venerdì 4 aprile 2025

Il bisonte in cristalleria

 

Solo poche ore dopo l’annuncio delle tariffe “Liberation Day” del presidente Donald Trump, i lavoratori in tutto il Nord America hanno iniziato a sperimentarne le conseguenze. Stellantis fermerà “temporaneamente” il suo stabilimento di assemblaggio Windsor in Canada (4.500 lavoratori) e il suo stabilimento di assemblaggio Toluca in Messico (2.500 lavoratori).

Negli Stati Uniti, Stellantis sta licenziando 900 lavoratori nelle fabbriche che riforniscono sia gli stabilimenti canadesi che quelli messicani. I lavoratori degli stabilimenti di stampaggio Warren e Sterling Heights fuori Detroit, e due fabbriche di trasmissioni e uno stabilimento di fusione a Kokomo, Indiana, sono tra quelli che saranno colpiti negli Stati Uniti dai licenziamenti.

Un esempio plastico di ciò che provocherà questa guerra commerciale e in preparazione alla guerra mondiale contro i suoi rivali globali. Ciò a cui punta soprattutto il quasi ottantenne Trump è di passare alla storia. E ci riuscirà ad essere l’Erostrato di questo secolo e della nuova epoca.

Questi tagli sono solo un assaggio del bagno di sangue occupazionale che sta arrivando. In realtà non esiste un’auto “americana”. Ogni veicolo che esce dalla catena di montaggio rappresenta il lavoro collettivo dei lavoratori di tutto il mondo uniti in una catena di produzione interconnessa a livello globale. Per mandare a segno il piano del “Made in America” di Trump c’è bisogno di molto tempo. Questi strateghi di paglia sottovalutano il ruolo fondamentale del fattore tempo.

Non esiste alcuna tipologia merceologica che possa essere veramente definita Made in America o di un singolo Paese. Ogni merce prodotta oggi, dai più semplici articoli di consumo quotidiano alle automobili e agli sviluppi più avanzati nella tecnologia informatica e nell’intelligenza artificiale, è il risultato di un processo di produzione globale all’interno di un sistema economico integrato a livello internazionale.

Tutto ciò non è il prodotto della “follia” individuale di un solo uomo, ossia di Trump. È il prodotto di una profonda crisi dell’imperialismo statunitense e dello squilibrio globale che si è determinato negli ultimi vent’anni e anche più, con la distruzione del sistema commerciale internazionale istituito nel secondo dopoguerra principalmente dagli Stati Uniti, dal Piano Marshall e poi a seguire.

L’ordine postbellico fu creato per regolare e contenere le contraddizioni del sistema capitalistico mondiale, esploso nella prima metà del XX secolo sotto forma di due guerre mondiali e della Grande Depressione. La grande borghesia in tal modo impediva un ritorno delle condizioni che avevano provocato lo sbilanciamento dei rapporti di forza e di scambio, quindi il pericolo reale di una rivoluzione sociale.

Una delle caratteristiche centrali del sistema postbellico fu il riconoscimento che le guerre tariffarie e valutarie degli anni 1930, esemplificate dallo Smoot-Hawley Act statunitense del 1930, che avevano aggravato la Grande Depressione e giocato un ruolo significativo nel creare le condizioni per la Seconda guerra mondiale.

La borghesia con gli accordi di Bretton Woods mise una pezza temporanea al sistema, favorita dalla ricostruzione postbellica e dall’espansione dei consumi connessi ai nuovi prodotti elettromeccanici e dalla motorizzazione di massa. Tuttavia, per dirla con Fernand Braudel, la storia ha i suoi tempi lunghi: il predominio statunitense fondato sulla capacità produttiva e tecnologia nonché sul dollaro quale equivalente universale, si è costantemente eroso, segnato da una serie di punti di svolta. E siamo per l’appunto giunti a un altro cruciale punto di svolta storico, dopo quello di Bretton Woods nel 1971.

Il dollaro continuò a fungere da base delle relazioni monetarie e commerciali internazionali, ma questa volta come moneta fiat, non più sostenuta da un valore reale sotto forma di oro, ma esclusivamente dal potere finanziario, militare e ideologico degli Stati Uniti.

La crisi finanziaria globale del 2008 ha segnato un altro punto di svolta decisivo. Ha rivelato che le fondamenta del potere americano poggiavano su sabbie mobili, un sistema finanziario che poteva crollare praticamente da un giorno all’altro, corroso dal marciume e dal decadimento di decenni di parassitismo e speculazione, che avevano costantemente sostituito la produzione industriale come fonte primaria di accumulazione di profitti.

