martedì 31 ottobre 2023

Stupidità e distinzione (non solo “allovin”)

 

Maurizio Cattelan aveva esposto cinque versioni di Comedian, una banana attaccata al muro con il nastro adesivo che è stata venduta per 120.000 dollari a Miami (in tal caso il denaro non misura solo il successo di un’estetica, ma anche quello della stupidità), prima di essere mangiata da un altro “artista” quando l’ha vista esposta al Leeum Museum of Art di Seul.

Lo statunitense Joe Morford ha fatto causa al furbo padovano sostenendo di averla inventata per primo (la frutta attaccata al muro, non potendo vantare quella attaccata alle piante) ma il giudice non ne ha voluto sapere. Robert Scola, il giudice statunitense, si è spinto fino al punto da illustrare anche alcune differenze, secondo lui significative, tra le due “opere d’arte”. L’angolo a cui la banana è stata appiccicata al muro, il fatto che il frutto fosse vero e non di plastica, ma anche “gli standard esigenti che Cattelan ha sviluppato per l’esposizione di Comedian”.

Christian Boltansky, “Popolo”, 2010

Come si vede, l’artista (?) diventa il teorico della sua pratica, facendola diventare oggetto degno di pensiero, costruendo in tal modo un gusto per la stupidità nel campo culturale più ampio.

L’apprezzamento di questa roba che insistono a chiamare “arte” è uno dei sintomi dello sviluppo esponenziale della stupidità in tutto l’ambito della cultura (quella di una società americanizzata con preoccupazioni infantili e superficiali, chiusa nelle sue tautologie e nei suoi pregiudizi) che resiste alla razionalizzazione, all’analisi, alla storicizzazione dei fenomeni artistici.

I critici d’arte, agganciati a doppio filo al mercato di questo pattume, utilizzano il campo lessicale-semantico passando, a loro volta, dalla descrizione alla teorizzazione accalappiando gli idioti (non può essere solo semplice ingenuità e compiacenza nelle idee ricevute), confermandoli e lusingandoli con frasi come queste: «servono solide conoscenze storico-culturali per comprenderne le problematiche e il significato [delle opere]. Rimangono quindi in gran parte inaccessibili a una parte del grande pubblico».

Tuttavia sarebbe riduttivo prendersela semplicemente con le manifestazioni estetiche di questa cosiddetta arte, con la sua mistica dell’idiozia e con la colonizzazione culturale americana. Peraltro la scena “artistica” europea non resta indietro quando si tratta di cultura dell’idiozia concettualizzata e anzi potrebbe addirittura battere gli Stati Uniti. Il nocciolo della questione riguarda più in generale il lato culturale del tardo capitalismo, a cominciare dalla cultura imprenditoriale che fa da matrice a tutta la debordante stupidità in cui siamo immersi.

La disinibizione dell’odio

 

Nel maggio 1941, Hannah Arendt e suo marito arrivarono a New York con 25 dollari in tasca. Hannah esplora una domanda che dovremmo porci tutti, intimamente e collettivamente: qual è l’identità di un rifugiato? Questa domanda in realtà ne provoca un’altra, più ampia: cosa insegna il rifugiato sull’identità a chi ha la fortuna di non esserlo?

Come affronta l’esilio, l’abbandono, la solitudine, la memoria, l’eco della sua prima lingua (impara l’inglese), i paesi successivi attraverso i quali è passata? Qual è l’identità del rifugiato, che cos’è diventato? Coloro che credono di vivere un’identità felice, confortevole e sicura non sono interessati a questo genere di domande. Non hanno perso la loro casa, cioè la familiarità con la loro vita quotidiana. Né il lavoro, cioè la certezza del proprio sostentamento e di poter essere utili a questo mondo. Non hanno perso la loro lingua, vale a dire la naturalezza delle loro reazioni, la semplicità dei gesti, l’espressione spontanea dei propri sentimenti. Né hanno lasciato i genitori e i migliori amici. Insomma, la loro vita non è stata distrutta.

