sabato 27 novembre 2010
I voti di Bersani
venerdì 26 novembre 2010
Stranezze
giovedì 25 novembre 2010
Porcilandia
martedì 23 novembre 2010
La filastrocca del meno peggio
domenica 21 novembre 2010
Berlusconi forever
giovedì 18 novembre 2010
La cattiva coscienza di Bersani
mercoledì 17 novembre 2010
Il gulag democratico
martedì 16 novembre 2010
Il paese delle élite senza controlli
La maledizione (cronica) di questo paese è un'altra. È la pessima qualità della sua «classe dirigente» (mai virgolette furono più opportune). Non solo della leadership politica: anche del ceto imprenditoriale e della stessa intellettualità. Il declino di un paese privo di una classe dirigente degna di questo nome è inevitabile.
Perché pessima la classe dirigente italiana? Perché a sua volta corrotta e propensa all'illegalità? C'è di peggio: la caratteristica più deteriore è una radicata connotazione castale che riflette la mancanza di «spirito pubblico», la sostanziale indifferenza per le sorti della collettività.
Se l'aspetto progressivo della modernità consiste nell'abolizione della trasmissione ereditaria dei ruoli sociali, in Italia la modernità non è mai arrivata. Siamo una società chiusa e immobile (anche sul piano generazionale), comandata da un'oligarchia determinata ad autotutelarsi. Fatte le debite eccezioni, la classe dirigente italiana si considera una corporazione e come tale tende a riprodursi. Chi ha (o sa) impiega il proprio potere per garantire se stesso e i suoi. Ne discendono, a cascata, familismo, particolarismo e autoritarismo. E un'attitudine parassitaria nei confronti del pubblico, considerato essenzialmente come terreno di conquista. A questo punto, legalità o corruzione fa poca differenza: non solo perché - come si è visto - le leggi fastidiose basta cambiarle a proprio uso e consumo, ma anche per l'estrema opacità delle procedure in base alle quali, in tutte le sedi e a tutti i livelli, si prendono le decisioni che veramente contano.
Da questo punto di vista, la storia repubblicana - soprattutto negli ultimi vent'anni - non è granché diversa da quella dell'Italia liberale. Con una differenza. I teorici delle élite, da Mosca a Pareto e Michels, potevano permettersi di teorizzare l'inferiorità naturale del popolo, in particolare l'incapacità del proletariato di auto-organizzarsi. A loro giudizio, la necessità ferrea del comando oligarchico derivava dall'inferiorità fisica, biologica delle classi lavoratrici, ed essi potevano dichiarare questo convincimento, del resto suffragato dalla rigida gerarchia sociale. Oggi queste cose non si possono più dire, quindi ci si limita a praticarle. Il risultato è un elitismo pseudo-democratico, che assegna al «popolo sovrano», debitamente disinformato e rincoglionito, il ruolo della base di consenso e della massa di manovra.
Se questo è vero, il rischio maggiore si corre ogni qual volta questa classe dirigente medita grandi riforme per costituzionalizzare il proprio dominio e chiudere la forbice tra i nobili principi traditi e i miserabili fatti compiuti. Vengono i brividi a immaginare di questi tempi Bicamerali o Costituenti. Come pure a sentire Luca di Montezemolo discettare di nuove élite pubbliche, valori etici e riforme dello stato, lui che - del tutto legalmente - si è appena aumentato lo stipendio del 40% (parliamo di qualcosa come 5 milioni e mezzo di euro l'anno, per capirci), mentre la Fiat munge miliardi alle finanze pubbliche e - altrettanto legalmente - getta sul lastrico decine di migliaia di operai.
Morale: speriamo proprio che Berlusconi cada al più presto. Quando ci libererà dalla ingrata presenza sua e dei suoi cortigiani faremo festa. Ma sia chiaro che i veri problemi di questo paese saranno ancora lontani dall'essere risolti.
domenica 14 novembre 2010
Al voto, al voto
Questi dati segnano il sostanziale fallimento del'ustruzione pubblica. Il resto è una conseguenza.
