venerdì 31 maggio 2013

Palliativi contro la disoccupazione


Ascoltavo stamane a Radiotre l’intervento in diretta, da Trento, del capo economista della Banca mondiale, l’indiano Kaushik Basu, già in forza alla Cornell University e già consulente dell’esecutivo di New Delhi. Che cosa ha detto? Cose note, quali il fatto che la globalizzazione, ossia il capitalismo nella sua fase di massima espansione e pervasività, agisce come la “forza di gravità e non può essere fermata”.

giovedì 30 maggio 2013

Funzionari della borghesia


Una singolarità della dottrina della “povertà” è che nei luoghi laddove essa è stata più predicata sono spesso anche quelli nei quali è stata meno seguita. Si pensi a Roma, non tanto a quella di Cincinnato che cuoceva le sue rape, ma a quella che ha dominato dal secolo di Costantino e di Teodosio fino all’altro giorno. Insomma, la Roma dei papi e dei preti cattolici.

Oggi c’è papa Francesco, il quale fin dal nome ostenta un’austerità che è solo una manovra di circostanza per far fronte a questi tempi difficili, uno sforzo di riesumare calcolate affettazioni di virtù che in definitiva non sono altro che la prova della loro inadeguatezza.

mercoledì 29 maggio 2013

Nulla è per sempre


“Avremmo una rivoluzione, non il giorno dopo, ma lo stesso giorno”, se gli standard del welfare degli Stati Uniti fossero introdotti in Europa. È l'avvertimento del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble (quello che faceva tanto il duro), che in una conferenza che si è svolta a Parigi ha parlato della necessità di preservare il modello di welfare europeo.

Detto questo, Werner Hoyer, responsabile della Banca europea degli investimenti, ha ammesso: “Siamo onesti, non c'è una soluzione veloce, non esiste un grande piano”.

Lo sanno di essere seduti su un vulcano, ma non possono farci nulla. Si delocalizza la produzione non perché la forza-lavoro europea non è competitiva sul piano della produttività, ma perché il capitale avido di profitti ha bisogno degli schiavi che si trovano negli ultimi gradini della gerarchia internazionale del lavoro. L’imperialismo non si batte con le belle parole, o con il voto a questo o quel ruffiano, ma con la lotta di classe.

Dopo decenni di lavaggio del cervello, di cervelli all’ammasso, è normale che i proletari non trovino altro che mettere a profitto la loro agonia lavorando per un sistema che sterilizza il vivente con il denaro e il dispotismo consumistico. Ma, come masse sempre più ampie stanno sperimentando sulla propria carne, nulla è per sempre.


Il banchiere


We can’t solve problems by using the same
kind of thinking we used when we created them.
Albert Einstein
È ben noto come le funzioni sociali più utili non siano anche tra le più desiderate, tanto più poiché esse non portano né prestigio e nemmeno elevate remunerazioni.

Se si dovesse poi stilare una classifica dei lavori e professioni secondo la loro utilità sociale effettiva, il banchiere, per esempio, dovrebbe trovarsi agli ultimi posti. E invece sembra che i banchieri siano il sale del mondo. Una stranezza solo apparente.

martedì 28 maggio 2013

Inchiodati


Ho letto l’intervento tenuto all’Astana Forum dall’ex direttore del Fondo monetario internazionale, Strauss-Khan, messo due anni fa fuori combattimento dall’intervento dei servizi segreti a causa delle sue posizioni da outsider sulla Germania “arcipeccatrice” (così ebbe a definirla) e dintorni. Il suo è un pensiero poco allineato e tuttavia riconducibile ugualmente al punto di vista borghese.

Strauss-Khan denuncia come il problema del debito sia stato sottovalutato a suo tempo, di come la Germania faccia ora la prima della classe ma che in passato si fu assai comprensivi con i suoi problemi economici interni, poi parla della riottosità della stessa Germania e della Francia per un comune sistema bancario europeo. Cose note. Ha messo in luce anche quale sia secondo lui il problema dei problemi, ossia la competitività. L’età dell’oro europea, dice, è passata e il sistema di vita, le garanzie sociali, non è più sostenibile. Insomma le solite geremiadi dovute al fatto che la borghesia non può guardare in faccia il presente se non da un punto di vista strettamente legato agli interessi di classe.

