donald Trump, i lavoratori in tutto il Nord America hanno iniziato a sperimentarne le conseguenze. Stellantis fermerà “temporaneamente” il suo stabilimento di assemblaggio Windsor in Canada (4.500 lavoratori) e il suo stabilimento di assemblaggio Toluca in Messico (2.500 lavoratori).
Negli Stati Uniti, Stellantis sta licenziando 900 lavoratori nelle fabbriche che riforniscono sia gli stabilimenti canadesi che quelli messicani. I lavoratori degli stabilimenti di stampaggio Warren e Sterling Heights fuori Detroit, e due fabbriche di trasmissioni e uno stabilimento di fusione a Kokomo, Indiana, sono tra quelli che saranno colpiti negli Stati Uniti dai licenziamenti.
Un esempio plastico di ciò che provocherà questa guerra commerciale e in preparazione alla guerra mondiale contro i suoi rivali globali. Ciò a cui punta soprattutto il quasi ottantenne Trump è di passare alla storia. E ci riuscirà ad essere l’Erostrato di questo secolo e della nuova epoca.
Questi tagli sono solo un assaggio del bagno di sangue occupazionale che sta arrivando. In realtà non esiste un’auto “americana”. Ogni veicolo che esce dalla catena di montaggio rappresenta il lavoro collettivo dei lavoratori di tutto il mondo uniti in una catena di produzione interconnessa a livello globale. Per mandare a segno il piano del “Made in America” di Trump c’è bisogno di molto tempo. Questi strateghi di paglia sottovalutano il ruolo fondamentale del fattore tempo.
Non esiste alcuna tipologia merceologica che possa essere veramente definita Made in America o di un singolo Paese. Ogni merce prodotta oggi, dai più semplici articoli di consumo quotidiano alle automobili e agli sviluppi più avanzati nella tecnologia informatica e nell’intelligenza artificiale, è il risultato di un processo di produzione globale all’interno di un sistema economico integrato a livello internazionale.
Tutto ciò non è il prodotto della “follia” individuale di un solo uomo, ossia di Trump. È il prodotto di una profonda crisi dell’imperialismo statunitense e dello squilibrio globale che si è determinato negli ultimi vent’anni e anche più, con la distruzione del sistema commerciale internazionale istituito nel secondo dopoguerra principalmente dagli Stati Uniti, dal Piano Marshall e poi a seguire.
L’ordine postbellico fu creato per regolare e contenere le contraddizioni del sistema capitalistico mondiale, esploso nella prima metà del XX secolo sotto forma di due guerre mondiali e della Grande Depressione. La grande borghesia in tal modo impediva un ritorno delle condizioni che avevano provocato lo sbilanciamento dei rapporti di forza e di scambio, quindi il pericolo reale di una rivoluzione sociale.
Una delle caratteristiche centrali del sistema postbellico fu il riconoscimento che le guerre tariffarie e valutarie degli anni 1930, esemplificate dallo Smoot-Hawley Act statunitense del 1930, che avevano aggravato la Grande Depressione e giocato un ruolo significativo nel creare le condizioni per la Seconda guerra mondiale.
La borghesia con gli accordi di Bretton Woods mise una pezza temporanea al sistema, favorita dalla ricostruzione postbellica e dall’espansione dei consumi connessi ai nuovi prodotti elettromeccanici e dalla motorizzazione di massa. Tuttavia, per dirla con Fernand Braudel, la storia ha i suoi tempi lunghi: il predominio statunitense fondato sulla capacità produttiva e tecnologia nonché sul dollaro quale equivalente universale, si è costantemente eroso, segnato da una serie di punti di svolta. E siamo per l’appunto giunti a un altro cruciale punto di svolta storico, dopo quello di Bretton Woods nel 1971.
Il dollaro continuò a fungere da base delle relazioni monetarie e commerciali internazionali, ma questa volta come moneta fiat, non più sostenuta da un valore reale sotto forma di oro, ma esclusivamente dal potere finanziario, militare e ideologico degli Stati Uniti.
La crisi finanziaria globale del 2008 ha segnato un altro punto di svolta decisivo. Ha rivelato che le fondamenta del potere americano poggiavano su sabbie mobili, un sistema finanziario che poteva crollare praticamente da un giorno all’altro, corroso dal marciume e dal decadimento di decenni di parassitismo e speculazione, che avevano costantemente sostituito la produzione industriale come fonte primaria di accumulazione di profitti.
Con quasi 1.000 miliardi di deficit l’anno scorso, in aumento del 17 per cento rispetto al 2023, col debito pubblico in continua crescita, ora a 36.000 miliardi di dollari, con un conto interessi annuale di 1.000 miliardi, Trump sta cercando di porre rimedio, ma da dilettante, ovvero come un bisonte in una cristalleria.