venerdì 26 aprile 2024

Tutta colpa di Mosè?

 

Oggi anche Sigismund Schlomo Freud sarebbe a rischio di essere accusato di antisemitismo. Nella sua casa d’esilio a Londra, mandò in tipografia il suo ultimo libro, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, che aveva cominciato a scrivere a Vienna in piena furia nazista. Questo libro capovolge l’ebraismo: Freud sostiene che Mosè non era ebreo, ma egiziano, un sacerdote del culto di Akhenaton (Amenhotep IV) che sfuggì dall’Egitto dopo la morte del faraone (*).

Freud nel saggio traccia un parallelismo tra l’evoluzione del popolo ebraico e i casi di nevrosi individuale. Inoltre, sostiene che il senso di colpa per l’omicidio (ipotizzato) di Mosè venne ereditato attraverso le generazioni. Ipotizza che i Mosè furono addirittura due. Roba da far tremare i polsi al più saldo dei rabbini.

Freud scrisse anche un romanzo incentrato sulla figura di Mosè, ma lo tenne in un cassetto. Ritrovato nel 1979 da Pier Cesare Bori, il testo è pubblicato nel 2021 in Francia, e nel 2022 in Italia (dice Wikipedia, in realtà il testo fu pubblicato già nel 1977 da Bollati Boringhieri sui manoscritti messi a disposizione da Anna Freud e riedito da Castelvecchi nel 2022).

Proprio a proposito del particolarismo etico del popolo eletto mi sarebbe piaciuto scrivere sul Dio di Abramo, che da almeno tre secoli è in discussione e tuttavia si continua ad uccidere in suo nome e mettendo i morti a credito nel suo conto. Scrivere anche sull’islamismo radicale come flagello (l’ho fatto più volte), e poi sul revisionismo settario che imperversa non solo nell’America trumpiana.

Ed invece eccomi alle prese con i sostenitori delle stragi perpetrate da Israele, suprematisti occidentali ideologicamente simili a certa altra gente che frequenta le madrase. Una specie di gigantesco Parenzo collettivo che in definitiva e paradossalmente ha poco rispetto della memoria tragica dell’ebraismo.

Hanno perso la battaglia dei cuori e delle menti, perciò hanno innescato una controversia sulle proteste studentesche: vogliono che parliamo di qualcosa di diverso dagli assassinî di massa di Gaza.

Stiamo parlando di decine di migliaia di assassinati, specie donne e bambini, da parte di quei serial killer che si fanno chiamare esercito israeliano. Negli ultimi sei mesi, la risposta dei terroristi israeliani alle brutali azioni terroristiche di Hamas in ottobre è stata così sproporzionata, indiscriminata e selvaggia che i sostenitori di ciò che sta compiendo Israele non solo hanno perso qualsiasi livello morale che avrebbero potuto avere, ma hanno anche perso l’opinione pubblica mondiale.

Questo il reale e spudorato motivo dei sostenitori e complici di Israele per innescare una controversia e attirare l’attenzione dei media (controllati dalla grande finanza) e dei politici (notoriamente schierati per motivi elettorali e altro) per distogliere l’attenzione da quello che è stato ampiamente dichiarato essere un genocidio a Gaza (sia chiaro, le questioni nominalistiche non hanno troppa importanza), facendo allo stesso tempo diventare loro stessi, i sostenitori e complici di questo crimine, le vere vittime.

All’inizio di questa settimana, un attacco aereo israeliano ha ucciso ventidue persone mentre dormivano, in gran parte appartenenti a una famiglia allargata, diciotto dei quali bambini. Prima di ciò, gli attacchi contro due abitazioni avevano ucciso nove persone, tra cui sei bambini, mentre un uomo aveva perso tutta la sua famiglia, compresa la moglie, i figli e i nipoti, quando Israele aveva bombardato la sua casa. E prima ancora, cinque bambini erano tra gli undici palestinesi uccisi in una serie di attacchi a Rafah, in cui sono stati rinchiusi 1,5 milioni di palestinesi sfollati. Non voglio tracciare alcun parallelo storico, ma ciò dovrebbe far pensare.

All’ospedale Nasser di Khan Younis, sono state scoperte una serie di fosse comuni con più di trecento palestinesi morti, alcuni dei quali con le mani legate, mentre un’altra fossa comune è stata scavata presso le rovine di Al-Shifa, ospedale dove furono riesumati quasi quattrocento corpi. Allo stesso tempo, l’affamamento che Israele ha deliberatamente architettato continua a fare le sue vittime poiché sia gli operatori umanitari delle Nazioni Unite che il massimo funzionario della politica estera dell’UE riferiscono che ci sono stati “pochissimi cambiamenti significativi” in termini di aiuti umanitari in arrivo e che il loro ingresso è ancora “ostacolato” da Israele.

Tenendo a mente questi esempi delle stragi e della distruzione che si verificano a Gaza da mesi, qualsiasi persona ragionevole potrebbe chiedersi: come diavolo è possibile che qualcuno possa dirsi di essere più preoccupato per degli studenti universitari americani e italiani che occasionalmente dicono qualcosa di inappropriato o cose proprio stupide?

Vengono pubblicati video in cui si vede una persona con un tipico cappello religioso ebraico camminare, filmandosi, tra un’ala di studenti senza che nulla di significativo accada. È evidentemente un provocatore. Ebbene si tratta di un fatto inesistente, ma ciò è stato sufficiente per accostare questo filmato a una foto che ritraee elementi delle camicie brune austriache che nel 1938 impedivano, si legge nella didascalia, agli studenti ebrei di entrare in università.

Penso che ai sionisti e ai loro sodali non convenga in questo momento fare la gara degli accostamenti fotografici.

Una studentessa ebrea, Sahar Tartak, ha affermato (senza alcuna prova) di essere stata “pugnalata in un occhio” da un manifestante con l’asta della “bandierina”. Nel caso fosse stata colpita volontariamente si tratta di un fatto grave ed esecrabile, ma non è noto se si sia trattato di un fatto reale, eventualmente di un incidente o di un’azione intenzionale, ad ogni modo Sahar non ha riportato nemmeno un graffio e “sta bene”. L’episodio, basato esclusivamente sul racconto di Sahar e su nessun altro elemento, ha avuto un rilievo mediatico internazionale abnorme.

La storia della “pugnalata nell’occhio” è stata riportata acriticamente in lungo e in largo in testate come il New York Times, la CNN ha messo le proteste nei campus come prima notizia, seppellendo i resoconti sulle atrocità israeliane menzionate sopra. È possibile che l’ebraismo, che in occidente non deve seriamente temere più nulla, abbia bisogno di questa robaccia vergognosa per difendere le proprie ragioni? Certo che ne ha bisogno, ma per altri motivi.

Con questa propaganda, l’urgenza politica di condizionare gli aiuti statunitensi a Israele per un cessate il fuoco è svanita, e i politici statunitensi minacciano misure come aizzare la Guardia Nazionale contro gli studenti (mentre forniscono altri aiuti militari a Israele per continuare con altre atrocità). Vale rammentare che il 4 maggio 1970, la Guardia nazionale dell’Ohio, schierata dalla Casa Bianca di Nixon e dal governatore dell’Ohio, assassinò quattro studenti che manifestavano contro la guerra in Vietnam, ferendone altri nove.

Martedì scorso, il Dipartimento di polizia di New York ha effettuato centinaia di fermi e arresti di membri di Jewish Voice for Peace che si erano riuniti per bloccare il traffico a Grand Army Plaza, Brooklyn, vicino alla casa del senatore democratico Chuck Schumer, esponendo uno striscione al centro della piazza che diceva: “Nessuno è libero finché tutti non sono liberi. Gli ebrei dicono di smettere di armare Israele”.

La sera prima, la polizia di New York ha arrestato oltre 120 studenti e docenti della New York University, che chiedevano la fine della complicità nel genocidio. Sempre lunedì circa 50 studenti manifestanti dell’Università Yale di New Haven, nel Connecticut, sono stati arrestati, mentre nove studenti che facevano parte di un accampamento filo-palestinese presso l’Università del Minnesota sono stati arrestati martedì mattina. Eccetera.

Il diritto di protestare è un diritto fondamentale. La falsa identificazione dell’opposizione al massacro dei palestinesi con l’antisemitismo mira a criminalizzare qualsiasi opposizione ai veri crimini, quelli del sionismo e dell’imperialismo, a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da quei fatti. Più in generale l’obiettivo è prevenire l’emergere di un movimento giovanile molto più ampio contro la guerra.