venerdì 12 novembre 2010
Lo squalo nero
Parigi, 1919 / 3
giovedì 11 novembre 2010
Parigi, 1919 / 2
Parigi, 1919 / 1
Fine corsa
mercoledì 10 novembre 2010
A proposito del libro di Charles Freeman
martedì 9 novembre 2010
Il mito di Gesù di Nazaret, la favola del Cristo risorto
- Ad un cortese post di Malvino ho tentato, con i miei modesti mezzi, di dare una risposta.*
La tua osservazione è pertinente: il cristianesimo senza resurrezione cade, la fede è inutile, come avverte distintamente lo pseudo san Paolo. In questa presa d’atto è reso esplicito che senza una resurrezione “storicamente avvenuta e constatata” (papa GP II, udienza del 25-1-1996), il dogma resta tale, ottimo per gli alienati del puro spirito, ma non sufficiente per le moltitudini che vivono la loro fede nel dubbio, da Anjeza Gonxhe Bojaxhiu al medico mio vicino di casa. Il dogma non bastava a convincere nei primi secoli del cristianesimo, epoca di proselitismo e di concorrenza, e tanto meno oggi, laddove il cosiddetto bisogno religioso libero e volontario si basa sulla consapevolezza e la coscienza individuale. Ben sappiamo che l’insistenza con cui la Chiesa posa il proprio sguardo sulla storia, sull’”avvenuto” e “constatato”, non è casuale, perché è sulla commistione tra fede e ragione che essa ormai può sperare di intrecciare ancora la trama della sua menzogna, anche nei riguardi di chi non cura una conoscenza approfondita della storia, anzi proprio verso costoro.Pertanto, ritornando sulla resurrezione come tema sicuramente centrale del cristianesimo, osservo che se la fede non ha senso senza la pasqua, il presupposto di questa è l’avvento. Solo dopo aver stabilito la realtà storica del presepio, la buona novella può incominciare e l’indagine soggettiva arrivare a quantificare il numero dei testimoni a favore della resurrezione: 500!Oggi noi ridiamo degli dèi, delle credenze degli antichi. Non si tratta semplicemente di negare le vicende straordinarie degli dèi e i loro supposti poteri divini; per la coscienza moderna è risibile solo l’accenno alla loro pretesa realtà storica. Eppure la loro influenza, il loro regno nella dimensione reale dei comportamenti umani di allora (in generale non meno razionali dei nostri), è stato ben presente e duraturo, almeno quanto quello del cristianesimo in seguito. E nemmeno il racconto del loro mito, in certi casi, è troppo dissimile da quello evangelico. Il cristianesimo può vantare però, e questo fa la differenza, il quasi universale riconoscimento, perfino da parte degli ebrei e degli islamici e di molti non credenti, dell’esistenza storica del suo fondatore, cioè di un uomo chiamato Gesù o con esso in qualche modo identificabile. In questo insiste la Chiesa fin dalla nostra infanzia, sapendo bene che solo dopo viene il momento della nostra incommensurabile stanchezza, quando, rassegnati e messa da parte ogni illusione sulla razionalità del mondo e il senso della vita, ci si aggrappa alla consolante certezza di questa figura umana interiorizzata fin dall’infanzia. Nel dubbio, mai del tutto fugato, ma anche nella speranza che vi corrispondesse, in qualche modo, un’entità divina effettivamente risorta dopo la morte.
diciotto brumaio
lunedì 8 novembre 2010
Passatempi
domenica 7 novembre 2010
Re e pedoni
sabato 6 novembre 2010
Cercansi coloni
venerdì 5 novembre 2010
L'altra faccia degli Usa
Falsificatori professionali
giovedì 4 novembre 2010
Di che?
mercoledì 3 novembre 2010
Cadorna, il Napoleone de noantri
«La verità non sarà mai saputa veramente;
da che parte il diritto, nemmeno;
da che parte la giustizia, meno ancora:
dove ci sono passioni non c’è nulla di quelle tre cose»
(Angelo Gatti, Un italiano a Versailles, p. 283).
Versailles, seconda decade del dicembre 1917. Nella villa Béthune, un magnifico palazzo costruito
da pochi anni nell’omonima via appena fuori città. Il Generale, come già faceva nella sede di Udine,
si fa servire la prima colazione: caffellatte e biscotti.
Dopo colazione, dalle otto e mezzo fino alle nove, il Generale esce a passeggio, accompagnato dal
suo ufficiale d’ordinanza. Con passo pesante, il bastone, i capelli bianchi ed il cappottone che svolazza
e s’attorciglia alle gambe. Alle nove in punto, seguito dai suoi ufficiali, si avvia verso l’albergo
Trianon, sede il Consiglio di guerra interalleato.