Togliersi di torno


Può capitare di dover dare importanza a questioni che non sembrano averne, come nel caso del voto amministrativo. Come se la questione avesse davvero un qualche esito concreto sui gravi problemi economici e sociali che in vario modo e con diversa intensità ci stanno interessando.

Proprio nei giorni scorsi buttavo l’occhio sui dépliantes patinati e colorati dei candidati a sindaco del mio comune. Naturalmente si dichiarano tutti onesti e trasparenti, anche quelli notoriamente dediti a traffici immobiliari e legati a loschi gruppi d’affari. E tutti i sedicenti onesti e trasparenti nel loro programma trattano dei “problemi” del lavoro e delle tasse, questioni sulle quali ormai fingono di avere voce in capitolo anche i governi nazionali.

lunedì 27 maggio 2013

Note a margine della Cripta


In un’epoca in cui è cambiata la geografia economica e con essa stanno mutando le società industriali, in cui la crisi è appena iniziata e già sembra infinita a molti, rivelatrice dell’ormai irriducibile dispiegarsi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, ebbene questa mattina – come del resto a ogni ora – in televisione degli esperti del vacuo parlavano del nulla elettorale.

E ciò mi ha fatto ricordare un brano di un romanzo che ho letto in questi giorni, laddove l’autore si compiace di descrivere i sentimenti e i motivi di un’epoca non dissimile per carattere alla nostra:

domenica 26 maggio 2013

Non potrà durare


Negli editoriali degli ultimi tempi scritti da Eugenio Scalfari rintraccio soprattutto il desiderio di rassicurare se stesso sulla bontà delle sue medesime analisi della situazione politica, economica e sociale. Ossia la speranza che infine tutto si risolva per il meglio, non solo nascondendo la polvere sotto il tappeto, ma anche montagne di fango sotto una coltre di pragmatismo fasullo. Prendiamo ad esempio questa frase:

I processi di Berlusconi non riguardano il governo e tantomeno il Parlamento. Lo stesso interessato l'ha detto in una delle sue mutevoli dichiarazioni. Riguardano lui, i suoi avvocati e le Corti giudicanti. 

Mitica Svezia


L’Italia è un paese corrotto, tra i più corrotti. Sicuramente. E la mitica Svezia? Invece di dar retta alle chiacchiere, per farsi un’idea un po’ più precisa della faccenda è meglio affidarsi ai numeri riportati dalla stampa svedese: qui.

La Svezia non ha l’euro, ma i suoi problemi economici e sociali assomigliano a quelli dei paesi come Italia, Francia, Olanda, Spagna, ecc.. Anche lì c’è precariato e disoccupazione, anche se la disperazione e la rabbia sono ancora contenuti. E però c'è anche chi sciopera per i propri diritti: qui, ricevendo le lodi del parlamento svedese. Inimmaginabile altrove, e questo fa la vera differenza.

Insomma la Svezia, sebbene non abbia l’euro, soffre degli stessi problemi che affliggono il resto d’Europa. Lo dimostrano sei notti di gravi incidenti – con incendi, sassaiole e saccheggi – avvenuti in alcuni quartieri di Stoccolma e anche in altre città, non solo per opera d’immigrati. Tanto che Stati Uniti e Gran Bretagna hanno invitato i propri connazionali a tenersi alla larga dalle aree interessate dalle rivolte. Il Foreign Office ha diffuso un travel warning che chiede ai britannici di evitare i concentramenti nelle periferie di Husby, Hagsatra, Ragsved e Skogas, prestando inoltre attenzione ai notiziari locali.


Naturalmente i nostri telegiornali se ne tengono alla larga fin quando possibile, l’Italia è un paese pacificato da decenni e non si deve indurre nessuna testa calda all’imitazione.

sabato 25 maggio 2013

La ghigliottina? Sistema antiquato, troppo lenta


O possiedo una particolare attitudine a presagire le cose, oppure in questo bislacco paese le cose sono fin troppo facili da prevedere. Propendo decisamente per la seconda ipotesi.

Che cosa scrivevo sabato 27 aprile a proposito del ministro dell’Istruzione Maria Carrozza?