(*) Mosè non ha potuto condurre gli ebrei fuori dall’Egitto verso la «terra promessa», per la semplice ragione che, in quel tempo (XIII secolo prima della nostra era), la terra promessa era in mano agli egiziani. Del resto non si trova traccia di una rivolta di schiavi nell’impero dei faraoni, né di una veloce conquista del paese di Canaan ad opera di un elemento straniero. 

giovedì 25 aprile 2024

Non tutti subito

 


È vero, ovviamente, però è doveroso ricordare che gli Usa non hanno combattuto e vinto da soli. Tutti coloro che hanno combattuto contro il nazifascismo hanno dato il proprio contributo. Non tutti subito, perché in Spagna, dal 1936 al 1939, la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti assunsero la posizione di Ponzio Pilato, se non peggio. A Londra e Washington consideravano Mussolini un grande statista (Time gli dedicava le sue copertine e altri gli scrivevano lettere amorose). Non era un segreto per nessuno lauspicio che Hitler attaccasse ad est e non ad ovest.

La liberazione dai nazifascisti (tedeschi, italiani, finlandesi, croati, rumeni, ungheresi, slovacchi) di Stalingrado, Leningrado (assedio di tre anni che costò 900.000 civili morti), Varsavia, Auschwitz, Praga, Bratislava, Budapest, Vienna e Berlino, ha richiesto il sangue di più di 20 milioni di sovietici. Solo nella battaglia di Berlino i caduti dell’Armata rossa furono 80.000.

L’invasione dell’Unione Sovietica, l’operazione Barbarossa, è considerata la più grande operazione militare della storia. Il “fronte orientale” fu il più grande teatro di operazioni della IIGM. Sul fronte orientale combatterono e morirono più persone che in tutte le altre campagne della IIGM messe insieme. I combattimenti e le perdite della Germania nazista sul fronte orientale la resero vulnerabile alle invasioni anglo-americane in Italia e Francia, determinandone la totale sconfitta. 

Più morti, più morti

 

Un bel problema se ottant’anni dopo il 28% non è antifascista. Le buone abitudini non si possono perdere. A sentire che cosa dicono certi ministri (e altre glorie surrealiste) c’è da pensare che certe insolenze gratuite e imbecillità, il gusto per l’involontario paradosso, distinguano i fascisti (se preferite: i fascistoidi) da chi fascista non è.

Ma che cosa significa essere antifascisti in un paese in prestito alla Nato come l’Italia? Non si può avere simpatia per gli stronzi, ma neanche per la melma di certo antifascismo selettivo e a geometria variabile. Di quelli che non spendono una parola per le stragi a Gaza, per esempio. Gli implacabili filosofi del liberalismo che salutano con giubilo e senza nessun punto interrogativo l’invio di missili a Kiev. Dove vogliono che arrivino i missili, a Mosca? Ok. Poi, di rimando? Su twitter e altro non smettono mai di congratularsi a vicenda, ma saranno i primi a imboscarsi quando tutto andrà storto.

mercoledì 24 aprile 2024

Il diritto e il rovescio del più forte

 

Scrivevo ieri, a proposito di “libertà e uguaglianza”, che si tratta in genere di goffe esercitazioni scolastiche di coloro che vorrebbero, a parole e molto meno nei fatti, farsi rappresentanti non degli interessi di chi patisce questi rapporti, ma degli interessi dell’essere umano, dell’uomo in genere; dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà.

Soggiungevo che senza toccare i rapporti di proprietà, questi nobili propositi dichiarati di libertà e uguaglianza diventano un insieme di reazionario e utopistico.

Esempi se ne potrebbero fare molti, uno dei più classici riguarda il rapporto tra padrone e salariato. Partiamo dal Codice Civile del 1804, detto anche Codice Napoleonico, che tanta parte ha avuto nell’informare il diritto civile moderno. L’articolo 1781 regolava i rapporti tra padrone e lavoratore: “Il padrone si crede sulla sua affermazione, per l’ammontare della paga, per il pagamento della retribuzione dell’anno trascorso e delle rate corrisposte per l’anno in corso”.

In altre parole, il padrone beneficiava di una presunzione di credibilità e spettava al dipendente dimostrare il contrario. Questa disuguaglianza di discorso tra padrone e lavoratore la dice lunga sulla visione del legislatore dell’epoca, più preoccupato degli interessi dei proprietari che di quelli dei lavoratori. Il diritto del lavoro verrà costruito lentamente, con l’obiettivo di riequilibrare i rapporti tra padrone e lavoratore, allontanandosi dal diritto comune che si basa sul principio ottimistico che due contraenti sono su un piano di parità. Cosa che non avviene nel mondo del lavoro poiché il proletario è in una posizione di inferiorità rispetto a chi ha il potere di assumerlo e licenziarlo a suo piacimento.

Il diritto attuale, almeno in linea teorica e di principio, tende a tenere conto delle molteplici forme di disuguaglianze tra gli individui, e in qualche modo si sforza di limitarne le conseguenze più gravi, consolidando i diritti dei più deboli e attenuando la posizione egemonica dei più forti. Bellissima ambizione, che però non può in alcun caso superare la contraddizione che sta alla base dei rapporti sociali tra le classi.

Questo discorso sull’uguaglianza, tanto cara al liberalismo progressista, si può estendere a ogni aspetto dei rapporti di classe. Nella realtà di ogni giorno, le cose stanno diversamente. Basti pensare ai tagli di spesa che riguardano la sanità pubblica e al fatto che ciò favorisce quella privata. Nessun problema per chi è ricco o benestante, costoro possono accedere benissimo alle cure della sanità privata. Lo stesso vale per la scuola: che senso ha aiutare le famiglie dei bei quartieri a iscrivere i propri figli alle scuole private visto che comunque possono accedervi?

Ora, apparentemente, salto di palo in frasca, parando di diritti e di uguaglianza in rapporto alla vicenda che vede da quasi ottant’anni contrapporsi israeliani e palestinesi. Si tratta della stessa logica che sottende il diritto privato borghese, la stessa retorica sull’uguaglianza basata su una disparità di fatto che non può essere in alcun modo colmata nell’ambito dei rapporti di proprietà borghese.

La settimana scorsa, mentre noi tutti (o quasi) eravamo impegnati a stabilire se i fascisti nostrani siano davvero fascisti oppure solo l’espressione di una deriva fascistoide, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato contro un progetto di risoluzione che proponeva di garantire alla Palestina la piena adesione alle Nazioni Unite. Il che avrebbe portato al riconoscimento dell’esistenza di uno Stato palestinese. Gli Stati Uniti hanno usato il loro veto per opporsi all’adozione di questa risoluzione e il loro vice ambasciatore, Robert Wood, lo ha giustificato in questi termini: “Questo voto [statunitense] non riflette l’opposizione a uno Stato palestinese, ma tale riconoscimento può nascere solo attraverso negoziati diretti tra le parti”.

Non abbiamo l’impressione di leggere un passo dell’antico Codice napoleonico del 1804? Le controversie tra padrone e dipendente saranno risolte dai rapporti di forza tra loro, senza interventi esterni per riequilibrare le disuguaglianze tra le due parti.

Si tratta dello stesso ragionamento che il diplomatico americano ha adottato per palestinesi e israeliani: sono su un piano di (fittizia) parità e dunque solo dei “negoziati diretti tra le parti” decideranno l’esito della loro disputa. Nessuno terzo, nessun esterno al conflitto potrà agire per ristabilire un giusto equilibrio nelle loro relazioni. Che vinca il migliore, il più forte prevalga (tra l’altro con l’aiuto di armi e dollari statunitensi) e che il più debole scompaia per sempre.

Il liberalismo anglosassone si applica qui con incrollabile cinismo: ognuno deve difendersi da solo (se è palestinese), senza interventi esterni, senza l’aiuto di altri Stati, senza il sostegno di un’autorità internazionale riconosciuta. Il libero mercato in tutta la sua asettica crudeltà.

I palestinesi devono far valere i loro diritti contro lo Stato israeliano sulla base di una palese disuguaglianza, illustrata dalle decisioni della Corte Suprema israeliana che quasi sempre respinge i ricorsi presentati dai palestinesi espropriati delle loro terre dai coloni (coloni!). Poi, se reagiscono contro questi e altri soprusi e violenze, diventano dei terroristi che meritano l’annientamento con le armi generosamente fornite dai Ponzio Pilato statunitensi ed europei.

[...]

