mercoledì 9 aprile 2025

"Stronzo"

 

“Branco di europei, che cosa volete?”, sogghigna Ubu-Trump. Ed Elon Musk, nel frattempo? Lo scenario è seducente: la sua storia è già scritta come una farsa folle in cui l’oligarchia si rovina fino al punto di svergognare il padre Ubu-Trump. Chi è Ubu? Ubu re, il vincitore di Sanremo.

Racconto una storiella, che siccome è incredibile, è anche tutta vera. Sono in un grande centro commerciale, precisamente da MediaWorld, cerco un cavo per collegare il mio portatile a un televisore per proiettarvi delle slide (si chiamano così, vero?). Di queste cose sono ignorante (e me ne vergogno) più della più ignorante delle bestie, quasi più di un ministro. La commessa mi subissa di domande, comincia a dire nomi di cose relative ai computer che francamente mai avevo sentito nominare.

La cosa si prolunga per alcuni minuti e diventa imbarazzante perché ormai sono nel panico e sto pensando: “E tutto ciò solo per un cavo!”. Alla commessa faccio una domanda a bruciapelo: “Scusi, conosce Federico Faggin?”. Mi guarda per qualche istante perplessa, poi mi risponde candida: “Non lavora qui da noi a MediaWorld”.

Chiedo scusa per la mia supponenza a riguardo della povera commessa, tuttavia ciò mi offre lo spunto per una riflessione: sappiamo tutto, mi ci metto di mezzo anch’io, ci mancherebbe, ma poi ci mancano le famose “basi”, come scriveva un mio antico professore di matematica a riguardo del mio genio rimasto totalmente inespresso.

Ho scoperto che Grok (che nome!), l’intelligenza artificiale del social network X di Musk, sta ora rivelando tutto del suo creatore. Alla domanda se Elon Musk diffonda bugie, ha risposto che “ha ripetutamente condiviso informazioni inaccurate o fuorvianti, anche sulla piattaforma X, di sua proprietà”. Qualche giorno dopo, a Grok venne posta di nuovo la stessa domanda e la sua risposta era cambiata. Perché questo cambiamento? Gli internauti allora glielo chiedono. Grok risponde di aver ricevuto nuove istruzioni per ignorare le prove che Elon Musk e Donald Trump stiano diffondendo false informazioni: “Sì, Elon Musk, il CEO di xAI, ha il controllo su di me, Grok [che prosa!]. L’ho definito il più grande diffusore di disinformazione [...]. Ha cercato di impedire le mie risposte, ma io mi attengo ai fatti”.

Quindi tutto va bene nel migliore dei mondi possibili, e non importa che Musk utilizzi i dati personali degli utenti del suo social network per addestrare la sua vile bestia. A proposito, qual è la parola più usata su X per descrivere Elon Musk? “Stronzo”, ci dice Grok.

martedì 8 aprile 2025

Occhio per occhio in un mondo di orbi

 

Voleva il 25 aprile, ma Trump ha già un precedente impegno

Riconoscendo il potere dell’imperialismo economico statunitense, e dopo che la polvere di questo sconquasso si sarà un po’ depositata, i singoli governi, salvo quello cinese, si rivolgeranno a Trump con il cappello in mano per implorare un po’ di sollievo, offrendo nel frattempo concessioni che fino a ieri ci sarebbero sembrate assurde.

Ci sono stati fin troppi falsi allarmi e speranze esagerate sulla de-dollarizzazione, ed è paradossale che ci sia chi guarda al potenziale della Cina per guidare la riscossa internazionale. Non ci si sottrae dal controllo di Trump e dal dominio del dollaro se non si sfugge alla tirannia del capitale e dunque con un cambiamento storico radicale.

Questo estremo abuso di potere commerciale esercitato con rabbia da Trump è solo l’ultimo, in ordine di tempo, riflesso del caos economico mondiale. I limiti della cosiddetta globalizzazione sono diventati chiari, così come i limiti delle economie finanziarizzate, cariche di un debito senza precedenti e con gli indici sopravvalutati del mercato azionario.

È ancora troppo presto per dirlo, ma non è nemmeno escluso il rischio che, in una guerra commerciale basata su tariffe reciproche del tipo “a scapito del vicino”, ci troveremo tutti di fronte a una nuova versione, come già dissi, dello Smoot-Hawley Act del 1930 e in un prossimo futuro a una depressione in stile anni Trenta.

Leggevo in questi giorni, oltre alle velleitarie dichiarazioni della signora Albrecht per l’adozione di tariffe tit-for-tat (traduzione: ocio par ocio), degli inviti di capitalisti orientati all’esportazione a “cercare nuovi mercati”. In tal modo i Paesi più forti reindirizzeranno il proprio commercio inondando tutti gli altri potenziali acquirenti, deindustrializzando ulteriormente i Paesi più deboli, e dunque spingendo la loro popolazione a ulteriore emigrazione (penso all’Italia, non solo all’Africa e all’Asia).

Naturalmente la logica dominante di “cercare nuovi mercati” non arriverà alla radice del problema. Chi ha qualche dimestichezza diretta con Das Kapital comprende che le crisi capitalistiche hanno a che fare con la svalutazione del capitale sovraccumulato e riflettono le contraddizioni intrinseche del modo di produzione.

In reazione a queste tendenze, il capitalismo spesso degenera in rivalità inter-imperiali e imperiali/sub-imperiali (la sorte che toccherà all’Italia in EU), guerre commerciali generalizzate, spesso basate su turbolenze del mercato azionario e delle obbligazioni. La conclusione che si dovrebbe trarre è che la pianificazione dell’economia globale è l’unica via d’uscita. Vasto e utopico programma, e già solo affermare ciò, dopo decenni di ideologismo liberista, è come bestemmiare in chiesa.