È molto meticoloso il Generale, spacca il minuto, un fanatico della puntualità, dell’esattezza. Di là a qualche giorno, nel mezzo di un’importantissima discussione del Consiglio di guerra, cominciò ad innervosirsi, a muoversi, e disse rivolto ai presenti: «Sono già le dodici, che cosa stiamo a fare? Mi fanno ritardare la colazione!».
È già nevicato copiosamente, ora il vento spazza le strade e gli amplissimi viali sotto un cielo terso.
La piccola città è tranquilla, raccolta e pensosa. Soltanto nella piazza del mercato e nei vecchi quartieri
di via della Passione o di Saint-Pierre, la vita pulsa freneticamente.
Il Generale e i suoi ufficiali sono accolti dal comandante Marsollet, custode e governatore del palazzo;
compaiono dei soldati e i gendarmi francesi si schierano a rendere gli onori all’ospite. La missione
italiana sale al secondo piano, destinatole per metà; l’altra è per gli americani, mentre il primo piano
e diviso tra gli ufficiali francesi e quelli della missione inglese.
La missione italiana è giunta a Versailles da pochi giorni, partita da Torino, in treno ovviamente. Durante il tragitto è stata testimone degli esiti del disastro ferroviario accaduto pochi giorni prima, quando un convoglio di soldati francesi e inglesi inviati in licenza ai loro paesi dalla Macedonia e dall’Italia, deraglia nell’uscire dal villaggio di Saint-Michel. Le carrozze si sono incendiate e 450 dei 1500 soldati sono morti; altri 400 sono rimasti gravemente feriti e alcuni altri sono impazziti.
La missione svolge il suo compito secondo gli orari stabiliti: dalle 9 alle 12 in ufficio, quindi la colazione; poi dalle 15 alle 19.30 ancora in ufficio, segue la cena. È lo stesso regime di Udine, presso il Comando Supremo dell’esercito. Fino ai primi di novembre 1917, l’autocrate di quell’esercito era il generale Luigi Cadorna.
L’8 di novembre, dopo lo sfacelo seguito alla rotta di Caporetto, l’Agenzia Stefani comunicava: «Essendo stato deciso nei colloqui di Rapallo di creare un consiglio supremo politico tra alleati per tutto il fronte occidentale, assistito da un comitato militare centrale permanente, sono stati nominati a far parte di tale comitato militare: per la Francia generale Foch, per l’Inghilterra il generale Wilson e per l’Italia il generale Cadorna. A sostituire il generale Cadorna nel comando supremo è stato con R. decreto odierno nominato a capo dello Stato maggiore del R. Esercito il generale Diaz, e come Sottocapi il generale Badoglio e Giardino.»
Promoveatur ut amoveatur. Le responsabilità di Cadorna per quella sciagurata disfatta non si potevano eludere. Il siluramento di 217 generali non lo sottrasse a questa triste responsabilità. Tuttavia egli tendeva a dimostrare che nessuna colpa lo gravava.
L’on. Ferdinando Martini, convinto assertore dell’intervento in guerra dell’Italia, nelle sue Memorie 1914-’18, scriveva alla data del 1° dicembre 1917: «Dei molti ufficiali venduti ieri, non uno solo che si erige a difensore di Cadorna. Alcuni ne parlavano con deferenza e con rispetto; ma neppure essi lo scusavano del non aver provveduto a un’Armata di riserva, del non aver usato sempre giustizia: cioè di non essere stato nell’impiego delle forze guidato da giustizia distributiva: alcune divisioni furono tenute lungamente a riposo, mentre altre di continuo nelle trincee e mandati poi agli assalti più pericolosi e sanguinosi. E gli si rimproverano i troppo numerosi e non sempre giustificati siluramenti gli ufficiali superiori, dicendosi apertamente che, spesso furono fatti per favorire il suo entourage; “una vera camorra”, più d’uno soggiunse.»
Nel comitato riunito a Versailles (sulla carta un organismo importantissimo, in realtà creato ad hoc per dare un incarico a Cadorna) prevaleva un senso di “idilliaca pace”. Un consesso che discuteva con poca energia e una palpabile sfiducia. Suo compito: esprimere pareri. Non aveva effettivi poteri, non comandava e nemmeno amministrava: non riuscivano nemmeno a mettersi d’accordo, le varie delegazioni, per la colazione in comune.