 



martedì 23 aprile 2024

"Il più quotato artista"

 

Gli eroi morti sono come questo mondo che sta per finire e che non smette mai di celebrarli: stanchi. Prendiamo Raymond Maufrais, del quale sto leggendo i diari pubblicati postumi, a differenza di Ulisse, dal suo viaggio non ritornò più a casa.

Nessuna Penelope attendeva il suo ritorno, tranne i suoi genitori. Invano. Raymond era un giovane uomo che non si sentiva a suo agio in nessun luogo della terra. È anche tornando a casa si sarebbe sentito estraneo. Ulisse era sfuggito all’ira di Poseidone, alla lussuria dei pretendenti, Raymond doveva sfuggire solo a sé stesso.

Il suo cane riconobbe Ulisse, mentre Raymond dovette uccidere il proprio per cibarsene. Nel 1736 Voltaire concludeva la sua poesia Le Mondain con un verso famoso: “Il paradiso terrestre è dove sono io». Una cosa è certa: quando lo scrisse non era nella foresta della Guiana francese. E Raymond non si trovava dove avrebbe potuto scrivere del paradiso.

«Questa sera sono invitato dai Bush a mangiare lucertola acquatica e riso. Un gran piatto nel centro, e ciascuno, cucchiaio la mano, vi attinge senza restrizioni. Mi piace dividere così, al chiarore del fuoco, la vita dei primitivi. Per questo ho intrapreso questo viaggio, per condividerla pienamente, senza essere infastidito da gente saputa.

«I Bosch hanno cantato buona parte della notte, ha fatto freddo, ha piovuto, impossibile dormire. All’alba scorgo su un ramo di un albero caduto, a pochissima distanza, una superba iguana. Senza alzarmi, dato che ho la carabina a portata di mano, sparo. Cade e lo recupero. Cotto con riso, mi serve da prima colazione» (p. 90).

Improbabile il parallelo tra Ulisse e Raymond, e non so se il francese avesse letto Omero. Potrebbe essere stato astuto come il greco, ma non è mai stato il re di una grande isola e anzi non lo fu di niente. Fin da subito un birichino, e dopo tante avventure non sempre consigliabili (anche Ulisse non è sempre stato un bravo ragazzo, la virtù permanente non caratterizza gli eroi), ha finito per incarnare, a modo suo e per poco, il mito dell’intrepido viaggiatore, forgiato in tante prove che ne basterebbe una sola per mandare sottoterra chiunque di noi.

P.S. Leggere libri, lo dichiara Micheletto Pistolotto, che ha la passione per il cattivo gusto, non serve a nulla. Lo conferma il ministro della cultura che sta dando spettacolo di terz’ordine (e non capisce che la questione non è solo quella del bilancio o dei sussidi, di non promuovere ciò che non deve essere promosso, ma quella dell’intelligenza), e l’intero governo (la cui aspettativa di vita va, ahimè, oltre questa legislatura) con l’adottata strategia della volgarità. Non è solo cinismo: “Il cattivo gusto”, disse Stendhal, “porta al crimine”.

La loro espressione adeguata

 

Elezioni regionali Basilicata: elettori: 567.939; votanti: 282.886 (49,81%); schede nulle: 9.441; bianche: 3.090; contestate: 19. Voti validi: 270.336 (47,59%).

Ciò che mi ha incuriosito è il terzo piazzato (1,21%), Eustachio Follia. Dipendente dell’acquedotto locale, distribuisce i suoi fiori retorici un po’ di qua e un po’ di là sui giornalini locali. Però ha una grande ambizione, quella del suo stesso movimento politico (Volt), che è “pan- europeo” e ovviamente “fondato sui valori della libertà, dell’uguaglianza, dell’equità intergenerazionale”, qualunque cosa voglia dire quest’ultima cosa, e soprattutto qualunque cosa voglia far intendere con il frasario filosofico di “libertà e uguaglianza”.

Ed infatti si sputtanano subito dichiarando di credere “fermamente nella democrazia liberale”, che mi pare mal si concilia nella pratica, specie di questi tempi, col “concetto di sostenibilità ambientale, sociale ed economica raggiungibili senza lasciare indietro nessuno e lottando contro le diseguaglianze” (si badi: ci si limita al “concetto”).

Per esempio, mi piacerebbe conoscere le loro posizioni, sia pure “concettuali”, in relazione alle contraddizioni insite nei rapporti di produzione, quindi su monopolio, finanza, corporativismo e le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza. Il loro è lo stesso l’insulso eco che sento provenire dal Partito democratico e compagnia bella, dove sono tutti tesi a mantenere l’esistenza degli attuali rapporti sociali e dunque della società borghese (che di meglio non c’è, né ora e nemmeno in prospettiva).

Gli aderenti sono consapevoli che siamo “entrati in un’epoca che pone grandi sfide all’umanità” ed “è più che mai necessario tendersi la mano per progredire e migliorare insieme”. Ah, ecco qual è la soluzione proposta, tendersi la mano. Lo diranno forte e chiaro a Washington e a Pechino, forse anche a Bruxelles, dove questo movimento che vuole trasformare l’UE conta un proprio solitario rappresentante.

Si raffigurano il mondo ove domina la borghesia come il migliore dei mondi. Vogliono la società attuale tranne le sue contraddizioni (o aporie, come le chiama Cacciari); vogliono migliorare la situazione di tutti i membri della società, anche dei meglio situati. Quindi fanno continuamente appello alla società intera, senza distinzione, meglio ancora presso i ceti benestanti.

In realtà, questa “sinistra”, democratica, liberale ed europea, vuole far passare alle classi sfruttate la voglia di qualsiasi movimento rivoluzionario, la voglia di adire a un cambiamento delle condizioni materiali di esistenza, cioè dei rapporti economici. Sia chiaro: la borghesia c’è riuscita anche grazie al loro aiuto. Godiamoci i gadget tecnologici e non rompiamo le balle sui rapporti fra capitale e lavoro salariato.

Senza toccare i rapporti di proprietà, questi nobili propositi dichiarati di libertà e uguaglianza diventano un insieme di reazionario e utopistico. Con le loro goffe esercitazioni scolastiche vogliono farsi rappresentanti non degli interessi di chi patisce questi rapporti, ma degli interessi dell’essere umano, dell’uomo in genere; dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà, perché appartiene soltanto alla confusione nella loro testa.

In definitiva, questi piccoli movimenti borghesi giungono alla loro espressione adeguata solo quando i loro buoni propositi di riforma sociale diventano semplice figura retorica.


lunedì 22 aprile 2024

L’onorevole Peppone e i fascisti


Pare si sia fatta una scoperta: il partito che fu di Almirante, poi di Fini e ora di Meloni è impregnato di fascismo. Nessuna ossessione classificatoria (le classificazioni sono comunque e ovunque necessarie), ma è un fatto che i fascisti in Italia (ma non solo) esistono e sono tanti. Perché i conti con il fascismo non sono mai stati fatti realmente e seriamente? Non solo, ma anche per tale motivo.

Quando l’onorevole Peppone, nella rappresentazione filmica, si desta dal suo torpore e s’alza dallo scranno parlamentare e grida “fascisti”, senza sapere il motivo della bagarre in atto, in cuor suo sapeva di non sbagliare, perché i fascisti non se ne sono mai andati. Dimenticava, per spirito di appartenenza, che l’amnistia del 1947 fu promossa da Togliatti. Certo, invocata da tutti gli altri, e fu un colpo di spugna che lasciava impuniti molti protagonisti di quel regime fino al punto di riciclarli in ruoli chiave dell’amministrazione statale.

Di là di questo, nella sua realtà storica e sociale, l’Italia in non piccola parte è stata e rimane fascista. Non semplicemente nostalgica e conservatrice, ma proprio fascista. Con ovvie mutazioni situazionali, si tratta delle stesse componenti sociali eredi del regime, che, vale sempre la pena ricordare, non si stabilì al potere nel 1922 per via elettorale, ma con la violenza. Saccheggi, incendi, torture e omicidi punteggiarono l’offensiva fascista, che fu tollerata e anche favorita dalla classe padronale e dirigente d’allora (compresi molti intellettuali prestigiosi).

Dunque, con l’appoggio monarchico, dei cattolici e dei liberali di allora. Ed è per certi aspetti comico vedere i liberali odierni, che hanno costruito una carriera e un patrimonio sulla retorica dei valori democratici e sulla lotta al “totalitarismo”, tornare culo e camicia nera con i fascisti (e i nazisti) non appena è stata l’ora di difendere i “valori” e il primato planetario dell’Occidente. Dov’è la novità, non solo nell’”anima”, rispetto alla “dottrina” di un Franco Freda o di un Giuseppe Pozzo di Borgo? Aveva ragione Peppone: fascisti! Soggiungo: spudorati.