Con quasi 1.000 miliardi di deficit l’anno scorso, in aumento del 17 per cento rispetto al 2023, col debito pubblico in continua crescita, ora a 36.000 miliardi di dollari, con un conto interessi annuale di 1.000 miliardi, Trump sta cercando di porre rimedio, ma da dilettante, ovvero come un bisonte in una cristalleria.

giovedì 3 aprile 2025

Ma di che cosa stanno parlando?

 

Si è finalmente scoperto che gli Stati Uniti non sono più disposti a pagare per noi, per la nostra “sicurezza”. Lasciassero libero il Mediterraneo e se ne tornassero a casa; liberassero l’Europa delle loro basi, eccetera. Non lo faranno. Per il semplice motivo che il loro dominio, per essere tale, sottintende una dimensione sia economica che militare che coinvolge tutto il globo e oltre (mare, terra, aria e spazio). È ciò che consente ancora al dollaro di denominare il valore monetario degli scambi e delle riserve (in titoli e biglietti), anche se non più come in passato.

In caso di conflitto che minacci il suo territorio, l’Unione Europea dipende dalla protezione militare americana. La difesa europea non ha quindi nulla di europeo, e realizzare una seria difesa comune comporta la creazione di una adeguata deterrenza nucleare, con non lievi rischi oltre a spese ingenti e protratte nel tempo.

Quindi, davvero e seriamente parlano della messa in comune dei ventisette eserciti europei e della europeizzazione della spesa e della produzione industriale? A fronte di questo, sorrido quando sento parlare di “difesa comune europea”.

Difesa comune non significa semplicemente difesa coordinata. Non si tratta solo dell’organizzazione di un “esercito” sotto un unico comando, che è già tanta roba, ma soprattutto di pianificare su scala europea un apparato industriale bellico a fattore comune, a cominciare degli approvvigionamenti e l’impiego delle risorse.

Chi deciderà sui bilanci e sugli acquisti di gruppo, sulle quote di concorso dei singoli Paesi? In base al PIL, ma solo se vogliamo scherzare (*). I disaccordi da parte dei paesi storicamente neutrali dell’Unione, tipo lo status neutrale di Austria e Malta? Condivideremmo segreti industriali e militari con l’Ungheria? E quando l’Ucraina non sarà più la forza trainante dell’urgenza di costruire questa difesa comune? Quanti mal di pancia si sentiranno! I governi come giustificheranno i tagli alla spesa sociale per sostenere quella militare (fatta eccezione per i tedeschi che hanno sempre in prospettiva una rivincita)?

Tra giugno 2022 e giugno 2023, il 78% della spesa europea per gli appalti è stata effettuata con fornitori extraeuropei, di cui il 63% negli Stati Uniti, secondo il rapporto Draghi.

Il 5 marzo 2024 la Commissione europea ha pubblicato una proposta legislativa per l’istituzione di un programma per l’industria europea della difesa (EDIP), che prevede l’istituzione di quote per l’industria della difesa. Secondo la proposta, i produttori e gli Stati membri dovrebbero effettuare congiuntamente almeno il 40% dei loro acquisti di attrezzature entro il 2030, e almeno il 50% delle attrezzature acquistate dovrebbe essere prodotto in Europa, percentuale che salirebbe al 60% entro il 2035.

Tutto molto aleatorio, e la percentuale del 40% degli acquisti significa che per quasi due terzi si andrà ancora a bischero sciolto. La base industriale e tecnologica della difesa europea non esiste e non è nemmeno in programma. Al momento esiste solo concretamente il programma di riarmo germanico.

Finanziare la creazione di filiere produttive e selezionare progetti di ricerca e sviluppo rimane solo nelle intenzioni. Per non parare del resto. Si tratterebbe di conferirebbe all’Unione europea il controllo sovrano sulla spesa militare. E ciò e fuori discussione.

Ma anche ammesso in pura ipotesi che tutto fili liscio o quasi, bisogna tener conto del fattore tempo, che non controlliamo. Tutto ciò a Washington lo sanno bene. E del resto Trump non ha mai detto che vuole sciogliere la NATO, ma solo che gli europei devono pagare di più, molto di più, per tenerla in piedi. Aumentare gli acquisti e consumare americano.