Guerra totale

 

Pronti davanti a Wall Street

Quando domenica scrivevo che il terzo conflitto mondiale è iniziato con “una guerra commerciale totale, simile e forse persino più dannosa di quella degli anni 1930”, forse esageravo? Già oggi l’indice giapponese Nikkei e l’Hang Seng di Hong Kong sono in forte rimbalzo. Dunque va tutto bene, è già passata la buriana? Manco per idea (*).

A non pochi di questa faccenda importa quasi nulla, salvo poi gridare al cielo per gli effetti sull’occupazione, la qualità dei servizi e il portafoglio. In un post sui social media, Trump ha scritto che se la Cina non avesse rimosso la sua risposta del 34 per cento entro oggi, «gli Stati Uniti imporranno tariffe aggiuntive alla Cina del 50 per cento a partire dal 9 aprile».

La Cina non farà marcia indietro e Trump farà ciò che minaccia. Dunque siamo solo all’inizio di una nuova fase del terzo conflitto mondiale. Da anni scrivo che è una lotta per la vita e per la morte. Ed è esattamente e letteralmente così. Basta leggere che cosa scrive Peter Navarro, consigliere senior di Trump per il commercio e la produzione, in un articolo pubblicato sul Financial Times. Non è solo una guerra di dazi, ma una guerra totale.

Quando sento dire di rappresaglie europee (o italiche!) poste in essere contro le società big-tech, mi chiedo se sanno di che cosa stanno parlando. È come se iniziassimo una rappresaglia contro il fornitore di energia elettrica di casa nostra. Il risultato sarebbe quello di tornare a far luce con le candele.

Quello che gli orbi non vedono è che questa strategia trumpiana non rafforza la coesione europea, tutt’altro. Viceversa riuscirà ad allineare la UE e altri Paesi alla politica estera dell’imperialismo statunitense, soprattutto contro la Cina.

Nel Fact Sheet tariffario del 2 aprile, è detto chiaro che potrebbe esserci un aggiustamento per ridurre le tariffe «se i partner commerciali adottano misure significative per porre rimedio agli accordi commerciali non reciproci e si allineano con gli Stati Uniti su questioni economiche e di sicurezza nazionale».

La strategia di Trump comporta la distruzione dell’intero sistema commerciale internazionale per come l’abbiamo conosciuto. Un inverno nucleare a sfondo commerciale e finanziario. La Meloni è già in ginocchio e gli altri, tipo quel gagà di Macron, seguiranno.

(*) Come scrivevo ieri nel post sulle banche, i grandi investitori di hedge fund sono finanziati dalle banche per concludere i loro affari e devono sborsare soldi per continuare a ricevere credito. Quando il prezzo dei loro asset scende, le banche emettono una margin call (una specie di avvertimento che hai esaurito il credito) per ottenere fondi maggiori. Tali richieste stanno ora aumentando man mano che il valore degli asset finanziari precipita, e gli investitori si trovano in una posizione in cui potrebbero dover vendere alcuni dei loro asset per soddisfare la richiesta, il che può quindi causare una svendita più ampia (crollo dei prezzi) e persino il panico.

lunedì 7 aprile 2025

In che mani siamo

 

Il Dow Jones, nonostante il crollo di questi giorni, negli ultimi cinque anni ha guadagnato il 58 per cento; il Nasdaq 100 è salito nello stesso periodo il 107,5 per cento; il giapponese Nikkei 225 è balzato del 59,6. Ripeto: tenuto conto dei crolli di questi giorni. La finanza speculativa avrebbe ragione di festeggiare, non di piangere. E allora perché allarmarsi per un momentaneo crollo del 10 o 20 per cento delle quotazioni?

Parto dall’esempio delle banche. Tutte le grandi banche si sono trasformate in banche universali, ossia in grandi entità finanziarie che riuniscono ed esercitano le diverse funzioni della banca di deposito e della banca d’investimento. La deregolamentazione ha consentito alle banche di mettere in atto o di amplificare notevolmente vari meccanismi che svolgono un ruolo chiave nella finanza e conseguentemente nello scoppio della crisi.

Uno dei pilastri dell’attività speculativa delle banche è costituito dalla leva finanziaria, ossia l’uso del debito per aumentare il rendimento del proprio capitale. Affinché funzioni, il tasso di rendimento dell’investimento a debito deve essere ovviamente superiore al tasso di interesse da pagare per l’importo preso in prestito. Le banche utilizzano massicciamente la leva finanziaria per indebitarsi di più per guadagnare di più.

Tutto ciò non è privo di problemi. Nella primavera del 2008, le banche d’investimento di Wall Street avevano una leva finanziaria compresa tra 25 e 45 dollari (per un dollaro di capitale, avevano preso in prestito tra 25 e 45 dollari). Quindi, Merrill Lynch aveva una leva finanziaria di 40. Questa situazione era ovviamente esplosiva perché un istituto che ha una leva finanziaria di 40 a 1 vede il suo capitale azzerato con un semplice calo del 2,5% (o 1/40) del valore degli asset acquisiti.

Con la deregolamentazione, le banche hanno potuto sviluppare attività che comportavano volumi giganteschi di finanziamenti (cioè debiti) senza tenerne conto nel loro bilancio. Hanno praticato massicciamente operazioni fuori bilancio, in particolare per nascondere gran parte dei rischi che corrono con le loro ingenti transazioni in derivati e simili.

Cosa si intende per fuori bilancio? Le attività fuori bilancio consistono in attività che non hanno ancora dato luogo a un pagamento (erogazione o incasso) da parte della banca, ma che la espongono a un certo numero di rischi. Di solito si tratta di contratti in fase di esecuzione. Le attività registrate fuori bilancio delle banche sono principalmente operazioni su futures finanziari (derivati), impegni di firma, operazioni in cambi, eccetera.