Quando un ministro dell'Istruzione, della ricerca e dell'università dichiara che il suo dicastero “deve svolgere un ruolo fondamentale nel far ripartire le speranze del Paese”, vuol dire che siamo allo stesso punto di prima. Questo paese, e la scuola, sono morti di speranze. La sciocchina, invece d’invocare la ripartenza delle speranze, dovrebbe spiegare come intende reperire le ingenti risorse necessarie per gli investimenti nell’istruzione e nella ricerca. Con le riforme a costo zero non si va da nessuna parte, anzi, si torna indietro.

Il carattere storico e transitorio della forma-valore


Il difetto principale di tutti coloro che si ripromettono con magiche ricette di riformare questo sistema economico e sociale, è quello di indicare i motivi della crisi del sistema in questa o quella causa, oppure in un insieme di cause che in realtà hanno solo una relazione parziale o addirittura apparente con il fallimento di questo sistema. Essi denunciano un circolo vizioso di  inefficienza e irrazionalità, di abusi e soprusi, che sono ben evidenti ma sono solo gli effetti di una situazione nella quale agiscono ben altre leggi e contraddizioni. Ed è per tali ragioni, per contro, che le loro proposte di stimolare l’economia e di dotare il sistema di nuove regole non producono alcun frutto o solo dei risultati limitati nel tempo lungo.

Sono anni ormai che economisti e politici non sanno dire altro che per uscire dalla crisi è necessario aumentare la produzione, salvo non rilevare che per creare nuova domanda servono salari più elevati, e neanche questo infine basterebbe perché la somma dei salari sarà sempre inferiore all’insieme delle merci prodotte, e per ovvie ragioni i capitalisti non possono consumare improduttivamente tutti i loro profitti.

La prima ragione della crisi, apparentemente legata al sottoconsumo come successe negli anni 1930, oppure come accade oggi in aggiunta di motivazioni legate alla speculazione finanziaria, riguarda la natura stessa del modo di produzione capitalistico, ossia la legge economica fondamentale del modo di produzione capitalistico. Tale legge ci dice anzitutto che il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrla.

Indagare tale legge, rappresenta il solo modo per comprendere il processo di formazione e l’origine del plusvalore, quindi il modo per ricostruire scientificamente il concetto di sfruttamento capitalistico. Ogni altro tipo d’indagine economica che riguardi l’economia in generale o singoli aspetti di essa, ossia non prenda le mosse da tale presupposto, da tale legge economica fondamentale del modo di produzione capitalistico, non è destinata solo ad arrivare a conclusioni sbagliate, ma tale tipo d’indagine non ha nulla di scientifico e la sua caratteristica principale sarà di avere una funzione ideologica, quella di mistificare la forma storica e determinata di appropriazione di lavoro non pagato da parte del capitale, di negare come le categorie economiche siano l’espressione di rapporti sociali di produzione storicamente determinati.

* * *

La grande industria e la sussunzione della scienza a essa, hanno creato, secondo Marx, una situazione nella quale la quantità di lavoro erogato nella produzione non è più la fonte principale per la creazione di ricchezza della società. Anche questo è un aspetto poco compreso e anzi totalmente frainteso nelle sue conseguenze dalla pseudo scienza economica accademica.

Oggi per produrre una qualsiasi merce è necessaria una quantità di lavoro vivo (cioè di lavoro immediato) molto inferiore rispetto al passato. Ciò è evidente a tutti qualora si consideri la massa di lavoro oggettivato che il lavoro vivo può mettere in moto. In altri termini, la quantità di prodotti disponibili non è determinata dalla quantità del lavoro erogato, ma dalla sua stessa forza produttiva. E tuttavia la premessa della produzione basata sul valore è e rimane la quantità di tempo di lavoro immediato, la quantità di lavoro impiegato, come fattore decisivo della produzione della ricchezza.

Scrive Marx nei Lineamenti fondamentali per la critica dell’economia politica (Grundrisse):

La ricchezza reale si manifesta invece – e questo è il segno della grande industria – nell’enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e la potenza del processo di produzione che esso sorveglia. Non è più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore.

L’operaio non è più quello che inserisce l’oggetto naturale modificato come membro intermedio fra l’oggetto e se stesso; ma è quello che inserisce il processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo fra se stesso e la natura inorganica, della quale s’impadronisce. Egli si colloca accanto al processo di produzione, anziché esserne l’agente principale. In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale — in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa.

Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo.

[Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente – la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario.