Di fronte a ciò che la Storia ha imposto agli ebrei, che cosa penserebbe oggi Hannah Arendt (di ciò che pensava nel 1948 lo sappiamo), profuga ebrea, di quanto è fatto ai palestinesi? Molti di questi profughi rifiutano di essere banderuole identitarie e cercano di cavarsela senza tante mistificazioni, pronti a tutto pur di essere accettati in una società dove regna la discriminazione, ossia quella formidabile arma sociale che permette di uccidere senza spargimento di sangue.

Il male nell’uomo è, come pensava il metafisico Pascal, consustanziale alla sua natura? Lo sento dire spesso, ma non mi ha mai convinto. Oppure è una conseguenza, come pensava Rousseau, dell’organizzazione politica e sociale? Anche questo si sente ripetere spesso, e la cosa mi persuade, ma fino a un certo punto.

Com’è strano quanto questo mondo irrazionale si appoggi sulla propria razionalità. La maggior parte delle persone vivono in bianco e nero. Sono sarcastici, sprezzanti e offensivi. In questo gioco di specchi deformanti sembra che consideriamo solo una categoria: il nemico. Va screditato e, se possibile, eliminato.

Vi sono, non pochi, anche gli indifferenti, o meglio, coloro che si mantengono “distanti”. Come spiegarlo? Forse, nei casi migliori, ciò che non possiamo sopportare costituisce una delle nostre difese contro il mondo e contro noi stessi. E però si tratta di una questione direttamente collegata all’attuale disinibizione politica dell’odio e delle posizioni identitarie. Il prossimo passo, in questo regno occidentale fantasticato, quale sarà?

lunedì 30 ottobre 2023

Quello che accade

 

Striscia di Gaza, 360 kmq, lunga 41 km e larga da 6 a 12 dove sono ammassati oltre 2 milioni di abitanti. Da più di 15 anni Israele impone un embargo economico sulla regione palestinese, limitando la fornitura di camion e carburante. Gli abitanti di Gaza allora non avevano altra scelta se non quella di ricorrere ai carri trainati da asini per trasportare vari prodotti agricoli o per andare a scuola. Da due anni, Israele impedisce qualsiasi importazione dell’animale, rendendo il commercio molto più difficile all’interno del territorio palestinese (Washington Post, 2022). Per dire a quale livello può arrivare l’arbitrarietà più feroce.

Anche se raramente viste, a Gaza venivano allevate 4.000 mucche e 65.000 pecore, con quattro cliniche veterinarie. Tutto era fatto per migliorare la qualità del latte (e dello yogurt). Oltre all’allevamento, la coltivazione delle famose patatine e delle fragole, queste ultime solo in parte autorizzate per l’esportazione da parte israeliana.

La seconda attività produttiva, dopo l’agricoltura, è la pesca. Gli accordi di Oslo prevedevano una fascia costiera palestinese di poco più di 32 chilometri. La decisione non è mai stata attuata e tale fascia è stata ridotta unilateralmente molto rapidamente a circa 15 chilometri, poi a 9,6, quindi a 4,8 chilometri. Le motovedette israeliane sparano, uccidono i pescatori, arrestano, distruggono barche, sequestrano o rubano le reti.

Questi dati secondo Pierre Stambul e Sarah Katz, attivisti dell’Unione ebraica francese per la pace (UJFP) e la solidarietà internazionale.

Non solo Gaza. Nell’area oggi sconvolta dalla guerra vi sono circa 140.000 lavoratori immigrati, 30.000 di loro sono salariati agricoli thailandesi impiegati nelle fattorie e nei kibbutz, di cui 5.000 nella Striscia di Gaza (Le Monde del 15 ottobre). Di questi 24 sono stati uccisi e forse 16 presi in ostaggio lo scorso 7 ottobre. Tra le vittime del kibbutz Alumim ci sono anche dieci studenti nepalesi. Facevano parte di un programma di tirocinio retribuito della durata di undici mesi che ha coinvolto 269 studenti. La maggior parte dei 5.000 nepalesi che vivono in Israele sono impiegati nei servizi sanitari o di assistenza personale.