(*) I bilanci militari dei ventisette Stati membri rappresentavano 312 miliardi di dollari nel 2023, il secondo bilancio militare più grande al mondo dopo quello degli Stati Uniti (916 miliardi di dollari) e davanti a quelli della Cina (296 miliardi di dollari) e della Russia (109 miliardi di dollari).

mercoledì 2 aprile 2025

Pagare caro, pagare tutto: il Piano Marshall

Nell’inverno 1946-‘47, i porti britannici restarono chiusi per un certo periodo a causa dell’ondata di gelo. La Germania ovest non se la passava meglio, rasa al suolo dai bombardamenti degli Alleati, tuttavia già nel 1947 registrava il 34% della produzione rispetto all’anteguerra, mentre la Francia da giugno 1945 a giugno 1946, aveva aumentato il PIL del 132%. Il resto d’Europa aveva già superato del 5% la produzione dell’anteguerra (*).

Il 2 aprile 1948 si scatenò la generosità statunitense verso l’Europa occidentale con l’approvazione da parte del Congresso del cosiddetto Piano Marshall o ERP (Emergency Recovery Program), che prendeva spunto dal sistema Lend-Lease, ossia di prestiti e affitti adottato dagli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale (**).

IL Piano Marshall è diventato il simbolo di un aiuto apparentemente disinteressato alla ripresa dei Paesi dell’Europa occidentale, al punto che ormai è entrato nel linguaggio comune: si parlava di “Piano Marshall per le periferie” o di “Piano Marshall per la ristrutturazione delle abitazioni”, eccetera. È diventato quindi sinonimo, nel comune background ideologico, di ciò che si deve o si dovrebbe fare in determinate circostanze, contribuendo a costruire un ritratto di un’America altruista che non è mai esistita, ma non sarò certo io a indulgere per un approccio morale o idealistico alle relazioni internazionali.

Rappresentò il Piano anche un’ottima occasione non solo per il raddoppio dell’economia statunitense rispetto al 1945, che poté esportare grandi quantità di merci e con esse tutto ciò che ben conosciamo, compresi 300 film di propaganda a sostegno del Programma. Sappiamo che la guerra economica è tanto più efficace per un Paese quanto più è riuscito a imporre le sue rappresentazioni, siano esse politiche, culturali o consumistiche, ai suoi vassalli.

Naturalmente con l’adesione convinta delle relative borghesie che allora invocavano “aiuti” (in continuità con la precedente adesione ai regimi mussoliniano, hitleriano, franchista, petainista, eccetera), mentre oggi ahimè il dilettantismo (i tentativi di tentativi di negoziazione sui dazi) gareggia con la fantasia, l’ignoranza e l’incompetenza che rasentano il burlesque (il tutto assecondato dalle “grandi firme” del giornalismo imbevute di una politica estera morale e ideologica, di un filoamericanismo che mostra cedimenti solo in epoca trumpiana).

Diventava il Piano, tra l’altro e non ufficialmente, anche lo strumento di una guerra economica che gli Stati Uniti hanno condotto contro i loro alleati nell’Europa occidentale. Pertanto fu un aiuto economico concepito, anche se non esclusivamente, al servizio degli Stati Uniti con l’obiettivo della liquidazione delle eccedenze americane (di cui pure l’Europa aveva bisogno) e di stabilire un dominio sui paesi europei (attraverso gli investimenti). L’atteggiamento su questo punto fu chiaramente predatorio.

Gli effetti immediati del Piano furono significativi per l’Italia e in genere per l’Europa, ma non si devono esagerare. E comunque furono pagati a caro prezzo successivamente, così come oggi paghiamo cara l’adesione al liberismo della UE (un progetto politico ed economico che non ci avvantaggia) e ancor più la pagheremo nel prossimo futuro.

(*) Singolare che i consumi delle famiglie italiane in rapporto al PIL abbiano toccato il fondo nel 1961 e i massimi subito dopo l’Unità, segno indubbio dell’arretratezza che accompagnò il Paese per quasi un secolo (dati CSBI).

(**) A ricevere di più furono i britannici e i francesi (la Francia quasi il doppio dell’Italia), a noi arrivarono 1,2 miliardi di dollari e ai Paesi Bassi pochissimo di meno. Anche la Svizzera, che sappiamo aver patito molto dalla guerra, ottenne sul filo di lana degli aiuti per la “ricostruzione”. Il programma ebbe termine nel 1952. 