La missione italiana, guidata dal Cadorna, è composta dai seguenti ufficiali: i colonnelli Bianchi d’Espinosa e Angelo Gatti, i tenenti colonnelli Pintor (padre di Luigi, cofondatore del quotidiano il manifesto) e Ponza di San Martino e il maggiore Martin Fraklin, quindi il ten. col. medico Casali e il maggiore Leone. Tra loro vi è, minore di grado ma non d’importanza, il tenente Tommaso Gallarati Scotti dei principi di Molfetta (la cui madre era la duchessa Maria Luisa Melzi d’Eril), ufficiale d’ordinanza del Cadorna e, di fatto, confessore spirituale di quest’ultimo. Il tenente ebbe come istruttore di catechismo ed assistente nei primi studi il giovane prete don Achille Ratti, cosa che non gli escluse una condanna nel 1911 da parte della Chiesa per le sue novelle Storie dell’amor sacro e dell'amore profano. A suo onore, l’immediata opposizione al fascismo: firma il Manifesto degli intellettuali antifascisti. Otterrà personalmente dal governo inglese che il comando delle forze partigiane sia affidato al generale Raffaele Cadorna, figlio di Luigi e omonimo del nonno. Fu fervente cattolico e anticomunista.
Qui non si tratta di tracciarne la biografia, nemmeno per sommi capi, di Luigi Cadorna, sarebbe soprattutto fuori luogo, ma solo di tentare di lumeggiarne il profilo con l’aiuto fondamentale di un’opera: Un italiano a Versailles, Ceschina, 1958, il diario pubblicato non casualmente postumo del colonnello Angelo Gatti (1875-1948).
Angelo Gatti, durante la sua esperienza a Versailles, ebbe modo di scrivere un ritratto diretto e lucido di Cadorna, come uomo e quale generale, tanto più che era già stato al suo fianco quale capo dell’Ufficio storico del comando supremo a Udine, dal 1915 al novembre 1917.
Gatti considera Cadorna il migliore dei generali italiani (p. 424), e ne traccia un profilo con onesto rigore. Un tratto saliente è già in questo tagliente giudizio, a pagina 134: “Egli solo è un uomo, e gli altri sono numeri”. Lo smisurato ego di Cadorna (il suo metro di paragone costante è Napoleone) e il suo totale disinteresse per la vicenda degli altri: “Non aveva curiosità per nessuno” (p. 426).
Luigi Cadorna (1850-1928) è figlio di Raffaele (1815-1897), generale veterano delle guerre risorgimentali ma noto anche per le vicende connesse alla rivolta di Palermo, detta del “Sette e mezzo” (settembre 1866), quale comandante delle truppe di terra inviate a reprimerla (la marina italiana e quella inglese bombardò la città). Luigi fu avviato giovanissimo alla carriera militare, che fu lenta ma costante, senza alcun episodio di spicco, fino a fermarsi al grado di tenente generale (generale di corpo d’armata) nel 1904. Era noto per la sua rigida interpretazione del regolamento di disciplina e per l’inflessibilità con la quale lo applicava, oltre che per un articolo, che divenne in seguito un librettino, di cui andava molto fiero: Attacco frontale e addestramento tattico.
Egli seguiva la dottrina vigente in quell’epoca, che non teneva conto dei progressi tecnologici, quindi dell’uso delle mitragliatrici e delle bombe a mano, dei reticolati e delle difese in cemento armato. Auspicava offensive compatte di fanteria, senza tener conto del poderoso potenziale di fuoco delle difese avversarie, che riteneva di mettere a tacere a colpi di cannone. Cadorna scriveva di un’avanzata “su terreno morto”, inesistente nel Carso. Inoltre era convinto che il difensore, nella maggior parte dei casi, in vista della massiccia avanzata degli assalitori dovesse “scoprirsi se vorrà batterla col fuoco”. Tale concezione fu smontata dal generale Pollio, dal 1908 capo di stato maggiore dell’esercito, il quale, tra l’altro, osservava: “Perché, non ci possono essere trincee che permettano di far fuoco anche da vicino?”. Bella domanda!