A questi immigrati si sommano circa 140.000 lavoratori palestinesi col permesso di lavoro in Israele, occupati nell’edilizia, agricoltura, sanità, manifattura.

Com’è composita la realtà, viene da dire a fronte di questi numeri. Quando si parla di mercato si deve intendere anzitutto un grande mercato dello sfruttamento. Senza lo sfruttamento di questi salariati il sistema non regge: la situazione sociale di Israele si accosta a quella di tutto il Medioriente e delle monarchie del Golfo in particolare, dove gli immigrati si contano in milioni.

Ecco a cosa servono i miti nazionali e religiosi, a tener diviso il proletariato. A rinfocolare endemiche crisi regionali intervengono poi le strategie geopolitiche delle grandi e medie potenze. Gli Stati Uniti puntavano di lasciarsi alle spalle le questioni che agitano il Medioriente per dedicarsi alla grande contesa con la Cina. Ecco il motivo dello storico accordo quasi raggiunto volto a normalizzare le relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita, contro il comune avversario iraniano, ancorando i sauditi fuori dal perimetro strategico cinese (*).

Teheran ha reagito attivando le milizie di Hamas, sue clienti assieme a quelle di Hezbollah. La questione palestinese lascia spazio ad Hamas e a farne le spese migliaia di vittime innocenti, da una parte e dall’altra. È il pretesto afferrato dal regime dei mullah attraverso i suoi attori per procura.

Nel grande gioco geostrategico che riaccende punti di crisi e conflitti latenti nella ridefinizione degli equilibri, non tutte le guerre, le tragedie e le vittime sono uguali: per esempio, la crisi in Nagorno-Karabakh ha visto 100.000 armeni travolti dalla pulizia etnica nel silenzio generale dei governi occidentali.

La storia è giunta a un punto di svolta nella trasformazione dell’ordine seguito alla seconda guerra mondiale, e questo periodo sarà segnato sempre più da frequenti turbolenze. Gli Stati Uniti vedono la Cina come il maggior sfidate ai propri interessi, e il suo accanimento nel voler mantenere l’ordine esistente attraverso mezzi strategici tradizionali ci porta tutti su un terreno molto pericoloso.

Purtroppo sembra che non ci si voglia rendere conto di questo grave pericolo, e del resto la grande assente è proprio l’Europa, puntualmente impreparata e restia a svolgere qualsiasi ruolo effettivo di mediazione.

(*) Non solo il frettoloso abbandono dell’Afghanistan lasciato in mano ai talebani, ma in tal senso va inteso anche il tentativo, fallito, di Washington che cercava di smorzare le tensioni con l’Iran rianimando gli accordi di JCPOA sul nucleare denunciati da Donald Trump.

domenica 29 ottobre 2023

“Se sapessi che è possibile salvare tutti i bambini ...”


 Liberate gli ostaggi, senza condizioni.

L’uomo che bombarda regolarmente i curdi in Siria e in Turchia chiede a Israele di proteggere i civili. Un altro uomo, questa volta russo, che attualmente sta bombardando i civili in Ucraina, ha descritto qualsiasi violenza contro i civili come inaccettabile. Un altro uomo, per anni ha fatto finta di non vedere le milizie fasciste bombardare i civili del Donbass. Altri uomini, di volta in volta succedutesi alla Casa Bianca, hanno bombardato e continuano a bombardare i civili in tutto il mondo.

E tuttavia quello che sta succedendo a Gaza in questi giorni non si era mai visto, nella sua drammatica dimensione, dopo il secondo conflitto mondiale. Da parte dell’esercito “più morale del mondo” (Netanyahu). Il lutto e la rabbia sono diventati una sorta di dovere nazionale alla vendetta contro degli inermi. Non s’era mai visto un tale quasi generale e sostanziale disincanto. Soprattutto non ricordo un simile compiacimento. Un compiacersi che contiene una forte carica politica e ideologica giustificativa e legittimante di tale atrocità.

Quelli che hanno fatto propria la mentalità e l’ideologia dei leader sionisti senza porsi nessun dubbio, alcuna critica, rinunciando anzi a distinguere tra ciò che è umanitario e ciò che è politico. Che sostengono sempre e comunque il “primato di Eretz Israel”, la leggenda aurea di Israele, senza dare sufficiente importanza al sistema ideologico e interpretativo del sionismo.