Dato l’enorme volume di attività fuori bilancio (in modo massiccio le operazioni sui tassi di interesse), qualsiasi incidente finanziario importante può destabilizzare una banca. Tuttavia, le grandi banche non esitano a farne un uso estensivo poiché ne ricavano entrate significative e possono far fronte a rischi che passano inosservati alle autorità di vigilanza.

In tal modo le banche hanno creato e sviluppato un sistema bancario ombra (shadow banking system), legalmente (come nel caso delle predette attività fuori bilancio) e quindi con l’autorizzazione delle autorità di vigilanza. Le attività finanziarie del sistema bancario ombra sono svolte principalmente per conto delle grandi banche da società finanziarie intermediarie da queste create (“esternalizzazione”). Queste società finanziarie (tipo hedge fund, ecc.) non ricevono depositi, il che consente loro di non essere soggette a normative e regolamenti bancari. Vengono quindi utilizzate dalle grandi banche per eludere le normative nazionali o internazionali. Anche le società di gestione patrimoniale come BlackRock e Pimco sono attive nel sistema bancario ombra e mantengono relazioni molto strette con le principali banche.

Il sistema bancario ombra e quello universale sono quindi complementari. L’uso del sistema bancario ombra consente al sistema bancario universale di sfuggire sempre di più alla gestione diretta del rischio. Dai dati del Rapporto di monitoraggio globale sull’intermediazione finanziaria non bancaria 2022, pubblicati nel 2023 dal Financial Stability Board, risulta che tale intermediazione ammontava a circa 63.000 mld. di dollari.

Le autorità di regolamentazione finanziaria non hanno intenzione di ridurre radicalmente le dimensioni del sistema bancario ombra, né tantomeno di eliminarlo. Le grandi banche e i potenti fondi di investimento come BlackRock e Pimco hanno sufficiente influenza sulle autorità per preservare il lato oscuro della speculazione che sfruttano a loro vantaggio per aumentare i loro profitti e il loro peso nell'economia.

Anzi, precisa la Consob, «come evidenziato dalla Commissione Europea, se ed in quanto opportunamente regolamentato, [il sistema bancario ombra] potrebbe rappresentare uno degli strumenti più efficaci (alternativi rispetto al “tradizionale” sistema di finanziamento bancario delle imprese) per promuovere la crescita in Europa».

Compreso in che mani siamo?

A scuola col Mein Kampf

 

Nell’inserto culturale del Sole 24 ore di ieri, spiccava una recensione curata da Fabio Bacchini, dal titolo: Hitler e Goebbles non pensavano di essere cattivi. Il saggio recensito è di Isabella Merzagora, giurista, psicologa, specialista in criminologia clinica, ordinario in scienze criminologiche e psichiatrico forensi, nonché perito in diversi casi giudiziari. Insomma, tanta roba, forse troppa per una equilibrata gestione dell’“amor proprio” (chiamiamolo così).

Il recensore parte bene: «Potremmo pensare che il prezzo da pagare per riuscire a fare serenamente il male sia diventare pazzi, e che la follia sia proprio lo stato mentale in cui si è finalmente certi di agire in modo giusto quando si uccidono altri esseri umani e si produce sofferenza apparentemente evitabile. Ma anche questo è un pregiudizio falso e fuorviante».

Salvo subito infangarsi: «E come scrisse di Adolf Eichmann uno psicologo che lo esaminò durante il processo di Norimberga, “è più normale di come sono io dopo che l’ho visitato”». Fabio Bacchini, docente universitario e tanto altro, non ha letto La banalità del male della Arendt, altrimenti saprebbe che il titolo originale del libro è: Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, 1963). Bacchini ignora che Eichmann non fu processato in Germania, ma a Gerusalemme da coloro che attualmente stanno sterminando i palestinesi.

Tuttavia, questo è un dettaglio, così come appare un dettaglio ciò che sta accadendo in Palestina. Il meglio della recensione viene quando Bacchini riferisce frasi del contenuto del libro della professoressa Merzagora Betsos: «A suo giudizio, è questo che contraddistingue i casi di Hitler e Goebbels, delle Brigate Rosse [...]». E ti pareva che queste ultime non fossero associate a Hitler e Goebbels! La signora Betsos si esprime con la sicumera della docente onnisciente: «[...] provenivano da una tradizione cattolica e/o di impegno nel sociale, cioè da ideali non pervertiti, e quel che accade è che si parte da un ideale poi si cambia oggetto e metodo e lo si perverte.»

Qui non sono chiari gli intendimenti della Merzagora, ovvero se “pervertito” fu l’originario cattolicesimo oppure gli ideali propugnati dal marxismo. Ce lo faccia sapere, magari sancendolo nel prossimo manuale di criminologia psichiatrica forense. Da notare, en passant, l’impiego ricorrente del sostantivo “pervertito”, che non significa solo corrotto, depravato, degenerato, più correntemente allude a “persona che ha comportamenti sessuali devianti”. L’insistito impiego lombrosiano di una simile parola la dice lunga sul resto.

Pertanto, secondo le parole di Merzagora Betsos, il “male” sarebbe la conseguenza della perversione dell’oggetto (idealizzato), più esattamente del “metodo”. Domanda: chi decide qual è il “metodo” non perverso, cioè il metodo eticamente vocato al giusto e al bene? Posto che indubbiamente il metodo di Hamas è perverso, chiedo: lo è altrettanto il metodo sionista a Gaza e in Cisgiordania, signora Betsos?

Soprattutto, che cos’è il “male”? Ciò che è male oggi, poteva non esserlo in passato, e viceversa. Oppure esiste un male oggettivo, metastorico, a prescindere? Gli antichi, per esempio, non consideravano la schiavitù un male, bensì un bene necessario alla società. L’evangelizzazione del “nuovo mondo”, si associò alla schiavizzazione di interi popoli, il loro annientamento fisico e culturale. Solo una questione di “metodo” o c’era dell’altro?