Cadorna fino al 1914 era relegato in un comando periferico, a Genova. E tale battuta d’arresto della sua carriera non era dovuta alla sua idea di “attacco tattico”, ma all’intransigente rifiuto del cosiddetto doppio comando (che tanti guai aveva procurato a suo padre), ossia il rifiuto di accettare, come eventuale capo di stato maggiore dell’esercito, la supervisione del Re (e di chicchessia) in caso di guerra, pur non mettendo in dubbio la supremazia costituzionale del sovrano.
«Del resto Cadorna – come rilevava Gatti – non accetta discussioni di nessun genere, poiché come tutti i violenti non sa andare innanzi, è un monologhista, non è un dialoghista. Questo l’enorme difetto di un generale» (pp. 238-39).
Tuttavia la nomina di Cadorna a capo di stato maggiore dell’esercito, sfumata nel 1908, giunse nel 1914, imposta dalle circostanze: il suo predecessore, il generale Pollio, moriva improvvisamente stroncato da un infarto il 1° luglio. Fatto saliente è che Pollio era immune da sentimenti antiasburgici, “era convinto che l’Alleanza” con Austria e Germania “fosse nei migliori interessi dell’Italia ed era deciso a far sì che funzionasse” (Thompson, La guerra bianca, p. 34).
Il primo ministro era Salandra, un reazionario di prima grandezza, il quale nelle sue memorie scrisse che con la guerra aspirava a purgare il liberalismo dalla “scoria” democratica. Al ministero degli esteri c’era Sidney Sonnino, che non poteva essere che filoinglese dato che sua madre era gallese. Erano appoggiati dagli strati elevati della società e dai circoli industriali che caldeggiavano, per ovvi motivi di profitto, il riarmo e la guerra.
Ad onore del vero, nella primavera del 1915, Cadorna si trovò a dover affrontare una situazione d’incertezza politica, un ondeggiare continuo, che si rivelò assai esiziale per la preparazione di un’offensiva contro l’Austria. Solo pochi mesi prima, nel luglio 1914, appena nominato capo di stato maggiore dell’esercito, presentò al Re un memorandum riguardo allo schieramento di forze contro la Francia, la concentrazione delle truppe italiane sul fronte occidentale e l’invio di altre sul Reno a fianco dei tedeschi. Tuttavia nel dicembre 1914 comunicò a Salandra che l’esercito non sarebbe stato pronto a combattere prima di aprile, convinto oltretutto che la Germania da sola non avrebbe potuto sconfiggere la Francia.
Il resto della storia è fin troppo noto, ossia di come in poco tempo l’Alleanza si sfarinò e si venne alla segreta proposta italiana agli Alleati del 28 febbraio e infine alla firma del Patto di Londra (aprile). Fatto sta che l’entrata dell’Italia in guerra permise alla Francia di non doversi guardare le spalle e alleggerì, o non aggravò ulteriormente, la posizione degli Alleati sugli altri fronti. Questo merito fu sostanzialmente misconosciuto o fortemente ridimensionato in seguito dagli Alleati, soprattutto inglesi e francesi. È fuor di dubbio che se essi si fossero dovuti difendere, nel 1915 e in seguito, sul fronte alpino dagli italiani, i tedeschi, trovandosi a loro volta in netta superiorità sul fronte occidentale, avrebbero sfondato. Il ministro degli Esteri francese scrisse al riguardo: «L’Italia ci ha puntato una pistola alla tempia. Pensate che cosa significa che nel giro di un mese ci saranno un milione di baionette italiane sul campo [...].»
Naturalmente l’Italia stava semplicemente al gioco e voleva in cambio della sua rottura dell’alleanza con la Germania e l’Austria un cospicuo bottino, compreso un pezzettino della “carcassa del turco”. Il 20 maggio, il Parlamento, dapprima contrario, ratificò l’entrata in guerra. Qual era in concreto la situazione della produzione di acciaio e ghisa dell’Italia e la situazione dell’esercito italiano?
L’Italia nel 1913 poteva contare su una produzione di acciaio di 900 mila tonnellate, contro i 17 milioni e 600 mila della Germania, i 7 milioni e 800 della Gran Bretagna e i 4 milioni e 600 della Francia e della Russia. Per quanto riguardava invece la produzione della ghisa, l’Italia si assestava intorno alle 427 mila tonnellate, un decimo della Russia ed un quinto di quanto prodotto dall’Austria- Ungheria.