Queste cose Marx le scriveva oltre un secolo e mezzo or sono. Quale potenza di pensiero in quell’uomo. Egli dimostra qui in modo evidente come sia il capitale stesso a creare le condizioni del proprio superamento, di come il modo di produzione basato sul valore di scambio sia destinato a crollare per l’effetto stesso delle leggi del suo movimento. Pertanto, egli dimostra il carattere storico e transitorio della legge del valore, la quale non gode di proprietà “naturali” valide in tutte le epoche.


Perciò, nella formazione sociale che andrà sviluppandosi e si sostituirà al capitalismo, la forma-valore cesserà di esistere, poiché essa assumerà un contenuto diverso da quello che le è proprio nel modo di produzione capitalistico. Marx con ciò dimostra, ancora una volta, come le categorie economiche siano l’espressione di rapporti sociali di produzione storicamente determinati, tanto è vero che laddove la forma-valore sopravvive, è perché i rapporti di produzione effettivi, reali, che ne giustificano l’esistenza sono ancora di tipo capitalistico. Ed è ciò che è successo precisamente nei paesi così detti comunisti: non per l’incapacità e la cattiveria di una qualche burocrazia di partito in particolare, ma perché erano ancora assenti le condizioni storiche oggettive indispensabili per tale trasformazione.

venerdì 24 maggio 2013

Il diritto di resistenza


Caro Luca,

grazie della segnalazione. Del resto dei post di Malvino non me ne perdo uno e ringrazio san Gennaro della grazia che gli ha fatto riprendere a scrivere nel suo blog con una certa frequenza. Non perché ne condivida sempre le idee (che noia essere sempre d’accordo), ma proprio perché posso confrontarmi con opinioni che mostrano intelligenza degli argomenti trattati e un approccio ironico non comune.

Ho letto perciò anche il post di Malvino nel quale egli pone la questione del diritto e dovere alla resistenza all’oppressione da parte del cittadino, così come venne in discussione all’Assemblea Costituente nel 1947. Malvino ne esamina in dettaglio le argomentazioni addotte allora dai costituenti, ossia le concezioni di merito dei costituenti chiamati a scolpire le tavole della repubblica, della "repubblica volgare" per dirla con Marx.

giovedì 23 maggio 2013

Dal lato di tutte le classi


Desidero dire due parole a proposito dell’uso della “violenza” per esmplificare, dal mio punto di vista, cosa v’intendevano Marx ed Engels. Essi, quando parlano della violenza, si riferivano anzitutto a due aspetti di essa: in quanto fenomeno storico che ha segnato tutte le epoche e va compreso senza demonizzarlo moralisticamente, e in quanto strumento della lotta di classe, del quale anzitutto si sono valse  le classi dominanti di ogni epoca per tenere a bada le classi sfruttate (e queste per resistervi) e per regolare le contese tra fazioni della stessa classe dominante, quindi dal lato della sua valenza economica, come l'esempio della prima accumulazione capitalistica dimostra.

La violenza è un fenomeno "umano" quanto lo può essere la bontà e la misericordia, ossia quanto un fenomeno storico sociale. Non un incidente di "natura", bensì una determinazione necessaria di ogni società di classe.

mercoledì 22 maggio 2013

«È essa stessa una potenza economica»


Gli spudorati affermano e fanno credere che il nostro asservimento salariale moderno è un’eredità alquanto trasformata e mitigata della schiavitù; ma ciò vuol dire solamente che il lavoro salariato, come la schiavitù, sono forme della servitù e del dominio di classe, cosa che – osservava Engels – sanno tutti i bambini. Infatti, se ciò non fosse vero, con lo stesso diritto potremmo dire che il lavoro salariato deve spiegarsi come la forma attenuata del cannibalismo, oggi universalmente considerato come la prima forma d’impiego dei nemici vinti.