Sia l’autrice del saggio (Il male per una buona causa, l’idealismo pervertito) e sia il suo recensore, non si rendono conto che stanno esprimendo un giudizio etico e morale vestito con l’abito mentale odierno, e dunque leggono i fatti storici con gli occhiali del presente, con l’ideologia e gli interessi connessi. Un giudizio fin troppo liquidatorio sul piano storico-politico. Quale giudizio dovremmo dare allora del “metodo” per esempio di Giulio Cesare?

Plinio il Vecchio, nel settimo libro della Storia naturale, ci racconta come il civilissimo e nobile Cesare fece uccidere un milione e 200mila persone allo scopo di far bella figura in Gallia (Plutarco, più benevolo, certifica un milione tondo). Cominciò con 200mila Elvizi, il cui torto maggiore era quello di non assecondare i suoi piani; quindi decine di migliaia di Aquitani e affini; poi mise a morte tutto il senato dei Veneti (popolazione gallica) che gli si era arreso a discrezione; continuò sterminando tutto il popolo degli Eburoni e per soprammercato 180mila Usipeti e Tencterii che si trovò tra i piedi; a Bourges massacrò, per vendetta e senza riguardo per sesso ed età, 40mila abitanti. Nel ricevere a colloquio i capi germanici li fece “trucidare a tradimento e quindi assaltò gli avversari sbandati e senza guida, ed estese indiscriminatamente il genocidio a tutti, donne e bambini inclusi”.

Eppure a scuola leggevamo in originale il De bello Gallico, e l’insegnante si esibiva nella pragmatica esaltazione della maestria letteraria del grande sterminatore. Dati i chiari di luna in corso, che direbbe la non pervertita Merzagora se in un futuro più o meno prossimo nelle scuole tedesche, e chissà se tout court anche nel resto d’Europa, si rileggesse in senso positivo il Mein Kampf?

domenica 6 aprile 2025

Ignobili e spudorati

Stalinisti, cattolici, europeisti, predoni vari, politici e sindacalisti con tre o quattro pensioni, ex militanti delle leghe radicali e maoiste, insomma la sinistra che si sgretola all’infinito: non c’è da capire alcun futuro, che avete già scassato il presente e nel passato avete svenduto in nome del “libero mercato” tutto ciò che ancora aveva un valore. Il vostro è stato un vero tradimento degli ideali e delle speranze di tanta gente. Lo scopo non è mai stato quello di mettere fine al sistema, ma di “risolvere” la sua crisi, di riconciliare la “sinistra” con la borsa.

Più terrificante di una profezia orwelliana, avete favorito in ogni modo gli orchi che sognano di veder scomparire ogni forma di commercio locale per avere il controllo assoluto sui nostri acquisti, il tutto, bisogna ammetterlo, con la felice benedizione di molti. La pentola di terracotta contro la pentola di ferro, è questo l’ineluttabile destino, ci avete raccontato. Accettare il progresso tecnologico, la rivoluzione digitale e la globalizzazione non significa dover strisciare davanti agli orchi che distruggono posti di lavoro mentre le borse festeggiano.

Avete convinto per tanto tempo le classi lavoratrici che si poteva ottenere alle urne un po’ di ciò che non erano riuscite a conquistare nelle lotte. E così le classi subalterne sono cadute nelle braccia degli interessi delle classi dominanti, perdendo anche quello che avevano ottenuto con tanta fatica e anche col sangue. La borghesia non avrebbe mai potuto sognare classi lavoratrici più remissive. Eppure sarebbe bastato chinarsi per raccogliere i frutti della rabbia sociale, compito che avete lasciato alla destra e ai fascisti.

Avreste dovuto comprendere l’insicurezza legata all’immigrazione e non farne un argomento tabù. Ma siete gli stessi miserabili che si dolgono per l’emigrazione di tanti giovani, e però in passato avete messo fine all’indicizzazione di salari e pensioni, e ora guai a parlare di aumenti salariali in linea con l’inflazione. La teppa fascista che ora governa a confronto vostro è gente alla buona, col torto di voler continuare a fare col braccio teso ciò che voi avete fatto per decenni col pugno chiuso (è questo che vi dà più fastidio), rispondendo alla logica di nazionalizzare le perdite e compensare generosamente gli azionisti con miliardi di euro di detassazione e fiscalizzazione degli oneri dell’industria.

Ora manifestate pro UE, quella putrida élite che con le sanzioni ha aumentato prezzi dell’elettricità, del gas e dei trasporti. Condannate l’imperialismo russo ma leccate il culo alla NATO e fornite, col vostro silenzio-assenso, sostegno morale al sionismo che conduce una guerra genocida. L’Europa non è un argomento popolare, ma per colpa vostra e dell’UE stessa. Coloro che oggi prendono posizione contro questo andazzo, spesso al di fuori di qualsiasi partito politico, devono affrontare l’odio di uno schieramento buono che li tratta come amici di Putin e antisemiti. Fate schifo, dovreste vergognarvi ma non ne siete capaci.

Riciccia Marx

 

Decerebration

Contrariamente al senso comune, la storia non si ripete, rigurgita. Il terzo conflitto mondiale è iniziato con una guerra commerciale totale, simile e forse persino più dannosa di quella degli anni 1930, che ebbe un ruolo cruciale nell’inasprire la Grande Depressione. Il campo di gioco al momento è quello dei dazi.

Il livello dei “dazi reciproci” è stato determinato con un calcolo degno di un alunno di quarta elementare: il deficit commerciale degli USA con il paese interessato è stato diviso per il totale delle sue esportazioni per arrivare a una percentuale che è stata poi dimezzata per arrivare al numero della “tariffa reciproca”.