Con Germania ed Austria-Ungheria, l’Italia aveva avuto un rapporto diretto sino all’inizio dello scoppio della Guerra. Infatti gli scambi con questi Paesi coprivano il 24 per cento delle nostre importazioni ed il 22 per cento delle esportazioni (Valerio Castronovo, Storia economica d’Italia. Dall’ottocento ai giorni nostri, Einaudi, pp. 143-145).
Giorgio Rochart, nel suo L’esercito italiano nell’estate del 1914 parla, riferendosi precisamente al periodo tra il 1862 e il 1912-’13, di circa 18.237 milioni (il 23,7% del totale delle spese dello Stato) di spese sostenute quasi in egual misura tra Guerra e Marina (rispettivamente il 17,4% ed il 6,3%). Questi numeri vanno presi con cautela poiché, per esempio, le spese per la marina mercantile figuravano insieme a quelle della marina da guerra.
«Nell’estate del 1914 l’esercito italiano era il più debole tra quelli di qualsiasi altra nuova potenza. Decenni di spese elevate per le forze armate, che dal 1900 al 1914 si aggiravano mediamente su un quarto del bilancio statale, non erano riuscite a colmare le carenze in fatto di professionalità o di equipaggiamenti. L’esercito era sovraccarico di personale amministrativo e burocrazia, appesantito ben oltre le sue necessità dai corpi ausiliari (medici, veterinari, chimici, genieri). I problemi di approvvigionamento e di rifornimento erano endemici, oltre la metà dei soldati era analfabeta». Inoltre, qualche lustro dopo l’Unità, il governo nazionale decise di «diminuire la presenza piemontese negli alti ranghi dell’esercito, per consentire la promozione di un maggior numero di ufficiali meridionali» (Thompson, op. cit., pp. 70 e 66).
Il generale Pollio aveva proposto, vanamente, di modernizzare l’esercito soprattutto in materia di artiglieria e addestramento degli ufficiali, chiedendo di portare gli effettivi da 70mila a 345mila unità. Il governo respinse questi piani giudicandoli troppo ambiziosi e costosi. Solo nell’ottobre 1914, Cadorna ottenne le risorse necessarie per avviare tali piani di rafforzamento, soprattutto numerico, e stampò 25mila copie per gli ufficiali del suo opuscoletto sulla “tattica”. Tuttavia l’esercito – scrive sempre Thompson – iniziò la guerra con un insufficiente numero di uomini, uniformi, automezzi, fucili e munizioni e soprattutto di artiglieria d grosso calibro, di linee ferroviaria e mezzi di trasporto. Né del resto, lo stato maggiore si fece scrupolo di reclamare con più determinazione stanziamenti per mitragliatrici e artiglieria.
La situazione non era migliore dal lato delle forze austriache, molto inferiori di numero rispetto a
quelle italiane e scarsamente dotate di armamenti:
«Non di rado, la prontezza dei complementi ad entrare in campagna fu subordinata all’arrivo di fucili:
non di rado essi giunsero alle Armate senza armi, e, data la scarsezza di armamento, vi fu perfino
qualche Comandante che propose di tenere i disarmati tanto vicini alla linea di combattimento che
ognuno di essi potesse immediatamente prendere il posto di un morto o di un ferito» (L’ultima guerra
dell’Austria-Ungheria – Relazione ufficiale compilata dall’Archivio di guerra di Vienna, vol. II, trad.
it. 1935, Roma, p. 15).
Dal punto di vista di un piano strategico, il gen. Pollio non aveva preso in considerazione le operazioni contro gli alleati di allora, cioè gli austro-tedeschi. Inoltre, il saliente del Sudtirolo, austriaco, era ben difeso da massicce fortificazioni e gli italiani non disponevano dell’artiglieria pesante utile per aggredirlo. Non restava che neutralizzarlo circondandolo sui tre lati. Gli obiettivi primari restavano giocoforza Trieste e Gorizia. Cadorna riteneva, grazie alla superiorità delle sue forze, di poter lanciarsi in un’offensiva che in breve lo avrebbe condotto ben oltre le due città, verso Lubiana e la stessa Zagabria.