Nel dopoguerra l’Italia non è diventata immune al fascismo per natura ma per circostanze (che sia in vigore la Costituzione firmata da Terracini e non quella di un Carlo Alberto Biggini). Si tratta di cogliere le novità, che sono il frutto di una situazione, ma la sostanza di base resta quella di Salò, nelle sue motivazioni di classe. A livello di rappresentanza politica, il programma, esplicito o semplicemente sottinteso, è di rivendicazione (il regime fattivo e bonario), di vendetta (contro il “tradimento”) e di conquista (lo stiamo vivendo e lo vedremo ancor più con l’istituzione di un Capo dell’Italia fraterna).

Dopo la conferma referendaria, il passo successivo, se il vento di destra prevarrà in Europa, sarà quello di dichiarare che il parlamentarismo non è l’unica, esclusiva e necessaria forma di democrazia.

La soluzione socio-economica: “riconciliazione nazionale” (quando fa comodo), corporativismo (anzitutto fiscale, non più quello statale à la Mussolini), sindacati “domestici”, pace sociale invece di scioperi, gerarchia invece di uguaglianza, paternalismo invece di potere negoziale delle classi salariate, promozione del made in Italy (le antesignane “merende a pane e marmellata nazionali”), ripristino dell’armonia tra le diverse categorie della società, migliorare le condizioni morali, riportare la famiglia al suo luogo primordiale, inibire da buoni cattolici l’aborto, uno Stato custode delle tradizioni, eccetera.

Nello psicodramma nel quale siamo immersi e con questa dottrina sociale (con tanti elementi dilatori, astuzie e propaganda), è come usare una rete a strascico in un acquario. Quanto alle responsabilità della “sinistra”, che vanno ben al di là di aver favorito Meloni e i suoi caricaturali gregari, ebbene non si tratta più di analisi politica, ma di materia psichiatrica. 

domenica 21 aprile 2024

Pornocracy

 

Non venitemi a raccontare che con questi chiari di luna un cincinin di depressione non sfiora anche voi. Abbiamo ridotto le nostre capacità di sentire, di parlare, di pensare, di amare. Avvertiamo tutti un restringimento. Abbiamo sempre meno capacità di attenzione, e presto non penseremo più. Già lo fanno le macchine, e poi sempre più.

La scrittura come antidepressivo, perciò mi dedico così tanto alle frasi (è anche un godimento del linguaggio). Sono “compresse della vita”, come diceva Proust. Mi svegliano, mi restituiscono al mondo la sua complessità, le sue sfumature, la sua chiarezza. Le sfumature sono desiderabili, una forma di resistenza. Sono proprio queste sfumature che danno gusto al pensare.

C’è chi affronta il momento depressivo con la musica, con i farmaci o anche tuffandosi nella lettura dei classici. Personalmente, per motivi sanitari, non posso tuffarmi in alcunché, devo evitare anche le emozioni troppo forti, tanto che da tempo ho smesso di vedere il programma di Dietlinde Gruber, al cui desco televisivo siedono permanentemente fascisti di destra e di sinistra.

Come saggista e da ultimo Dietlinde s’è buttata sul porno. Un modo per combattere la depressione? A mio avviso tardivamente, poiché in lei ho sempre intravisto un profilo euristico particolarmente adatto alla materia. E infatti dichiara di aver visto il primo film porno in un cinema londinese all’età di sedici anni, grazie al fatto che lei “aveva ricevuto dai suoi genitori liberal un’educazione sessuale e sentimentale”, qualunque cosa ciò voglia dire.

Nel 1973, a Londra, la sedicenne “liberal” frequentava le sale strettamente maschili dove si proiettavano film a luci rosse. Tipo un seminterrato umido di quello che poi sarà il Fantasy Video a Islington, a metà strada lungo City Road? Oppure il Compton cinema club a Soho, dove i clienti dovevano firmare un modulo che li rendeva immediatamente membri, quindi il London blue movie centre in Berwick Street o ancora il Taboo club in Great Newport Street? Intraprendente l’adolescente Gruber, anche per gli standard britannici.

Il Italia ci si doveva accontentare delle riviste, che i pretori facevano sequestrare nelle edicole per godersele tutte e solo per loro stessi. Molti anni dopo, il porno arrivò in casa attraverso le cassette. Film ad alto budget su pellicola che potevano essere un capolavoro di impossibile innocenza, con tratti di poesia erotica. Naturalmente non mancavano pompini e sesso a tre, ma c’erano anche scenari di umorismo e perfino aspirazione alla recitazione. Il più famoso, Gola profonda (1972), fu recensito dal New York Times.

In quegli anni trovare una scena di doppia penetrazione o addirittura del sesso anale era eccezione. Oggi non c’è niente che possa scioccare la più pudica delle fanciulle. È come andare in una discarica e cercarvi meraviglie. Sappiamo che gli organi genitali e il culo sono il dominio privilegiato di Internet, luogo affollato da onanisti da cento miliardi di seghe l’anno. Uno dei tanti modi di creare schiavitù in un miscuglio di penetrazioni, grugniti e bukkake, dando agli schiavi l’illusione della libertà. Un frenetico movimento, un umido incubo che desta l’interesse della nota giornalista televisiva.

Dietlinde si preoccupa per le condizioni di lavoro degli “attori” porno: «A Praga c’è un palazzone con un piano di uffici, uno con i dormitori delle ragazze, un altro per i ragazzi e poi i set dove si gira ogni giorno. Forse, possiamo immaginarci condizioni di lavoro migliori». Lei è per un porno eco-responsabile, meglio se lavoro volontario fatto di maschi dotati e brave troie. Del brutalismo industriale del porno frega niente, come raccontasse della vita sessuale senza tutele dei conigli.

La gente si abbuffa di tonnellate di filmini classificati in decine di categorie. Alcuni spiritosi dicono che sono interessati alle colonne sonore, altri adducono motivi di studio sociologico. Una delle forze motrici più dinamiche, e non solo del porno, è quella di cercare sempre cose che non abbiamo mai visto. In realtà, la pornografia ha perso la sua funzione trasgressiva per diventare normativa. Il suo unico scandalo sta nella sua infantile ripetitività meccanica, che la fa diventare deprimente, come quasi tutto il resto.


sabato 20 aprile 2024

L'anelito

 

Gratta-gratta viene fuori la solita roba: petrolio e gas. Come nel caso del gasdotto Nord Stream 2, quindi del gas e del petrolio statunitense. Come nel caso della Union Oil Company of California (nel 2005 confluita nella Chevron), dell’accordo stipulato a suo tempo coi talebani per il passaggio in Afghanistan di un oleodotto e di un gasdotto. Quell’accordo poi è saltato e i talebani hanno fatto di testa loro. L’Afghanistan è un paese estremamente povero (ma ricco di gas, petrolio e carbone), che, nella carta degli interessi geostrategici, viene a trovarsi nel posto sbagliato nei momenti storici sbagliati.

Vera o solo verosimile la “teoria” delle pipeline, tuttavia i motivi di guerre, invasioni e terrorismo internazionale hanno sempre a che fare con queste cose maledettamente concrete. I fondamentalismi religiosi servono allo scopo. L’Iraq era governato da un tiranno, ma era un Paese laico, così come lo era stato il Libano, la Siria e la Palestina. Lo era anche sostanzialmente la Libia, che oggi non si sa più che cosa sia. Gli unici a non essere “fondamentalisti” siamo noi, sedicenti “occidentali”, laici e ovviamente democratici (abbiamo la stampa libera e le elezioni liberissime).

La Georgia, con il suo anelito di “libertà” e adesione alla UE, è il prossimo pedone. È sufficiente un’occhiata alla carta geografica per capire il “perché” la Georgia, paese caucasico più ad est di Turchia e Siria ed ex repubblica sovietica, con molti meno abitanti del Veneto, aspiri a diventare un paese “europeo” e, guarda caso, aderente alla Nato. Che la Russia non molli la presa mi pare comprensibile (non dico “giustificabile”, termine che non c’entra nulla in queste faccende).