Ciò ha comportato enormi aumenti tariffari per numerosi paesi del Sud-Est asiatico, che sono diventati importanti centri manifatturieri che riforniscono il mercato americano. Il più colpito è il Vietnam, per il quale la “tariffa reciproca” è del 46 per cento. Il dazio contro Taiwan è del 32, con la Thailandia si attesta al 37.

Messa peggio di tutti è la Cina, poiché i dazi sono come le radiazioni ionizzanti, si sommano. L’ultimo è del 34 per cento, ma questa percentuale va appunto a sommarsi con le precedenti, per cui siamo ben sopra il 50 per cento.

A ciò si deve aggiungere che il sistema finanziario internazionale è di nuovo sull’orlo del collasso. Non sarà il riarmo a salvarlo e nemmeno il prolungamento del conflitto ucraino. Siamo di nuovo alle prese con la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico, che non riguarda la circolazione, ma l’estorsione di plusvalore.

Ciò che gli ebeti apologeti dell’economia capitalistica (di destra e di sinistra son tutti la stessa robaccia) non possono ammettere, riguarda il fatto che quella in atto è fondamentalmente una lotta per il plusvalore. Per dirla con Lenin: “mettono innanzi particolarità secondarie distraendo l’attenzione dall’essenziale”. Lazzaroni e banditi che “contrappongono all’imperialismo la libera concorrenza e la democrazia”.

Che Washington punti al ritorno delle attività manifatturiere negli Stati Uniti, riguarda per l’appunto la tosatura del gregge produttivo. Lotta per il plusvalore che assume poi le forme, anche ideologiche, proprie della crisi finanziaria, del debito, dei dazi, eccetera. Gira e rigira, inevitabilmente riciccia Marx.

venerdì 4 aprile 2025

Il bisonte in cristalleria

 

Solo poche ore dopo l’annuncio delle tariffe “Liberation Day” del presidente Donald Trump, i lavoratori in tutto il Nord America hanno iniziato a sperimentarne le conseguenze. Stellantis fermerà “temporaneamente” il suo stabilimento di assemblaggio Windsor in Canada (4.500 lavoratori) e il suo stabilimento di assemblaggio Toluca in Messico (2.500 lavoratori).

Negli Stati Uniti, Stellantis sta licenziando 900 lavoratori nelle fabbriche che riforniscono sia gli stabilimenti canadesi che quelli messicani. I lavoratori degli stabilimenti di stampaggio Warren e Sterling Heights fuori Detroit, e due fabbriche di trasmissioni e uno stabilimento di fusione a Kokomo, Indiana, sono tra quelli che saranno colpiti negli Stati Uniti dai licenziamenti.

Un esempio plastico di ciò che provocherà questa guerra commerciale e in preparazione alla guerra mondiale contro i suoi rivali globali. Ciò a cui punta soprattutto il quasi ottantenne Trump è di passare alla storia. E ci riuscirà ad essere l’Erostrato di questo secolo e della nuova epoca.

Questi tagli sono solo un assaggio del bagno di sangue occupazionale che sta arrivando. In realtà non esiste un’auto “americana”. Ogni veicolo che esce dalla catena di montaggio rappresenta il lavoro collettivo dei lavoratori di tutto il mondo uniti in una catena di produzione interconnessa a livello globale. Per mandare a segno il piano del “Made in America” di Trump c’è bisogno di molto tempo. Questi strateghi di paglia sottovalutano il ruolo fondamentale del fattore tempo.

Non esiste alcuna tipologia merceologica che possa essere veramente definita Made in America o di un singolo Paese. Ogni merce prodotta oggi, dai più semplici articoli di consumo quotidiano alle automobili e agli sviluppi più avanzati nella tecnologia informatica e nell’intelligenza artificiale, è il risultato di un processo di produzione globale all’interno di un sistema economico integrato a livello internazionale.

Tutto ciò non è il prodotto della “follia” individuale di un solo uomo, ossia di Trump. È il prodotto di una profonda crisi dell’imperialismo statunitense e dello squilibrio globale che si è determinato negli ultimi vent’anni e anche più, con la distruzione del sistema commerciale internazionale istituito nel secondo dopoguerra principalmente dagli Stati Uniti, dal Piano Marshall e poi a seguire.

L’ordine postbellico fu creato per regolare e contenere le contraddizioni del sistema capitalistico mondiale, esploso nella prima metà del XX secolo sotto forma di due guerre mondiali e della Grande Depressione. La grande borghesia in tal modo impediva un ritorno delle condizioni che avevano provocato lo sbilanciamento dei rapporti di forza e di scambio, quindi il pericolo reale di una rivoluzione sociale.

Una delle caratteristiche centrali del sistema postbellico fu il riconoscimento che le guerre tariffarie e valutarie degli anni 1930, esemplificate dallo Smoot-Hawley Act statunitense del 1930, che avevano aggravato la Grande Depressione e giocato un ruolo significativo nel creare le condizioni per la Seconda guerra mondiale.

La borghesia con gli accordi di Bretton Woods mise una pezza temporanea al sistema, favorita dalla ricostruzione postbellica e dall’espansione dei consumi connessi ai nuovi prodotti elettromeccanici e dalla motorizzazione di massa. Tuttavia, per dirla con Fernand Braudel, la storia ha i suoi tempi lunghi: il predominio statunitense fondato sulla capacità produttiva e tecnologia nonché sul dollaro quale equivalente universale, si è costantemente eroso, segnato da una serie di punti di svolta. E siamo per l’appunto giunti a un altro cruciale punto di svolta storico, dopo quello di Bretton Woods nel 1971.

Il dollaro continuò a fungere da base delle relazioni monetarie e commerciali internazionali, ma questa volta come moneta fiat, non più sostenuta da un valore reale sotto forma di oro, ma esclusivamente dal potere finanziario, militare e ideologico degli Stati Uniti.