Tale ottimismo non teneva in alcun conto dell’andamento della guerra in Francia e delle lezioni che da essa stavano venendo cospicue. Il 25 novembre 1914 il generale Falkenhayn ordinò alle forze tedesche in Occidente di mettersi sulla difensiva e di tenere il terreno. Iniziava così la guerra di posizione, di trincea. La guerra di movimento era cosa del passato.
Data la concezione tattica, il carattere impermeabile di Cadorna ad ogni argomentazione contraria, considerata la situazione sul terreno e le indubbie difficoltà a superare gli sbarramenti trincerati austro-ungarici, il bagno di sangue fu una conseguenza inevitabile. Del resto sugli altri fronti europei le cose non andarono molto diversamente, segno di una mentalità e un atteggiamento comune presso gli alti comandi alleati. Ciò che lascia sgomenti sono le modalità della carneficina, gli inutili assalti contro le mitragliatrici, in campo aperto, armati, almeno all’inizio, solo di moschetto. Inoltre le condizioni di vita erano al limite della sopportazione per l’assenza di logistica, di servizi essenziali e un minimo di organizzazione.
Il tratto distintivo di Cadorna, comune in genere in molti ufficiali di carriera, denotava il disinteresse e il disprezzo per la vita miserabile e sofferta dei proletari in divisa mandati con noncuranza a morte certa. L’episodio del fiume Timavo, raccontato da Thompson nel suo libro, e che vide protagonista quello psicopatico di D’Annunzio, poeta del massacro, è solo un esempio tra mille consimili, ossia dei tanti sadismi mistici che si compirono in nome della patria, dell’onore e balle varie.
Sul Monte Gabriele vi furono 25mila morti in una sola battaglia, il fuoco fu così intenso che la
montagna perse dieci metri, eppure Cadorna di notte dormiva sonno pieno e tranquillo.
È in tale frangente che «apparvero i difetti costituzionali della sua [di Cadorna] mente e del suo
carattere», scrive Gatti a p. 424, sicuramente aggravati dalla dittatura di fatto che in quel momento
esercitava anche sul fronte interno, sostenuto da una stampa sorvegliatissima e sotto censura.
Oltretutto Cadorna aveva una totale “mancanza di facoltà politica” (p. 357) e dato il suo “carattere
che predomina sull’intelligenza [...] non era nemmeno un uomo che sapeva vedere le grandi questioni
d’Europa” (p. 360), per cui il suo potere assoluto, la sua ostinazione, riuscivano ad alzare tante
barriere quante ne voleva e poteva. Lo scontro con i vertici istituzionali e il Parlamento fu inevitabile
e aspro.
Arrivò la disfatta di Caporetto, ovviamente non voluta da Cadorna, ma nemmeno evitata. Vi concorsero tutti gli elementi e le situazioni, non ultimo il comportamento di Badoglio, la cui carriera era stata fulminea, da tenente colonnello a generale nel giro di un anno. Egli ritardò di ben dodici giorni di far eseguire gli ordini di Cadorna sulla disposizione delle truppe nel settore dove poi il nemico sfondò. Badoglio aveva ordinato che il fondovalle venisse “custodito” anziché difeso da un contingente minimo. Inoltre – come scrive Thompson – ordinò al comandante dell’artiglieria di corpo d’armata di non aprire il fuoco senza il suo ordine. Intorno alle 2.30 del 24 ottobre il comandante richiese il permesso di sparare per contrastare l’offensiva nemica, ma gli giunse il rifiuto.
Stava crollando il fronte, e tuttavia quel mattino, come di consueto, Cadorna, dopo aver fatto colazione con latte, caffè e savoiardi con il burro, scrive la lettera giornaliera alla famiglia (Thompson, p. 319). La sera stessa, Gatti vide Cadorna “tranquillo e sorridente” (Thompson, cit., p. 326). Nelle ore cruciali non mancò di diramare un ordine del giorno: «Chiunque non senta di dover vincere o cadere con onore sulla linea di resistenza, non è adatto a vivere.»
La tragedia di Caporetto fu grandissima: 300mila prigionieri, diserzioni di massa, il caos più completo, la perdita quasi completa dell’artiglieria, di tutti i magazzini e depositi, l’arretramento del fronte di 200 chilometri. Ben prima di questi accadimenti i soldati erano stremati dalle condizioni inumane in cui erano costretti, trattati come bestie da macello a rischio in ogni momento della propria vita per il capriccio di un generale che col binocolo assisteva di lontano agli assalti.