A considerare le cose dal punto di vista della Repubblica dell’Ossezia del Sud e della Repubblica di Abcasia, la situazione è pressocché identica a quella dell’Ucraina e del Donbass (esiste anche un’altra repubblica autonoma, quella dell’Agiara, con popolazione musulmana). Sarà solo un caso? Il cliché è identico: a Tbilisi sfilano alcune migliaia di manifestanti con la bandiera della UE (quella a stelle e strisce è troppo compromettente). Ci sarà anche in Georgia un bagno di sangue? Chi può dirlo. Potessimo dare una sbirciata ai conti correnti di certe “personalità” locali e di certe “fondazioni” capiremmo molto di più.


venerdì 19 aprile 2024

Il "nuovo mondo"

 

Nel 1945, le capacità industriali degli Stati Uniti erano cresciute nel corso della guerra a tal punto che rappresentavano circa il 35% della produzione mondiale. Gli Stati Uniti furono in grado di usare la loro forza economica per ricostruire il capitalismo mondiale. Non lo fecero per altruismo, ma perché la stabilizzazione del capitalismo in Europa e in Asia si adattava agli interessi americani. Se l’Europa e il resto del mondo fossero stati riportati alle condizioni degli anni Trenta, l’economia americana, dipendente dall’espansione del mercato mondiale, avrebbe dovuto affrontare un disastro anche più grave di quello vissuto nel decennio precedente.

Nel marzo del 1945, William Clayton, sottosegretario di Stato agli affari economici, in un discorso al Congresso contro i sostenitori delle tariffe doganali elevate, avvertiva che “la pace nel mondo sarà sempre gravemente compromessa dal tipo di guerra economica internazionale che è stata condotta così amaramente tra le due guerre mondiali”, e che “la democrazia e la libera impresa non potranno sopravvivere a un’altra guerra mondiale”.

Da anni, gli Stati Uniti stanno portato avanti una guerra economica (ma non solo economica se facciamo mente alla vicenda del Nord Stream 2) che colpisce allo stesso modo alleati e rivali imponendo o minacciando tariffe doganali. Si tratta delle stesse politiche tariffarie che crearono le forti tensioni commerciali degli anni Trenta e che gli architetti dell’accordo di Bretton Woods avvertirono avrebbero portato a una nuova catastrofe.

Il sistema di Bretton Woods (1944) mirava a ripristinare il sistema finanziario internazionale distrutto dalla Grande Depressione degli anni ’30. Fu stabilito che il dollaro USA avrebbe funto da valuta globale, sostenuto dall’oro al tasso di 35 dollari l’oncia.

Il ruolo del dollaro americano ha fornito enormi vantaggi agli Stati Uniti, permettendo di accumulare deficit e debiti, gran parte dei quali sono stati utilizzati per finanziare le spese militari e le guerre, in un modo impossibile per qualsiasi altra economia.

Quel sistema era segnato da una profonda contraddizione che fu identificata all’inizio degli anni ’60. Il funzionamento del sistema richiedeva un deflusso di dollari dagli Stati Uniti verso il resto del mondo per finanziare il commercio e gli investimenti. Allo stesso tempo, l’accumulo di dollari al di fuori degli Stati Uniti minato la capacità americana di convertirli in oro. E accadde proprio questo: le banche centrali europee (ma non solo) iniziarono a riscattare dollari in oro alla fine degli anni ’60 (provocando una corsa al prezzo e il collasso del London Gold Pool), e in tal modo il sistema di Bretton Woods iniziò a sgretolarsi.

Il punto di svolta arrivò quando la bilancia commerciale degli Stati Uniti divenne negativa, portando il presidente americano Nixon a rimuovere la copertura aurea dal dollaro il 15 agosto 1971. Da allora, il mondo ha operato con il dollaro come valuta globale fiat (cartamoneta). A differenza dell’oro che incarna valore, i dollari cartacei non hanno alcun valore intrinseco. Possono funzionare come moneta mondiale, facilitando il commercio, gli investimenti, il credito e fungendo da riserva di valore nella misura in cui sono sostenuti dal potere economico dello stato americano e del suo sistema finanziario.

Il potere del dollaro è stato gravemente scosso dalla crisi finanziaria globale del 2008, originata dall’orgia speculativa delle banche statunitensi, che, senza il massiccio intervento della Federal Reserve, avrebbe portato al collasso del sistema finanziario mondiale.

Da allora si sono verificati altri shock importanti, tra cui quello avvenuto nel marzo 2020, all’inizio della pandemia. Il mercato dei titoli del Tesoro statunitense si è bloccato per diversi giorni – non c’erano acquirenti per il debito statunitense, ritenuto l’asset finanziario più sicuro al mondo – e la Fed è dovuta nuovamente intervenire per un importo di circa 4mila miliardi di dollari.

L’accumulo del debito pubblico statunitense sta diventando rapidamente insostenibile, supera il PIL combinato di Cina, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito. Le più recenti proiezioni del Congressional Budget Office (CBO) collocano il debito degli Stati Uniti al 99% del PIL alla fine di quest’anno e oltre il 100% nei prossimi anni.

È vero che la metà dei titoli di debito sono detenuti dal settore privato statunitense (se c’è un grande debito c’è un grande credito, il grosso del malloppo è in mano a un esiguo numero di patrizi che controllano le società finanziarie), poiché è ritenuto un investimento a basso rischio (gli Stati ne beneficiano due volte perché gli interessi che pagano al settore privato vengono a loro volta tassati e la liquidità rimane entro i loro confini), tuttavia si tratta di un mercato due volte più importante di quello delle azioni e gli investitori, non solo quelli esteri, potrebbero allontanarsi dai titoli del Tesoro statunitense (con rendimenti che sfiorano il 5%, con riflessi su un’ampia gamma di asset) per diversi motivi legati al clima di incertezza sia interna che globale (*).

Può sembrare che il sistema finanziario operi in qualche modo ben al di sopra della realtà economica, assumendo addirittura una sorta di carattere illusorio poiché le banche centrali creano denaro dal nulla con la semplice pressione di un pulsante del computer. Tuttavia, in ultima analisi, prima o poi il sistema finanziario è chiamato a fare i conti con l’economia reale.

L’impennata del prezzo dell’oro, da circa 1.800 dollari lo scorso anno a quasi 2.400 dollari attuali, è un segnale da non sottovalutare e che ci parla, tra i tanti altri fatti, del “mondo nuovo” al quale stiamo andando rapidamente incontro.

(*) Parlando in generale, in passato il graduale aumento della spesa pubblica era controbilanciato dalle entrate fiscali (da qui la tenuta del livello del debito pubblico). A partire degli anni ’70, la spesa pubblica ha continuato a crescere, mentre le entrate fiscali sono rimaste stagnanti (da qui l’aumento dei livelli di debito pubblico). Negli ultimi decenni è stata la sostanziale stagnazione del gettito fiscale (in rapporto al Pil e al netto degli sgravi) e non l’aumento della spesa pubblica a portare all’accumulo di debito pubblico (anche in Italia, con pressione fiscale percentualmente elevata e però a fronte di una elevatissima evasione).


giovedì 18 aprile 2024

Il formicaio umano

 

Uno dei Leitmotiv che accompagnano il trionfalismo ideologico neoliberista riguarda le migliori condizioni di vita raggiunte da gran parte della popolazione mondiale negli ultimi decenni. Cosa sostanzialmente vera, ma che non va accolta con troppo positivo semplicismo.

Se guardiamo il grafico del PIL relativo ai Paesi dell’Ocse, esso si presenta da decenni tendenzialmente in calo. Viceversa, il grafico che riguarda il PIL mondiale mostra tutt’altro. Ovvio che nei Paesi a più antica industrializzazione, dove le infrastrutture sono state in gran parte realizzate, dove la popolazione gode già mediamente di uno standard di vita migliore e dove le produzioni vengono delocalizzate, il tasso di crescita risulti molto meno accentuato che nei Paesi in via di sviluppo.

Tuttavia lo sviluppo non può essere ridotto alla crescita del PIL pro capite; la sua misurazione richiede un’ampia gamma di indicatori. Il PIL pro capite e i risultati in termini di benessere non sono sempre collegati. La misura in cui la crescita del PIL si traduce in progressi nel benessere varia in modo significativo. In alcuni casi, non ha nemmeno alcun impatto in questo senso.

Esempio, la Cina. Ha ridotto la povertà estrema della sua popolazione, riducendola dal 67% al 2% tra il 1990 e il 2013, ovvero da 755 milioni a 25 milioni di individui. Anche il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà estrema al di fuori della Cina è stato ridotto di 337 milioni tra il 1990 e il 2013, nonostante la rapida crescita della popolazione (dati della Banca Mondiale 2018).