E siamo esattamente sulla stessa linea che portava, per esempio, Ben-Gurion a dichiarare, davanti al comitato centrale del MAPAÏ (Partito dei Lavoratori di Eretz Yisrael) il 7 dicembre 1938, quando, dopo la Notte dei Cristalli, Londra si offrì di accogliere in Gran Bretagna migliaia di bambini ebrei tedeschi e austriaci:

«Se sapessi che è possibile salvare tutti i bambini della Germania stabilendoli in Inghilterra, o solo la metà insediandoli in Eretz Israel, sceglierei la seconda soluzione. Perché dobbiamo tenere conto non solo della vita di questi bambini, ma anche dell’intera storia del popolo ebraico».

È l’atteggiamento sionista che trasforma i palestinesi in strumenti passivi di un destino, quello della costruzione della Grande Israele, perseguito con tutte le loro forze e con ogni mezzo.


sabato 28 ottobre 2023

Il preludio

 

La Germania è in recessione. Ciò avviene nel contesto di quello che un rapporto del Guardian ha descritto come un “collasso della produzione manifatturiera”. Il capitalismo non è in grado di risolvere le proprie contraddizioni poiché sono consustanziali al proprio essere. Esattamente 100 anni fa, nell’ottobre 1923, seppur in un altro contesto, una profonda crisi economica e politica scosse le fondamenta della società tedesca.

Gli storici seguono tutti la stessa narrazione: a causa dell’iperinflazione, dell’impoverimento e della radicalizzazione, la repubblica democratica fu messa in pericolo dai tentativi di rovesciarla da sinistra e da destra ed è stata infine salvata dal coraggioso intervento di coloro che avevano responsabilità politiche e militari.

Le cose stavano diversamente, almeno per quanto riguarda le responsabilità. La crisi sociale aveva fatto a pezzi la facciata democratica della Repubblica di Weimar e mostrato ciò che era realmente: una copertura per la perdurante dittatura delle vecchie élite dell’Impero tedesco: i grandi industriali, i grandi proprietari terrieri e i militari.

C’è una serie televisiva, Babylon Berlin, che racconta molto bene, forse non avendone chiaramente le intenzioni, quel contesto sociale e politico. Vale più la visione di questa serie televisiva (Sky) che dieci puntate di Passato e Presente su Rai Storia condotte dal nostro Toynbee, vale a dire Paolo Mieli.

Il presidente del Reich, il socialdemocratico Friedrich Ebert, “salvò” la repubblica scatenando il Reichswehr (esercito) contro i lavoratori insorti, deponendo con la forza i governi socialdemocratici di sinistra in Turingia e Sassonia, quindi trasferendo il potere esecutivo nel Reich al comandante supremo del Reichswehr, generale von Seeckt, instaurando così di fatto una dittatura militare.

L’instaurazione di una tale dittatura era anche l’obiettivo perseguito da Hitler e dal generale Ludendorff nel novembre 1923, quando organizzarono un dilettantesco putsch a Monaco. I tempi non erano ancora maturi.

Dopo che il governo di Gustav Stresemann riuscì a tenere sotto controllo l’inflazione attraverso una riforma valutaria e l’economia si fu leggermente ripresa grazie all’aiuto americano, von Seeckt restituì il potere esecutivo al governo civile. Ma quello era solo un intermezzo. Il merito di quella riforma va a Hjalmar Schacht (1877-1970), nominato responsabile economico della Repubblica di Weimar e promosso presidente della Reichsbank. È inoltre, fatto molto rilevante, amico del capo della Banca d’Inghilterra, Montagu Norman. Insomma, una figura chiave della finanza tedesca degli anni Venti come lo sarà poi negli anni Trenta (*).