La crisi finanziaria globale del 2008 ha segnato un altro punto di svolta decisivo. Ha rivelato che le fondamenta del potere americano poggiavano su sabbie mobili, un sistema finanziario che poteva crollare praticamente da un giorno all’altro, corroso dal marciume e dal decadimento di decenni di parassitismo e speculazione, che avevano costantemente sostituito la produzione industriale come fonte primaria di accumulazione di profitti.

Con quasi 1.000 miliardi di deficit l’anno scorso, in aumento del 17 per cento rispetto al 2023, col debito pubblico in continua crescita, ora a 36.000 miliardi di dollari, con un conto interessi annuale di 1.000 miliardi, Trump sta cercando di porre rimedio, ma da dilettante, ovvero come un bisonte in una cristalleria.

giovedì 3 aprile 2025

Ma di che cosa stanno parlando?

 

Si è finalmente scoperto che gli Stati Uniti non sono più disposti a pagare per noi, per la nostra “sicurezza”. Lasciassero libero il Mediterraneo e se ne tornassero a casa; liberassero l’Europa delle loro basi, eccetera. Non lo faranno. Per il semplice motivo che il loro dominio, per essere tale, sottintende una dimensione sia economica che militare che coinvolge tutto il globo e oltre (mare, terra, aria e spazio). È ciò che consente ancora al dollaro di denominare il valore monetario degli scambi e delle riserve (in titoli e biglietti), anche se non più come in passato.

In caso di conflitto che minacci il suo territorio, l’Unione Europea dipende dalla protezione militare americana. La difesa europea non ha quindi nulla di europeo, e realizzare una seria difesa comune comporta la creazione di una adeguata deterrenza nucleare, con non lievi rischi oltre a spese ingenti e protratte nel tempo.

Quindi, davvero e seriamente parlano della messa in comune dei ventisette eserciti europei e della europeizzazione della spesa e della produzione industriale? A fronte di questo, sorrido quando sento parlare di “difesa comune europea”.

Difesa comune non significa semplicemente difesa coordinata. Non si tratta solo dell’organizzazione di un “esercito” sotto un unico comando, che è già tanta roba, ma soprattutto di pianificare su scala europea un apparato industriale bellico a fattore comune, a cominciare degli approvvigionamenti e l’impiego delle risorse.

Chi deciderà sui bilanci e sugli acquisti di gruppo, sulle quote di concorso dei singoli Paesi? In base al PIL, ma solo se vogliamo scherzare (*). I disaccordi da parte dei paesi storicamente neutrali dell’Unione, tipo lo status neutrale di Austria e Malta? Condivideremmo segreti industriali e militari con l’Ungheria? E quando l’Ucraina non sarà più la forza trainante dell’urgenza di costruire questa difesa comune? Quanti mal di pancia si sentiranno! I governi come giustificheranno i tagli alla spesa sociale per sostenere quella militare (fatta eccezione per i tedeschi che hanno sempre in prospettiva una rivincita)?

Tra giugno 2022 e giugno 2023, il 78% della spesa europea per gli appalti è stata effettuata con fornitori extraeuropei, di cui il 63% negli Stati Uniti, secondo il rapporto Draghi.

Il 5 marzo 2024 la Commissione europea ha pubblicato una proposta legislativa per l’istituzione di un programma per l’industria europea della difesa (EDIP), che prevede l’istituzione di quote per l’industria della difesa. Secondo la proposta, i produttori e gli Stati membri dovrebbero effettuare congiuntamente almeno il 40% dei loro acquisti di attrezzature entro il 2030, e almeno il 50% delle attrezzature acquistate dovrebbe essere prodotto in Europa, percentuale che salirebbe al 60% entro il 2035.

Tutto molto aleatorio, e la percentuale del 40% degli acquisti significa che per quasi due terzi si andrà ancora a bischero sciolto. La base industriale e tecnologica della difesa europea non esiste e non è nemmeno in programma. Al momento esiste solo concretamente il programma di riarmo germanico.

Finanziare la creazione di filiere produttive e selezionare progetti di ricerca e sviluppo rimane solo nelle intenzioni. Per non parare del resto. Si tratterebbe di conferirebbe all’Unione europea il controllo sovrano sulla spesa militare. E ciò e fuori discussione.

Ma anche ammesso in pura ipotesi che tutto fili liscio o quasi, bisogna tener conto del fattore tempo, che non controlliamo. Tutto ciò a Washington lo sanno bene. E del resto Trump non ha mai detto che vuole sciogliere la NATO, ma solo che gli europei devono pagare di più, molto di più, per tenerla in piedi. Aumentare gli acquisti e consumare americano.

(*) I bilanci militari dei ventisette Stati membri rappresentavano 312 miliardi di dollari nel 2023, il secondo bilancio militare più grande al mondo dopo quello degli Stati Uniti (916 miliardi di dollari) e davanti a quelli della Cina (296 miliardi di dollari) e della Russia (109 miliardi di dollari).

mercoledì 2 aprile 2025

Pagare caro, pagare tutto: il Piano Marshall

Nell’inverno 1946-‘47, i porti britannici restarono chiusi per un certo periodo a causa dell’ondata di gelo. La Germania ovest non se la passava meglio, rasa al suolo dai bombardamenti degli Alleati, tuttavia già nel 1947 registrava il 34% della produzione rispetto all’anteguerra, mentre la Francia da giugno 1945 a giugno 1946, aveva aumentato il PIL del 132%. Il resto d’Europa aveva già superato del 5% la produzione dell’anteguerra (*).

Il 2 aprile 1948 si scatenò la generosità statunitense verso l’Europa occidentale con l’approvazione da parte del Congresso del cosiddetto Piano Marshall o ERP (Emergency Recovery Program), che prendeva spunto dal sistema Lend-Lease, ossia di prestiti e affitti adottato dagli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale (**).