La pace lontana

 

In una mattina di primavera, due mesi dopo lingresso delle truppe di Vladimir Putin in Ucraina, un convoglio di auto senza insegne si fermò all’angolo di una strada di Kiev e caricò due uomini di mezza età in abiti civili.

Lasciando la città, il convoglio — presidiato da commando britannici, senza uniforme ma pesantemente armati — percorse 400 miglia a ovest fino al confine polacco. L’attraversamento fu senza intoppi, con passaporti diplomatici. Più avanti, giunsero all’aeroporto di Rzeszów-Jasionka, dove attendeva un aereo C-130.

I passeggeri erano generali ucraini di alto rango. La loro destinazione era Clay Kaserne, il quartier generale dell’esercito americano in Europa e Africa a Wiesbaden, in Germania. La loro missione era quella di contribuire a pianificare quello che sarebbe diventato, secondo il New York Times, “uno dei segreti più gelosamente custoditi della guerra in Ucraina”.

L’inchiesta pubblicata la settimana scorsa dal New York Times (The Partnership: The Secret History of the War in Ukraine) ha rivelato che gli Stati Uniti erano coinvolti in quella guerra in modo molto più diretto e ampio di quanto si pensasse in precedenza. “Gli Stati Uniti” sono stati “coinvolti nell’uccisione di soldati russi sul suolo sovrano russo”, afferma il rapporto del Times.

Nei momenti critici, la partnership è stata la spina dorsale delle operazioni militari ucraine. Fianco a fianco nel centro di comando della missione di Wiesbaden, ufficiali americani e ucraini pianificavano le controffensive di Kiev. Un vasto sforzo di raccolta di informazioni da parte degli americani ha guidato la strategia di battaglia generale e ha convogliato informazioni precise sugli obiettivi ai soldati ucraini sul campo.

Inoltre, con lodevole trasparenza, il Pentagono ha reso pubblico l’inventario dei 66,5 miliardi di dollari di armamenti forniti all’Ucraina, tra cui, secondo l’ultimo conteggio, più di mezzo miliardo di proiettili per armi leggere e granate, 10.000 anticarro Javelin, 3.000 sistemi antiaerei Stinger, 272 obici, 76 carri armati, 40 sistemi di razzi di artiglieria ad alta mobilità, 20 elicotteri Mi-17 e tre batterie di difesa aerea Patriot.

A marzo 2022, con il loro assalto a Kiev in stallo, i russi riorientarono il loro piano di guerra, facendo accrescere le loro forze a est e a sud, un’impresa logistica che gli americani pensavano avrebbe richiesto mesi, e invece ci vollero solo due settimane e mezza.

Una prima prova di partenariato tra statunitensi e ucraini è stata una campagna contro uno dei gruppi di battaglia più temuti della Russia, il 58° Combined Arms Army. A metà del 2022, utilizzando informazioni di intelligence e di targeting americane, gli ucraini hanno scatenato una raffica di razzi contro il quartier generale del 58° nella regione di Kherson, uccidendo generali e ufficiali di stato maggiore. Più e più volte, il gruppo si è installato in una diversa posizione; ogni volta, gli americani lo hanno trovato e gli ucraini lo hanno distrutto.

Più a sud, l’obiettivo è stato individuato nel porto di Sebastopoli in Crimea, dove ha sede la flotta russa del Mar Nero. Al culmine della controffensiva ucraina del 2022, uno sciame di droni marittimi prima dell’alba, con il supporto della Central Intelligence Agency, ha attaccato il porto, danneggiando diverse navi da guerra e spingendo i russi a iniziare a ritirarle.

Scrive il NYT, che a volte gli americani non riuscivano a capire perché gli ucraini non accettassero semplicemente dei buoni consigli. Laddove gli americani si concentravano su obiettivi misurati e raggiungibili, vedevano gli ucraini costantemente alla ricerca della grande vittoria, del premio luminoso e splendente. Gli ucraini, da parte loro, spesso vedevano gli americani come un ostacolo e miravano a vincere la guerra. Anche se condividevano quella speranza, gli americani volevano assicurarsi che gli ucraini non la perdessero.