Tuttavia, questi grandi progressi economici degli ultimi due decenni e la continua crescita di alcuni dei paesi più poveri del pianeta non sono sufficienti per superare la povertà estrema. In Africa, ad esempio, sebbene la popolazione in condizioni di povertà estrema sia diminuita in termini relativi (dal 56% nel 1990 al 43% nel 2012), è aumentata significativamente in termini assoluti durante questo periodo, sotto l’effetto della rapida crescita demografica del continente (dati 2016).

Secondo il World Poverty Clock (WPC), circa 630 milioni di persone vivevano ancora al di sotto della soglia di povertà estrema di 1,90 dollari al giorno. Più di un terzo di essi è concentrato in tre paesi: Repubblica Democratica del Congo, India e Nigeria. Nonostante una crescita del PIL superiore alla media globale del 3% tra il 2010 e il 2017 in diversi paesi in via di sviluppo, si prevede che il numero di poveri aumenterà ulteriormente in 15 paesi entro il 2030, anno target degli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Inoltre, in 12 paesi, più della metà della popolazione vive in condizioni di estrema povertà.

La povertà non è l’unico fattore da considerare; la distribuzione dei benefici della crescita all’interno dei paesi gioca un ruolo altrettanto importante. La disuguaglianza di reddito è aumentata in paesi come Cina e India, nonostante la crescita del PIL. Il peggioramento della disuguaglianza, come è ormai noto a tutti, riguarda anche le economie più sviluppate, dove sono i più ricchi, ma non i poveri, a diventare più ricchi (*).

Dunque se è vero che in generale che la crescita economica ha un ruolo nella riduzione della povertà monetaria estrema, non meno vero è il fatto che in tutto il pianeta la forbice tra ricchi e poveri si sta divaricando sempre di più. Questo è anche un motivo per non classificare i paesi in base al loro reddito, che non è un buon indicatore del livello di disuguaglianza.

Non si osserva alcuna stretta correlazione tra il reddito nazionale lordo pro capite e il coefficiente Gini dei paesi, un indicatore standard della disuguaglianza di reddito. Non sorprende che il 13% dei paesi ad alto reddito presenti livelli di disuguaglianza che potrebbero essere riscontrati nelle economie a basso reddito. Inoltre, quasi la metà dei paesi a reddito medio presentano livelli elevati di disuguaglianza (con un coefficiente di Gini superiore a 0,4), tanto che diversi paesi che sono passati al gruppo a reddito medio negli ultimi decenni hanno registrato una crescita accompagnata da un aumento significativo della disuguaglianza.

Quando ci concentriamo sul benessere degli individui in una società, PIL e PIL pro capite sono concetti fuorvianti, senza perciò negare una correlazione trasversale tra PIL pro capite e indicatori di benessere, che però sono solo una parte dell’equazione (vedi l’aspettativa di vita). Ad esempio, il PIL pro capite non può essere confuso con il reddito, il calcolo del PIL include il reddito dei non residenti, in particolare delle società multinazionali che, come sappiamo, i loro profitti li fanno “viaggiare” come vogliono.

Il modo di produzione capitalistico, qualunque idea si possa avere di esso e in qualsiasi modo lo si voglia chiamare, ha le sue inderogabili leggi. Tra esse, quelle della concentrazione e centralizzazione dei capitali, ma la più importante resta quella dell’accumulazione. E questa legge riguarda lo sfruttamento senza risparmio delle risorse naturali e la spremitura fino all’ultima goccia di sudore e sangue dei suoi schiavi. Che lo sviluppo della produttività del lavoro per mezzo della tecnologia possa comportare un aumento del benessere generale non rientra necessariamente tra gli obiettivi dei padroni e degli azionisti, i quali vedono nel formicaio umano solo dei produttori e poi degli acquirenti delle loro merci.

(*) In Cina, il benessere non ha mostrato quasi alcun progresso prima del 1940, ma la presa del potere da parte dei maoisti nel 1949 ha cambiato la situazione. Nel 1958, la Cina lanciò la politica del “Grande Balzo in avanti”, un vasto programma economico e sociale che ebbe termine nel 1962 con risultati disastrosi. In seguito l’aspettativa di vita cominciò ad aumentare drasticamente (da 33,7 anni negli anni ’30 a 65,4 anni negli anni ’70). Da allora l’incremento ha subito un rallentamento, raggiungendo i 73,9 anni nel 2000. Il livello di istruzione è il secondo fattore nel rapido progresso del benessere in Cina. Ciò si spiega con i massicci investimenti statali nell’istruzione e con l’importanza delle spese sostenute dai genitori cinesi per l’istruzione dei propri figli. Introdotta nel 1979, la politica del figlio unico è stata forse lo strumento più efficace per rafforzare gli investimenti familiari nell’istruzione.

mercoledì 17 aprile 2024

Fiutiamo il mondo che viene

 

Cerchiamo un evento nell’attualità italiana il cui interesse possa competere con quello che sta accadendo in Ucraina, Gaza, Iran o nel Mar Cinese. Possiamo intraprendere un esercizio, quello di consultare il sito del New York Times e vedere come questo giornale parla dell’Italia. Vai alla pagina “Mondo” poi clicca su “Europa” e scorri i titoli per trovare un articolo sul nostro Paese. Di che cosa parla? “L’opera della Scala sceglie un italiano come prossimo leader”.

Altrimenti di che cosa parlano i giornali, non solo quelli anglosassoni, relativamente all’Italia? Quando non parlano di mafia così come si parla di un film di Scorsese, scrivono di vacanze, design e di cibo. In genere articoli noiosi come la pioggia. L’Italia conta sul turismo, sulla cultura e sulle feste paesane, ma per essere rispettata sulla scena internazionale, o almeno su quella europea, ci vuole altro.

Sia chiaro, quello dei media stranieri è un gioco facile, perché possiamo fare lo stesso con tutti i paesi del mondo. Il Regno Unito, con la sua famiglia reale degenerata, ci sollazza, e il suo comunitarismo perfettamente idiota è solo presunto. Quanto agli statunitensi, invischiati nei loro problemi etnici e razziali, con gli insegnanti che si recano a scuola armati, vivono sempre più in un ospedale psichiatrico a cielo aperto.

Quanto alla politica, nel suo ordinario è uguale dappertutto, assomiglia a un brutto gioco di ruolo, seguita in tv da fanatici della poltrona, sempre più a destra. Della brava gente che è cresciuta e invecchiata con Berlusconi e Renzi, ma anche con tutti gli altri della compagnia che c’erano prima o son venuti dopo.

In definitiva, le notizie dall’Italia, dal resto d’Europa e dagli Stati Uniti non sono negative. Le borse anche oggi sono positive e Milano è “tonica grazie alle banche”. Fiutiamo il mondo che viene: che cosa mai potrebbe andare storto mentre la nave mondiale si dirige dritta verso l’iceberg di fuoco e sangue? Ma pensa al dramma di quei vicini di casa con due gatti identici!


martedì 16 aprile 2024

Una violenza strutturale

 

La più grande rapina di sempre. A confronto lo scandalo della Banca romana (1892) e poi la cosiddetta Tangentopoli (1992) sono degli episodi di microcriminalità. Si può dire che Tangentopoli abbia favorito, almeno sul piano ideologico, la grande rapina, tutt’ora in corso, e che consiste nel saccheggio del patrimonio pubblico in nome di una razionalità identificata con la razionalità del profitto privato.

I nomi dei principali protagonisti politici di questa rapina si conoscono, ma non sono mai stati indagati e manco ancora perseguiti. Il ruolo dei grandi media è stato e continua ad essere essenziale nell’intossicare l’opinione pubblica, omettendo la realtà del programma di distruzione delle strutture pubbliche, secondo una logica strettamente economica, basata sulla concorrenza e apportatrice di efficienza, contro la logica sociale soggetta alla regola dell’equità (*).

Si tratta di un programma politico di azione, conforme alla descrizione “teorica”, che mira a creare le condizioni per la realizzazione dell’utopia neoliberista di un mercato puro. Una ideologia forte e difficile da combattere perché ha dalla sua parte tutte le forze di un mondo di potere e di interessate relazioni (azionisti, operatori finanziari, industriali), che orienta le scelte economiche, che deregolamenta la sfera finanziaria e garantisce una mobilità dei capitali senza precedenti.

Le stesse aziende sono poste sotto la minaccia permanente del fallimento se non si adattano sempre più rapidamente alle richieste del “mercato”. Perdere “la fiducia dei mercati “ è, allo stesso tempo, perdere il sostegno degli azionisti che, ansiosi di ottenere redditività a breve termine, impongono la propria volontà in termini di impiego, salario e (mancate) tutele della forza-lavoro.