Quando la successiva grande crisi colpì la Germania con il crollo di Wall Street del 1929, la facciata democratica crollò definitivamente. Per due anni il politico del partito di centro Brüning governò con decreti d’emergenza, approvati dal presidente del Reich. Mentre la crisi continuava ad aggravarsi, la classe dominante non si accontentò più di un trasferimento temporaneo del potere esecutivo ai militari, ma nominò Adolf Hitler cancelliere e gli conferì il potere di dittatore. Il 1923 fu il preludio all’instaurazione della dittatura nazista nel 1933.

Ci pensò il regime hitleriano a risollevare le sorti economiche del Reich. Ancora una volta ritroviamo in primo piano Hjalmar Schacht (**), il quale ebbe un ruolo chiave anche nel reperire le risorse per il riarmo tedesco (ricordiamo che nel 1935 Londra firmò un trattato con Berlino che permetteva la ricostruzione della marina da guerra tedesca, alla faccia del recente convegno di Stresa). Fu infatti Hjalmar Schacht l’artefice dello schema finanziario che permise la ripresa tedesca e il riarmo, aggirando di fatto, con un artificio contabile, i limiti e le imposizioni che il Trattato di Versailles del 1919.

Lo schema, ideato nel 1934 dal ministro, prevedeva l’emissione di speciali obbligazioni a nome della Me.Fo GmbH, Metallurgische Forschungsgesellschaft m.b.H (Società per la ricerca in campo metallurgico), una società fittizia, inesistente nella realtà. Grazie all’emissione di tali cambiali, a guisa di titoli di stato (i cosiddetti Mefo-Wechsel), il Tesoro poteva rastrellare liquidità da impiegare per favorire la ripresa e lo sviluppo economico della Germania oltre che la produzione di armamenti per soddisfare i suoi piani di riarmo.

MEFO era dunque l’acronimo riferito a una scatola vuota, a nome della quale si emisero siffatte obbligazioni senza gravare sul bilancio pubblico e senza creare inflazione, in quanto tali cambiali erano “spendibili” esattamente come il denaro entro i confini nazionali. John Maynard Keynes, riprendendo un’osservazione fatta da Hubert Douglas Henderson, così si era espresso nel 1941 riguardo al sistema ideato da Schacht: «il fatto che tale metodo sia stato usato a servizio del male, non deve impedirci di vedere il vantaggio tecnico che offrirebbe al servizio di una buona causa».

Solo quando si ha a disposizione una moneta propria, vera o fittizia che essa sia, si possono fare certe cose. Questo non vuole essere un suggerimento, nella situazione attuale irrealizzabile, ma solo una riflessione.

(*) Dopo la sconfitta elettorale del partito di Hitler, novembre 1932, è bene rammentare che Schacht, pur non essendo mai divenuto formalmente membro effettivo del NSDAP, fu un patrocinatore del finanziamento a favore del partito di Hitler, soprattutto nella disperata situazione creatasi a cavallo tra il 1932-‘33.

A Colonia, dove risiedeva il banchiere Kurt von Schröder, il 4 gennaio 1933 arrivarono Hitler e von Papen per colloqui intesi a risollevare le finanze del NSDAP. A Norimberga, Walther Funk, dal 1938 successore di Schacht al ministero dell’economia, elencherà tra i sottoscrittori che garantirono allora i debiti del partito: Fritz Thyssen e altri affiliati dell’industria pesante, Emil Georg von Strauss della Deutsche Bank, Kurt Paul Schmitt e Eduard Hilgard delle assicurazioni Allianz, Friederich Reinhardt della Commerz und Privat Bank, la Deutsche Erdöl, cioè la più grande compagnia petrolifera della Germania.

Non servirono i contanti, bastarono le firme dei magnati. Goebbles annotò nel suo diario, dopo le parole di disperazione scritte nel dicembre 1932, questa frase: «La situazione finanziaria è migliorata all’improvviso». Questo conferma, ancora una volta, che l’ascesa non irresistibile al potere di Hitler percorse anche una via tutt’altro che elettorale.