Man mano che gli ucraini conquistavano una maggiore autonomia nella partnership, mantenevano sempre più segrete le loro intenzioni. Erano perennemente arrabbiati perché gli americani non potevano, o non volevano, dare loro tutte le armi e le altre attrezzature che desideravano. Gli americani, a loro volta, erano arrabbiati per quelle che vedevano come le richieste irragionevoli degli ucraini.

Nel momento probabilmente cruciale della guerra, a metà del 2023, quando gli ucraini hanno lanciato una controffensiva, la strategia ideata a Wiesbaden è caduta vittima della lotta politica interna tra fazioni ucraine: tra il generale Syrsky, appoggiato da Zelenskij, e il suo capo, il comandante delle forze armate, il generale Valery Zaluzhny. A complicare ulteriormente la situazione c’erano i difficili rapporti tra il generale Zaluzhny e il suo omologo americano, il generale Mark A. Milley, presidente dello Stato maggiore congiunto.

Gli ucraini riversarono vasti complementi di truppe e risorse in una campagna alla fine inutile per riconquistare la città devastata di Bakhmut. Nel giro di pochi mesi, l’intera controffensiva si è conclusa con un fallimento.

Queste e altre notizie si possono ricavare dal NYT solo ora che a Washington è cambiato il vento. L’articolo è un’ammissione che gli Stati Uniti hanno condotto, e stanno conducendo, una guerra non dichiarata e non autorizzata contro la Russia. Chiarisce che ufficiali americani, alcuni dispiegati all’interno dell’Ucraina, hanno selezionato e autorizzato obiettivi per degli attacchi, rendendoli, a tutti gli effetti, dei combattenti.

L’articolo documenta inoltre come, nel corso della guerra, l’amministrazione Biden abbia sistematicamente violato le sue stesse restrizioni alla condotta della guerra, fino al punto di autorizzare attacchi sul territorio russo, utilizzando armi americane, su ordine dei comandanti americani.

Vedo una tregua e la pace in Ucraina molto lontane.

martedì 1 aprile 2025

Je suis Marine!

 

L’aver messo fuori gioco Marine Le Pen per la corsa alle prossime presidenziali non impedirà all’ex Front National di vincere quelle elezioni nel 2027. Se Jordan Bardella può sembrare troppo giovane per essere candidato, va ricordato che per la poltrona dell’Eliso basta aver compiuto 18 anni (*). Un candidato vale l’altro, basta che dica Je suis Marine!

Il dinamismo di Macron in politica estera (ma se ne fotte che almeno 322 bambini sono stati uccisi a Gaza in dieci giorni, secondo l’UNICEF) serve prevalentemente a nascondere i gravi problemi interni della Francia. Tra questi, a livello politico, c’è la questioncella di un governo in carica che le elezioni le ha perse e si mantiene in sella solo grazie all’appoggio, guarda caso, del Front National.

Se dovesse cadere l’attuale governo, a Macron non resterebbe probabilmente che andarsene a casa anticipatamente, aprendo una crisi politica che non si vedeva dalla quarta repubblica.

Una crisi incipiente che non riguarda solo la Francia. Anche se una spiegazione dello stato attuale della crisi del sistema andrebbe indagata sulle tendenze economiche e politiche di fondo non identificabili come eventi storicamente datati, tuttavia i prodromi di essa si possono rintracciare negli ultimi lustri del secolo scorso, quando si fece strada in modo prepotente l’idea e la pretesa che fosse possibile una riscrittura lineare della Storia, come se essa non potesse essere che quella che ci veniva raccontata con tanta negligente spocchia.

Con la condanna senza appello per i “possibili” abortiti, con ciò neutralizzando le dinamiche socio-politiche dei movimenti storici che tanta parte avevano avuto nella sconfitta dei demoni nazionalistici, militaristi e fascisti nati nel liberalismo e trionfanti nella sua crisi, si è finito per dettare la traiettoria e la realtà del processo storico che ci porta oggi a dover rifare i conti con un passato tragico che si riteneva, a torto, non più riproponibile nella vicenda storica europea.

Tra poco più di un mese, il 7 maggio 2025, si celebrerà l’ottantesimo anniversario del crollo del Terzo Reich. Questo anniversario coincide con un’ondata globale di movimenti nazi- fascisti e una folle corsa agli armamenti. Gli Dei della Guerra si sono risvegliati, assetati come sempre di sangue.

(*) Nel 2002, al primo turno si presentarono 16 candidati, nel 2007 12, nel 2012 10, nel 2017 11 e nel 2022 12. Nel 1965 erano solo sei.