Si instaura così il regno assoluto della flessibilità, con assunzioni con contratti a tempo determinato o interinali, quindi nelle tecniche di assoggettamento razionale della forza- lavoro a tutti i livelli aziendali: concorrenza tra filiali, tra team, tra individui, attraverso la fissazione di obiettivi legati alla retribuzione; colloqui di valutazione individuali, carriere individualizzate, valutazione permanente, incrementi retributivi personalizzati o concessione di premi basati sulle competenze e sul merito individuale; strategie di “responsabilità” tendenti a garantire l’autosfruttamento sia di alcuni dirigenti, ritenuti responsabili delle vendite, dei prodotti, della filiale, del negozio, sia ovviamente dei semplici dipendenti sottoposti a forte dipendenza gerarchica, a forme di “autocontrollo” e di “coinvolgimento” aziendale secondo tecniche di “gestione partecipativa ”.

Marx l’aveva messo in chiaro: si sviluppa una classe lavoratrice che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di questo modo di produzione, che altro non è che l’istituzione pratica di un mondo darwiniano della lotta di tutti contro tutti, a tutti i livelli della gerarchia.

Un sistema basato sull’insicurezza, la sofferenza e lo stress, che fungono da molla per l’adesione al compito e all’impresa. Questa strategia non potrebbe certamente riuscire in modo così efficace se non trovasse la complicità di tutti i livelli della gerarchia, ovviamente anche ai livelli più alti, in particolare tra i dirigenti di un esercito di riserva di lavoro docile alla precarietà e alla minaccia permanente di disoccupazione.

Il fondamento ultimo di tutto questo ordine economico posto sotto il segno illusorio della libertà, è la violenza della minaccia di licenziamento e della perdita dei mezzi di sostentamento che essa implica. Dunque, la violenza strutturale di quelli che chiamiamo contratti di lavoro, ossia una pletora di contratti senza reali tutele che possono togliere in qualsiasi momento ogni garanzia temporale.

Per uscire da questo sistema infernale, dai giochi matematici di questi cinici dogmatici, da questa violenza strutturale che si accumula e ci sovrasta, la strada delle riforme politiche si rivela impraticabile. I partiti politici, anche quelli apparentemente più critici, che non santificano il potere dei mercati in nome dell’efficienza economica, propugnano un patriottismo vago e autarchico, fuori dal tempo e screditato in anticipo, che non tiene conto dei rapporti di forza internazionali e delle leggi naturali dell’economia capitalistica, della quale a ogni modo non hanno intenzione di mettere in discussione i fondamenti: a loro volta il capitalismo vogliono riformarlo!

(*) Un esempio attuale è dato dalla fine delle cosiddette “tutele” per quanto riguarda le forniture di energia, non solo quella domestica. Famiglie e aziende si trovano a pagare bollette tra le più care – se non le più care in assoluto – in Europa. E da chi siamo costretti? Da “fornitori” che in realtà si accontentano di comprare dall’Enel e dall’Eni, ossia speculatori sui “mercati all’ingrosso” degli elettroni e del gas. Miliardi di utili che vanno nelle tasche dei più ricchi, di coloro che viaggiano con costosissimi fuoristrada mentre le loro domestiche pagano sempre più cara le bollette del gas e della luce. Bisognava essere stupidi per non capire il gioco di questi “cartelli” dell’energia. Ma ancora milioni di stupidi andranno a votare e attenderanno l’esito del voto davanti agli schermi televisivi in una suspense insopportabile.

lunedì 15 aprile 2024

A bassa voce

 

Sul Sole 24ore di ieri, a tutta p. 11 con richiamo in prima, si può leggere un reportage da Mosca della simpatica (davvero!) Antonella Scott. La quale ci regala uno scoop: «In sintesi, [in Russia] c’è chi vive meglio e chi vive peggio». Chi l’avrebbe mai sospettata una cosa del genere senza averci messo piede?

Per chi viene dal mondo “ostile”, «sulle prime fa caso ai segni più evidenti del cambiamento iniziato due anni fa: l’assenza di turisti americani ed europei, l’inutilità delle propria carta di credit». Insomma, scopre che l’Occidente è in guerra con la Russia.

«I turisti sono diminuiti, ma ci sono. Cinesi, indiani, sudamericani, kazaki, ora anche iraniani. [...] Vengono invece dalla provincia i gruppetti di signore raccolte attorno a una guida, o le famiglie con bambini [...]».

Ma come se la passa la gente locale dopo due anni di embargo e di guerra? Scrive Antonella: «Una frase ricorre molto spesso nelle conversazioni avute a Mosca, dove ormai per prudenza si abbassa comunque la voce: “Non sono mai stati così bene”».

Eh, non sono mai stati così bene, però lo dicono a bassa voce: il nemico li ascolta. Il merito, scrive Antonella, lo danno a Putin: il despota che non li lascia votare liberamente, come invece accade da noi, nel mondo libero.

Mi chiedo, ma se stanno così bene, perché i ricchi russi vogliono venire tutti in occidente? Perché non si godono i loro yacht nelle fresche acque del Baltico, perché attraccare a Malta o Portofino quando hai a disposizione Sachalin? Perché comprarsi una villa tra le tetre colline toscane invece di farsene una nella amena taiga russa?

Antonella queste domande non se le pone, non almeno nel suo reportage: «”Gran parte del consenso per il presidente si gioca sul tenore di vita”, conferma un osservatore occidentale, spiegando come non sia corretto parlare per la Russia di “economia di guerra”. [...] un’economia di guerra è quella di un Paese completamente isolato, in cui smetti di produrre tazzine e fai solo fucili».

E perché no? La risposta c’è: «Putin non potrebbe permetterselo: scardinare interessi consolidati e produzioni civili sarebbe ormai troppo complicato». Altrimenti sarebbero solo cannoni e niente burro. E invece, prende atto Antonella, si è raggiunta «Una maggiore “giustizia sociale” [chissà perché lo mette tra virgolette] che porta a compimento solo ora la stabilizzazione dell’economia avviata da Putin nel lontano 2000».

Forse Antonella non ricorda a quale grado di sottosviluppo e di anarchia era caduta la Russia negli anni Novanta. Tuttavia riporta la voce di Denis Volkov, sociologo del Centro indipendente Levada, che ha scritto un articolo per Forbes: «indicizzazione dei salari e pensioni, sussidi sociali, pagamenti ai militari e alle loro famiglie, commesse alle imprese del comparto militare. Misure cruciali per le fasce più povere della popolazione [...] mentre le classi un tempo “privilegiate”, più vicine al tenore di vita occidentale e ora colpite da sanzioni, vengono lasciate a sé stesse».

Forse quell’87% dei voti andati al bieco dittatore, quel Putin nipote – dicono – del cuoco di Lenin e Stalin, dipende anche da questa politica economica demagogica? «Valkov aggiunge che per la prima volta dagli anni 90 i sondaggi registrano la percezione di un miglioramento della propria posizione finanziaria, e un netto calo in due anni – dal 45 al 25% – di chi ritiene che il benessere materiale in Russia non sia distribuito in modo equo».

Chissà quali sarebbero le percentuali in Italia rispondendo alla stessa domanda.

giovedì 11 aprile 2024

Il pendolo di Clausewitz

 

Nuove e imponenti spese per armamenti ed eserciti. Qualcuno le giustifica dicendo che il pendolo si è spostato dal “dividendo della pace” al debito di guerra. Vero, ma perché?

Putin il cattivo, il mostro? Possiamo negare che gli hanno portato la Nato sull’uscio di casa, sabotato in ogni modo il gasdotto Nord stream2, fomentato l’Est Europa contro ... Oppure la Cina? Gli Stati Uniti riconoscevano una sola Cina, ora di fatto non più. Sanno bene che Taiwan è cinese quanto lo sono l’Elba o le Egadi per l’Italia, le Baleari per la Spagna, le Òrcadi per la Scozia, eccetera.

A proprio fondamento la guerra ha sempre gli stessi motivi: la competizione economica e geostrategica. Una guerra che non potrà essere solo convenzionale, sia pure ad “alta intensità”, come pronostica (e auspica) Joseph Borrel. No, di convenzionale non c’è più nulla a questo mondo, a parte l’idiozia.

La stabilità strategica in Europa, ha affermato il vice segretario di Stato americano Kurt Campbell, è “la nostra missione più importante, storicamente”. Non è vero: la missione più importante degli Stati Uniti, storicamente dopo l’Inghilterra, è stata quella di dividere l’Europa, nello specifico storico dividerla dalla Russia.