Che fine fecero poi i finanziatori di Hitler? Il tesoriere del partito nazista Schwarz, curiosamente, non resistette all’interrogatorio degli Alleati e morì; von Schroeder fu interrogato, ma solo come testimone a Norimberga, e non disse nulla; Thyssen negherà quanto scritto in una biografia dal giornalista Emery Reves di essere “uno degli uomini più responsabili per l’ascesa di Hitler”; infine Schacht, dopo tre anni di prigione, fondò una banca ad Amburgo spergiurando che gli hitleriani si erano autofinanziati.

(**) Gli Usa, dopo aver lasciato che il dollaro si deprezzasse inusitatamente, volevano la liberalizzazione dei mercati allo scopo di favorire le proprie esportazioni e risollevarsi così dalla crisi (Reciprocal Trade Agreements Act del giugno 1934). La Gran Bretagna non aveva alcun interesse a togliere i propri dazi nell’area del commonwealth, mentre la Germania aveva un disperato bisogno di valuta estera e di credito. Una guerra commerciale contro il maggior partner economico, gli inglesi, sarebbe stata un suicidio; ma anche da parte inglese il commercio con la Germania era fondamentale per le esportazioni. Assistiamo così alla stipula di un accordo bilaterale di fatto contrario agli interessi “liberisti” degli Usa.

I punti nodali della manovra di Schacht furono: 1) l’accordo commerciale anglo-tedesco sui pagamenti del 1° novembre 1934, quindi lo «strano» – come lo definisce lo storico Adam Tooze – prestito concesso dalla Bank of England che consentì alla Germania di regolare l’enorme volume di crediti commerciali insoluti; 2) lo sganciamento dall’economia americana con il ritiro dal trattato di commercio e amicizia in atto dal 1923, poi il conseguente crollo delle ragioni di scambio tra Germania e Stati Uniti; 3) il tentativo concentrato di coinvolgere negli scambi tedeschi i produttori dell’Europa sudorientale e dell’America Latina che mettevano a disposizione materie prime e loro succedanei di cui aveva bisogno il Reich. Eccetera.

In buona sostanza intervenne un mutamento importante nella struttura delle importazioni ed esportazioni tedesche e quindi nelle relazioni con i diversi paesi, consentendo, per esempio al Brasile, di svincolarsi dalla visione di una zona emisferica di libero scambio teorizzata dal Segretario di Stato americano Cordell Hull. Del resto, com’è noto, tutta la storia del capitalismo, ma non solo, va letta anzitutto come storia delle relazioni commerciali e dei conflitti economici tra le diverse potenze.

venerdì 27 ottobre 2023

Va detto: può causare malattie

Va detto in premessa: a Marco Cappato andrebbe fatto un monumento. Detto questo, mi pare ovvio che a Monza abbiano scelto per il seggio al senato il nome di Adriano Galliani preferendolo a quello di Cappato. Pur con i soldi di Berlusconi, è stato l’ex antennista a portare il Monza calcio nella massima serie. Ricordiamoci il raccontino evangelico: la plebe, messa di fronte alla scelta tra Barabba e Gesù, non scelse chi pretendeva di essere figlio di dio, ma riconosceva come proprio figlio il furfante.

Il nazareno prometteva la beatitudine dopo la morte, ma ai monzesi il paradiso glielo ha portato zio Fester. I bambini credono a babbo natale, ma vogliono vedere i doni! Oggi non è verso la figura di un messia che i pellegrini di Emmaus volgerebbero lo sguardo: abbiamo semplicemente sostituito i vecchi miti con quelli nuovi, i vecchi profeti con quelli più nuovi, i vecchi idoli di terracotta del presepe con quelli di plastica del calcio. È così che riconosciamo un profeta come Galliani.

P.S. : in un mondo che esplode in ogni momento, sarà sicuramente più gradito un post come questo che il post precedente. Pensare può causare malattie gravi. 

giovedì 26 ottobre 2023

I sionisti l’hanno capito bene


Perché quella forma particolare di razzismo che è stato il nazismo dovrebbe essere l’unica forma scandalosa poiché applicava a degli occidentali bianchi (gli ebrei europei) un trattamento che tutti i governi occidentali, compresi quelli che oggi piangono, sono stati d’accordo (e sono ancora oggi d’accordo) nell’applicare ai popoli che hanno oppresso e continuano in varie forme a opprimere nel mondo?