Tuttavia la sconfitta non fu totale, completa, anche perché vi furono reparti che opposero resistenza, di propria iniziativa, cioè contravvenendo agli ordini! Di contro, l’ampio successo austro-tedesco non si trasformò in vittoria definitiva. Lo slancio dell’assalto alla pianura veneta si arrestò al Piave perché non fu supportato da analoga offensiva nel Trentino: i generali tedeschi, mancando forse d’interesse per una visione strategica globale, non concessero le truppe necessarie, troppo intenti ad alimentare il carnaio sul fronte occidentale. In tal modo, con la mancata sconfitta dell’Italia, fu persa per sempre anche la possibilità di predisporre, per la primavera successiva, un concentramento di forze tali da poter infliggere il colpo decisivo in Francia, costringendo in tal modo gli Alleati ad un armistizio. Dopo Caporetto, Cadorna puntò i piedi, non voleva lasciare. A battere il pugno sul tavolo furono gli Alleati. Gli subentrò Diaz, un uomo più docile nei rapporti, un generale forse meno brillante del suo predecessore, ma anche più incline a considerare gli aspetti della vita in trincea in precedenza del tutto trascurati. Furono importati manuali dalla Francia, si cominciarono a costruire latrine e trincee a regola d’arte, aprire qualche spaccio per i generi di conforto, a trattare la truppa, se non umanamente, almeno un po’ meno disumanamente. Arrivarono aiuti anche dagli Alleati, i quali, pur disprezzando gli italiani, avevano ben presente l’importanza del loro fronte.
Cadorna non poteva essere mandato subito a casa e perciò gli fu trovato un ufficio degno del grado e del ruolo che aveva ricoperto. Ecco, come detto all’inizio, perché lo ritroviamo a Versailles nel dicembre 1917, con le sue passeggiate, il suo caffellatte e biscotti, la puntualità degli orari d’ufficio, di colazione e cena, il sonno sereno del giusto. E le visite a Chartres, Fontainebleau e alla Malmaison, dove non faceva che domandare: «Dov’è l’appartamento di Napoleone? Dov’è la stanza dell’abdicazione? Dove si è voluto suicidare?». Commenta a tal riguardo Gatti: «Era una cosa dolorosa. La guida era un poco stupita. Si vedeva che il generale ravvicinava in sé la propria sorte a quella di Napoleone».
Fino al febbraio dell’anno seguente, quando fu avvicendato anche in quest’incarico perché chiamato a Roma a difendersi davanti a una delle tante inconcludenti commissioni parlamentari d’inchiesta che costellano la storia d’Italia. Sulla strada del ritorno, sceso a Modane, Cadorna si mette a passeggiare un po’ sotto la tettoia della stazione. Scrive Gatti: «la gente lo guardava, egli era superbo di essere guardato. È nella sua natura».
Come solito, gli elementi appartenenti alle classi dirigenti quando sbagliano non pagano il dovuto. E questo è tanto più vero più si sale in alto. Se la cavò a buon mercato, anzi con un avanzamento ad incarico prestigioso, il Badoglio che poi protrasse i suoi intrighi e la sua carriera fino al 1945. Non se la passò male nemmeno lo stesso Cadorna che uscì indenne dall’inchiesta. Condannare lui avrebbe significato dover condannare un’intera classe dirigente, dal sovrano fino all’ultimo sottosegretario, dagli stati maggiori fino all’ultimo burocrate ministeriale, dal più grosso industriale all’ultimo accaparratore.
Cadorna tornò quindi a casa, ai suoi riti quotidiani, a scrivere le sue memorie, a cercare d’imbrogliare un po’ le carte. Un suo caporale, divenuto nel frattempo un personaggio di rilievo, lo promosse al grado di maresciallo d’Italia, con relativo appannaggio. Morì nel suo letto e il cordoglio fu “unanime”. A Pallanza, sul Lago Maggiore, gli fu dedicato un mausoleo.
Nelle ultime pagine del suo diario francese Angelo Gatti ebbe a considerare:
«Questo periodo è tremendo e orrendo. Chi ha scatenato questa guerra merita di morire:
chiunque esso sia, in tutte le nazioni. È giusto che coloro che hanno sofferto siano, d’ora innanzi,
gli arbitri dei propri destini. Vita nuova.»