È lo stesso Campbell che minaccia la Cina per le sue relazioni con Mosca, perché ciò è “antitetico agli interessi” americani. Washington vede solo i propri interessi e nega quelli degli altri. Se non fosse drammatico sarebbe comico. Cambell ha chiesto di includere il Giappone nell’alleanza Australia-Regno Unito-Stati Uniti (AUKUS), poiché ciò potrebbe essere la chiave per vincere una guerra con la Cina su Taiwan.

Vogliono aumentare le spese militari perché le tensioni stanno andando fuori controllo, e al fondo c’è il fatto che la Cina è un’economia da 17,5 trilioni di dollari che è il più grande o il secondo partner commerciale per la maggior parte delle principali economie del mondo. L’88% del commercio mondiale e il 60% dei depositi bancari sono denominati in dollari statunitensi, anche se nel 2022 gli Stati Uniti rappresentavano solo il 15% della produzione economica globale e l’8% delle esportazioni globali. Dunque una delle prossime mosse di Washington sarà quella di bloccare l’accesso cinese al dollaro statunitense. La classica goccia che farà traboccare il vaso.

Quanto ai casi nostri, Washington, Parigi, Londra e Berlino non vogliono perdere la faccia in Ucraina, checché ne dica Trump. È ovvio che, al momento opportuno, avranno bisogno di un “incidente”, di un casus belli. Il resto lo faranno, come sempre, i media. Dopotutto nessuno ci punta una pistola alla tempia per costringerci a comprare un prodotto di cui non abbiamo bisogno. Ma questo è un grosso errore crederlo.

Non solo funziona statisticamente, ma esiste un’enorme asimmetria tra i mezzi e le conoscenze delle agenzie pubblicitarie riguardo al funzionamento del cervello umano e la nostra ignoranza sulle tecniche di manipolazione e sui meccanismi universali del pensiero e del comportamento umano (nel 2002, lo psicologo ed economista israelo-americano Daniel Kahneman ha ricevuto il premio Nobel per l’economia per aver confutato l’idea che gli individui facciano scelte razionali per il proprio bene). Ciò che vale per il marketing, vale per la politica, la guerra e tutto il resto.

Non serve innestarci nessun chip sottopelle. La risonanza magnetica funzionale (MFRI) ha reso possibile misurare con precisione il flusso sanguigno a diverse aree del cervello. La Sony, per esempio, ha effettuato una campagna di misurazione dell’imaging cerebrale per progettare un nuovo modello di newsletter, in grado di raddoppiare la percentuale di clic da un giorno all’altro. I cosiddetti esperimenti di “eye-tracking” consistono nel seguire il percorso inconscio dello sguardo sottoposto a stimoli, permettono di analizzarne l’efficacia leggendo annunci pubblicitari in una metropolitana o su un sito web.

È sufficiente guardare le immagini e soprattutto ascoltare il sonoro del discorso di Mussolini il 10 giugno 1940 per farsi un’idea del grado di manipolazione delle masse. E da allora ne sono successe di cose. Il Covid-19 è stata l’occasione per studiare ancora meglio gli effetti delle tecniche di persuasione basate sul sentimento di paura, è stato un banco di prova gigantesco di cui non sono pubblici i risultati. Semplicemente non se ne parla più, quel fenomeno è stato rimosso nell’opinione pubblica ed il resto è diventato segreto di Stato.

La guerra psicologica per mobilitare l’opinione pubblica verso determinati obiettivi ha oggi assunto una nuova forma legata al progresso tecnologico. Le operazioni psicologiche o psyops sono fatto quotidiano. Si chiama guerra preventiva. Non si tratta più di giustificare la punizione di chi detiene la “pistola fumante”, cioè l’arma del delitto appena commesso. È necessario giustificare la punizione di un potenziale criminale che intende acquisire una pistola.

Stesso discorso quando si vuole anestetizzare l’opinione pubblica, per esempio per garantire che l’opinione pubblica non disapprovi le azioni intraprese contro il nemico: si dice che si sta facendo un’indagine su quanto accaduto, facendo le più variegate ipotesi ma in realtà ben sapendo che cosa è effettivamente accaduto. Ciò per evitare una simpatia istintiva per le vittime dei bombardamenti. Dopo un paio di settimane, semmai si presentano delle scuse formali per l’“errore” o il “danno collaterale”, ma ormai ciò che è accaduto non interessa quasi più a nessuno.

Durante la guerra contro la Serbia, la dottrina della Nato, volta a generare la massima frustrazione tra la popolazione civile, prevedeva bombardamenti aerei strategici che distrussero soprattutto le installazioni civili e industriali, lasciando intatta la maggior parte del potenziale militare.

La Nato ha deliberatamente cercato l’effetto Dresda, cioè l’esaurimento morale di un popolo che vede bombardati i suoi edifici, i suoi ponti, i suoi ospedali, le sue centrali elettriche, le sue fabbriche, le sue centrali telefoniche, la sua televisione. Se ti svegli la mattina e in casa tua non c’è elettricità, né gas, il ponte che prendi per andare al lavoro è distrutto, inizierai a chiederti: “Ehi, cosa significa? Per quanto tempo dovrò sopportare tutto questo?”.

L’effetto Dresda: è la stessa cosa che hanno fatto gli ucraini nel Donbass e che ora stanno facendo i russi in Ucraina. Ciò che non ci viene raccontato o che filtra appena, è che la popolazione civile è disperata per la rovina del Paese e i militari scoraggiati dalla supremazia delle forze russe, nonché dalle diserzioni.

Un aneddoto: un aereo C 130 Hercules, denominato Commando Solo, era equipaggiato con una stazione che trasmetteva programmi radiofonici e televisivi in lingua serba. Questo studio volante trasmetteva giorno e notte alla Serbia immagini compatibili con il sistema televisivo jugoslavo e capaci di sostituire i programmi ufficiali. Quasi tutto ciò che sappiamo in Occidente di come è stata condotta quella guerra è falso o manipolato nell’essenziale. E ciò che vale per la Serbia vale per tutti gli altri conflitti.

Per quanto riguarda l’invasione irachena del Kuwait, nota è invece la vicenda dell’incubatrice: una giovane donna testimoniò di aver visto soldati iracheni irrompere in un ospedale del Kuwait e uccidere bambini prematuri nelle incubatrici. Questa testimonianza aveva commosso l’opinione pubblica internazionale ed è stata utilizzata per scopi di propaganda. Si trattava però di una falsa testimonianza e la giovane era la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington.

La propaganda di guerra americana si basa su una struttura complessa che opera in reti, civili e militari, pubbliche e private, ideologiche e industriali. Le agenzie federali, le agenzie di comunicazione private, la lobby militare-industriale, i gruppi di pressione, i think tank, l’industria dell’intrattenimento di Hollywood, agiscono in sinergia per influenzare l’opinione americana e straniera.

Naturalmente si tratta di reti estese anche nei Paesi occidentali (con propaggini in quelli ritenuti ostili), com’è constatabile semplicemente aprendo un giornale o accendendo un televisore. Ne siamo così assuefatti che si fa fatica ad accorgersene. La “metapropaganda” è l’arte di denunciare pubblicamente e ad alta voce la presunta propaganda del proprio avversario al fine di negare ogni credibilità alle sue dichiarazioni.

Le strutture di “influenza” militare fanno parte degli organi ufficiali di disinformazione. L’Office of Strategic Influence (OSI) era responsabile di “fornire dati potenzialmente falsi” ai leader mondiali, ai media e al pubblico. È stato formalmente rimosso nel 2002 per aver fatto sapere che era disposto a mentire al suo popolo e ai suoi alleati. Ma è stato subito sostituito dall’Office of Global Communication (OGC), responsabile della intossicazione informativa. Questo ufficio ha anche la missione di screditare qualsiasi informazione proveniente da un paese ostile, sistematicamente accusato di sviluppare un apparato per diffondere menzogne (Apparatus of Lies). Anche i gruppi complottisti sono favoriti, lo scopo è quello di creare ridondanza e confusione.

Quanto agli embarghi economici, l’Occidente è specialista: prendono in ostaggio un intero popolo e ne organizzano le carenze, privando i più indigenti di beni di prima necessità, come generi alimentari e medicinali. L’embargo contro l’Iraq ha causato più morti della bomba di Hiroshima, tenendo conto delle rispettive conseguenze mediche.

Il vero messaggio di questa campagna non è che il Big Mac sia “senza tempo”, ma che noi siamo sempre considerati gli idioti che gli inserzionisti abuseranno, manipoleranno e ridicolizzeranno spingendoci a seguire le loro orribili mode.