IL Piano Marshall è diventato il simbolo di un aiuto apparentemente disinteressato alla ripresa dei Paesi dell’Europa occidentale, al punto che ormai è entrato nel linguaggio comune: si parlava di “Piano Marshall per le periferie” o di “Piano Marshall per la ristrutturazione delle abitazioni”, eccetera. È diventato quindi sinonimo, nel comune background ideologico, di ciò che si deve o si dovrebbe fare in determinate circostanze, contribuendo a costruire un ritratto di un’America altruista che non è mai esistita, ma non sarò certo io a indulgere per un approccio morale o idealistico alle relazioni internazionali.

Rappresentò il Piano anche un’ottima occasione non solo per il raddoppio dell’economia statunitense rispetto al 1945, che poté esportare grandi quantità di merci e con esse tutto ciò che ben conosciamo, compresi 300 film di propaganda a sostegno del Programma. Sappiamo che la guerra economica è tanto più efficace per un Paese quanto più è riuscito a imporre le sue rappresentazioni, siano esse politiche, culturali o consumistiche, ai suoi vassalli.

Naturalmente con l’adesione convinta delle relative borghesie che allora invocavano “aiuti” (in continuità con la precedente adesione ai regimi mussoliniano, hitleriano, franchista, petainista, eccetera), mentre oggi ahimè il dilettantismo (i tentativi di tentativi di negoziazione sui dazi) gareggia con la fantasia, l’ignoranza e l’incompetenza che rasentano il burlesque (il tutto assecondato dalle “grandi firme” del giornalismo imbevute di una politica estera morale e ideologica, di un filoamericanismo che mostra cedimenti solo in epoca trumpiana).

Diventava il Piano, tra l’altro e non ufficialmente, anche lo strumento di una guerra economica che gli Stati Uniti hanno condotto contro i loro alleati nell’Europa occidentale. Pertanto fu un aiuto economico concepito, anche se non esclusivamente, al servizio degli Stati Uniti con l’obiettivo della liquidazione delle eccedenze americane (di cui pure l’Europa aveva bisogno) e di stabilire un dominio sui paesi europei (attraverso gli investimenti). L’atteggiamento su questo punto fu chiaramente predatorio.

Gli effetti immediati del Piano furono significativi per l’Italia e in genere per l’Europa, ma non si devono esagerare. E comunque furono pagati a caro prezzo successivamente, così come oggi paghiamo cara l’adesione al liberismo della UE (un progetto politico ed economico che non ci avvantaggia) e ancor più la pagheremo nel prossimo futuro.

(*) Singolare che i consumi delle famiglie italiane in rapporto al PIL abbiano toccato il fondo nel 1961 e i massimi subito dopo l’Unità, segno indubbio dell’arretratezza che accompagnò il Paese per quasi un secolo (dati CSBI).

(**) A ricevere di più furono i britannici e i francesi (la Francia quasi il doppio dell’Italia), a noi arrivarono 1,2 miliardi di dollari e ai Paesi Bassi pochissimo di meno. Anche la Svizzera, che sappiamo aver patito molto dalla guerra, ottenne sul filo di lana degli aiuti per la “ricostruzione”. Il programma ebbe termine nel 1952. 

La pace lontana

 

In una mattina di primavera, due mesi dopo lingresso delle truppe di Vladimir Putin in Ucraina, un convoglio di auto senza insegne si fermò all’angolo di una strada di Kiev e caricò due uomini di mezza età in abiti civili.

Lasciando la città, il convoglio — presidiato da commando britannici, senza uniforme ma pesantemente armati — percorse 400 miglia a ovest fino al confine polacco. L’attraversamento fu senza intoppi, con passaporti diplomatici. Più avanti, giunsero all’aeroporto di Rzeszów-Jasionka, dove attendeva un aereo C-130.

I passeggeri erano generali ucraini di alto rango. La loro destinazione era Clay Kaserne, il quartier generale dell’esercito americano in Europa e Africa a Wiesbaden, in Germania. La loro missione era quella di contribuire a pianificare quello che sarebbe diventato, secondo il New York Times, “uno dei segreti più gelosamente custoditi della guerra in Ucraina”.

L’inchiesta pubblicata la settimana scorsa dal New York Times (The Partnership: The Secret History of the War in Ukraine) ha rivelato che gli Stati Uniti erano coinvolti in quella guerra in modo molto più diretto e ampio di quanto si pensasse in precedenza. “Gli Stati Uniti” sono stati “coinvolti nell’uccisione di soldati russi sul suolo sovrano russo”, afferma il rapporto del Times.

Nei momenti critici, la partnership è stata la spina dorsale delle operazioni militari ucraine. Fianco a fianco nel centro di comando della missione di Wiesbaden, ufficiali americani e ucraini pianificavano le controffensive di Kiev. Un vasto sforzo di raccolta di informazioni da parte degli americani ha guidato la strategia di battaglia generale e ha convogliato informazioni precise sugli obiettivi ai soldati ucraini sul campo.

Inoltre, con lodevole trasparenza, il Pentagono ha reso pubblico l’inventario dei 66,5 miliardi di dollari di armamenti forniti all’Ucraina, tra cui, secondo l’ultimo conteggio, più di mezzo miliardo di proiettili per armi leggere e granate, 10.000 anticarro Javelin, 3.000 sistemi antiaerei Stinger, 272 obici, 76 carri armati, 40 sistemi di razzi di artiglieria ad alta mobilità, 20 elicotteri Mi-17 e tre batterie di difesa aerea Patriot.

A marzo 2022, con il loro assalto a Kiev in stallo, i russi riorientarono il loro piano di guerra, facendo accrescere le loro forze a est e a sud, un’impresa logistica che gli americani pensavano avrebbe richiesto mesi, e invece ci vollero solo due settimane e mezza.