Efficienza postale


Visto il successo, come si dice, di pubblico e di critica ottenuto da cinque post dedicati alla disinvoltura con la quale il professor Luciano Canfora tratta la storia moderna in generale e il marxismo in particolare, passo a un genere diverso di cazzeggio, seguendo dunque i dettami dell’auditel e della vanità bloggistica della quale non mi dichiaro per nulla immune. E non dico questo perché mi stimi troppo, come potrebbe legittimamente pensare qualcuno, ma perché mi stimo almeno il giusto, e ciò serve a dare se non altro un po’ di tono per affrontare la vita con un passo meno incerto e sopportare la pioggia che anche in questo momento, inesausta, recita la sua parte nella mia giornata.

martedì 21 maggio 2013

Falsificazioni del marxismo /3


Come ho scritto nel post precedente, nell’Intervista sul potere di Luciano Canfora i riferimenti bibliografici sono numerosissimi e perfino ridondanti, salvo quando sarebbero veramente essenziali e dirimenti a suffragio delle tesi esposte dall’Autore. Andiamo con ordine su un punto che m’interessa in particolare.

Canfora a p. 22 racconta un episodio che lo vide protagonista allorquando nel 1976 mandò alla rivista Rinascita, periodico ufficiale del Pci, un ampio articolo intitolato Eurocomunismo. «La mia tesi – scrive il professore – era che l’evoluzione del Pci costituisse di fatto un inevitabile ritorno alla socialdemocrazia, un movimento che preesisteva alla rivoluzione bolscevica e aveva ripreso vigore nella realtà europea dopo il 1945. A mio avviso gli stessi partiti comunisti occidentali, nella realtà postbellica, si erano fatti portatori di istanze tipicamente socialdemocratiche».

Non ci voleva molto acume per cogliere la virata verso la socialdemocrazia dei partiti comunisti riformisti, poiché era un dato di fatto negli anni Settanta e anche ben prima del noto articolo di Berlinguer sull’esperienza cilena. È in questa stessa pagina che Canfora scrive la frase che ho riportato e discusso in un post precedente sulla sua  “convinzione che il grande fiume del movimento operaio consista in ciò che, da Karl Marx in avanti, si chiama socialdemocrazia”.

Falsificazioni del marxismo /2



Naturalmente sul ruolo delle classi sociali nella storia Canfora non poteva tacere del tutto in un’opera che tratta del potere, e infatti l’intervistatore a p. 188 chiede al chiarissimo docente:

«Per tornare ai caratteri generali del fenomeno schiavistico, lei è convinto che si possa definire in termini di classe?»

Al che Canfora svicola, non risponde affermativamente o negativamente, inizia la sua risposta citando Marx:

«“La Storia di tutte le società esistite fino ad oggi è storia delle lotte tra le classi”. Bisogna però saper introdurre – ricama Canfora – le opportune distinzioni, perché, soprattutto nel caso degli schiavi che svolgono servizio domestico vengono “cooptati”, in molti casi sono trattati ben diversamente da quelli che lavorano nelle miniere o nelle campagne.»

Che cavolo di risposta è mai questa? La domanda posta riguarda i caratteri generali del fenomeno schiavistico e non la distinzione tra le diverse categorie del lavoro servile. Che dei servi in particolare vengano adibiti a cercare i pidocchi in testa ai propri padroni o a lavorare nella porcilaia non c’entra nulla. La domanda è se la schiavitù come condizione generale si può definire in termini di classe oppure no!

Falsificazioni del marxismo/1


L’intervista sul potere di Luciano Canfora è certamente un libro di grande interesse, "denso", come amano dire quelli che apprezzano la commistione continua di argomenti e tesi tra i più disparati e non di rado tra loro contraddittori. Un libro che è un monumento di erudizione  per le insistenti citazioni e rinvii bibliografici. Insomma, un’opera che piace a un certo pubblico e che può poi essere usata come un bancomat dal quale prelevare un po’ di quella stessa moneta da spendere sul mercato delle idee correnti e in saldo.

Non si parla quasi che di élite, generali, statisti, dittatori e cialtroni del genere. Dall’antichità a ieri l’altro mattina. Le cause del mutamento sociale e di rivolgimento statuale per Canfora vanno ricercate nel gioco politico tra le diverse élite da un lato e nella disputa per l’egemonia tra potenze dall’altro. Le quali cose, soprattutto la seconda, indubbiamente rivestono la loro importanza; e tuttavia se tali aspetti sono declinati lasciando in ombra un fattore essenziale e decisivo della dinamica storica, quale il ruolo dei mutamenti del modo di produzione e di scambio, matrice dei rapporti di dominio e di servitù, di conquista ed espansione, si finisce nell’histoire événementielle, pur se nella versione prestigiosa dei tipi Laterza.