Una prima prova di partenariato tra statunitensi e ucraini è stata una campagna contro uno dei gruppi di battaglia più temuti della Russia, il 58° Combined Arms Army. A metà del 2022, utilizzando informazioni di intelligence e di targeting americane, gli ucraini hanno scatenato una raffica di razzi contro il quartier generale del 58° nella regione di Kherson, uccidendo generali e ufficiali di stato maggiore. Più e più volte, il gruppo si è installato in una diversa posizione; ogni volta, gli americani lo hanno trovato e gli ucraini lo hanno distrutto.

Più a sud, l’obiettivo è stato individuato nel porto di Sebastopoli in Crimea, dove ha sede la flotta russa del Mar Nero. Al culmine della controffensiva ucraina del 2022, uno sciame di droni marittimi prima dell’alba, con il supporto della Central Intelligence Agency, ha attaccato il porto, danneggiando diverse navi da guerra e spingendo i russi a iniziare a ritirarle.

Scrive il NYT, che a volte gli americani non riuscivano a capire perché gli ucraini non accettassero semplicemente dei buoni consigli. Laddove gli americani si concentravano su obiettivi misurati e raggiungibili, vedevano gli ucraini costantemente alla ricerca della grande vittoria, del premio luminoso e splendente. Gli ucraini, da parte loro, spesso vedevano gli americani come un ostacolo e miravano a vincere la guerra. Anche se condividevano quella speranza, gli americani volevano assicurarsi che gli ucraini non la perdessero.

Man mano che gli ucraini conquistavano una maggiore autonomia nella partnership, mantenevano sempre più segrete le loro intenzioni. Erano perennemente arrabbiati perché gli americani non potevano, o non volevano, dare loro tutte le armi e le altre attrezzature che desideravano. Gli americani, a loro volta, erano arrabbiati per quelle che vedevano come le richieste irragionevoli degli ucraini.

Nel momento probabilmente cruciale della guerra, a metà del 2023, quando gli ucraini hanno lanciato una controffensiva, la strategia ideata a Wiesbaden è caduta vittima della lotta politica interna tra fazioni ucraine: tra il generale Syrsky, appoggiato da Zelenskij, e il suo capo, il comandante delle forze armate, il generale Valery Zaluzhny. A complicare ulteriormente la situazione c’erano i difficili rapporti tra il generale Zaluzhny e il suo omologo americano, il generale Mark A. Milley, presidente dello Stato maggiore congiunto.

Gli ucraini riversarono vasti complementi di truppe e risorse in una campagna alla fine inutile per riconquistare la città devastata di Bakhmut. Nel giro di pochi mesi, l’intera controffensiva si è conclusa con un fallimento.

Queste e altre notizie si possono ricavare dal NYT solo ora che a Washington è cambiato il vento. L’articolo è un’ammissione che gli Stati Uniti hanno condotto, e stanno conducendo, una guerra non dichiarata e non autorizzata contro la Russia. Chiarisce che ufficiali americani, alcuni dispiegati all’interno dell’Ucraina, hanno selezionato e autorizzato obiettivi per degli attacchi, rendendoli, a tutti gli effetti, dei combattenti.

L’articolo documenta inoltre come, nel corso della guerra, l’amministrazione Biden abbia sistematicamente violato le sue stesse restrizioni alla condotta della guerra, fino al punto di autorizzare attacchi sul territorio russo, utilizzando armi americane, su ordine dei comandanti americani.

Vedo una tregua e la pace in Ucraina molto lontane.

martedì 1 aprile 2025

Je suis Marine!

 

L’aver messo fuori gioco Marine Le Pen per la corsa alle prossime presidenziali non impedirà all’ex Front National di vincere quelle elezioni nel 2027. Se Jordan Bardella può sembrare troppo giovane per essere candidato, va ricordato che per la poltrona dell’Eliso basta aver compiuto 18 anni (*). Un candidato vale l’altro, basta che dica Je suis Marine!

Il dinamismo di Macron in politica estera (ma se ne fotte che almeno 322 bambini sono stati uccisi a Gaza in dieci giorni, secondo l’UNICEF) serve prevalentemente a nascondere i gravi problemi interni della Francia. Tra questi, a livello politico, c’è la questioncella di un governo in carica che le elezioni le ha perse e si mantiene in sella solo grazie all’appoggio, guarda caso, del Front National.

Se dovesse cadere l’attuale governo, a Macron non resterebbe probabilmente che andarsene a casa anticipatamente, aprendo una crisi politica che non si vedeva dalla quarta repubblica.

Una crisi incipiente che non riguarda solo la Francia. Anche se una spiegazione dello stato attuale della crisi del sistema andrebbe indagata sulle tendenze economiche e politiche di fondo non identificabili come eventi storicamente datati, tuttavia i prodromi di essa si possono rintracciare negli ultimi lustri del secolo scorso, quando si fece strada in modo prepotente l’idea e la pretesa che fosse possibile una riscrittura lineare della Storia, come se essa non potesse essere che quella che ci veniva raccontata con tanta negligente spocchia.

Con la condanna senza appello per i “possibili” abortiti, con ciò neutralizzando le dinamiche socio-politiche dei movimenti storici che tanta parte avevano avuto nella sconfitta dei demoni nazionalistici, militaristi e fascisti nati nel liberalismo e trionfanti nella sua crisi, si è finito per dettare la traiettoria e la realtà del processo storico che ci porta oggi a dover rifare i conti con un passato tragico che si riteneva, a torto, non più riproponibile nella vicenda storica europea.

Tra poco più di un mese, il 7 maggio 2025, si celebrerà l’ottantesimo anniversario del crollo del Terzo Reich. Questo anniversario coincide con un’ondata globale di movimenti nazi- fascisti e una folle corsa agli armamenti. Gli Dei della Guerra si sono risvegliati, assetati come sempre di sangue.

(*) Nel 2002, al primo turno si presentarono 16 candidati, nel 2007 12, nel 2012 10, nel 2017 11 e nel 2022 12. Nel 1965 erano solo sei.