* * *

L’epoca di Carlo Magno fu l’età d’oro degli ebrei dell’Europa occidentale. Le classi padronali e proprietarie di allora erano assai deboli a causa di tutta una serie di ostacoli economici, politici e religiosi che ne frenavano lo sviluppo. In tale contesto, gli ebrei – perlomeno una parte (la loro stratificazione sociale nell’VIII secolo non differiva sostanzialmente da quella degli altri gruppi sociali) – che esercitavano le professioni di commercianti, e, in particolare, di commercianti con il mondo arabo e, attraverso di esso, come il mondo orientale (all’epoca molto più sviluppato economicamente), colmavano questo vuoto e svolgevano un ruolo economico essenziale, vitale. Essi garantivano il funzionamento di ciò che Marx chiama la sfera della circolazione.

Il potere politico di quell’epoca aveva ben chiaro l’utilità degli ebrei e conferì loro per questo tutti i tipi di privilegi, compresi quelli feudali. Quando, a partire dal XII secolo, la nascente borghesia trovò nel suo cammino gli ebrei, che erano divenuti dei concorrenti, cercò di eliminarli (vedi, per altri versi, la faccenda dei Templari). In molti luoghi, la lotta contro gli ebrei unì la borghesia e la Chiesa, rappresentante di enormi interessi economici.

La coalizione tra la borghesia e la chiesa fu tanto potente da far trionfare la sua posizione. Fu un’epoca di persecuzioni terribili contro gli ebrei, con numerosi massacri, un’epoca che si sarebbe conclusa con la scomparsa quasi totale degli ebrei dalla maggior parte degli Stati dell’Europa occidentale (vedi la sorte dei sefarditi). Essi poterono continuare a vivere soltanto in alcune città libere o in certi piccoli Stati. Molti andarono in esilio nel mondo arabo e, in seguito, in quello che sarebbe diventato l’impero ottomano, dove furono bene accolti.

Nella stessa epoca, gli Stati dell’Europa orientale, più arretrati economicamente, si trovavano allo stadio di sviluppo che era proprio degli Stati dell’Europa occidentale cinque secoli prima, e la presenza degli ebrei era utile allo sviluppo della loro economia. I re di Polonia, in particolare, promulgarono tutta una serie di decreti per attirare gli ebrei presso di loro. Da quest’epoca data l’importante insediamento ebraico nell’Europa centrale e orientale.

La seconda metà dell’Ottocento vede l’accelerazione dello sviluppo del capitalismo nell’impero russo (che comprendeva allora anche la Polonia). Questo sviluppo capitalista coincideva con la penetrazione in Russia del capitale francese, britannico, tedesco, in seguito americano. Le nuove condizioni economiche, legate allo sfascio del sistema feudale, non sono più favorevoli alle attività di commercio e artigiane esercitate nelle comunità ebraiche. La borghesia locale sente come un ostacolo intollerabile la concorrenza degli ebrei, il che comporta una fiammata di antisemitismo senza precedenti (vedi l’ondata di progrom nel 1882).

Ancora una volta, milioni di ebrei devono “scegliere” l’esilio, andando negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, altri nel rifugio tradizionale rappresentato dall’impero ottomano, ma la maggior parte andrà verso occidente, in particolare perché la ferrovia costituirà il loro principale mezzo di fuga.

È necessario rilevare che gli ebrei che avevano già “beneficiato” del capitalismo nascente, per esempio diventando proletari, saranno meno toccati dall’ondata di emigrazione che stava per verificarsi. Questa differenza avrà delle conseguenze importanti quando i nazisti invaderanno l’Europa orientale, poiché la popolazione ebraica che incontreranno conterà una proporzione di proletari più grande rispetto a quella di cinquant’anni prima e, proprio per questo, meno sensibile alla propaganda sionista.

C’è un posto dove le contraddizioni saranno più acute che altrove: l’impero austro-ungarico, che riunisce nel suo territorio regioni economicamente arretrate appartenenti all’Europa orientale e regioni industrializzate appartenenti all’Europa occidentale. Si tratterà di emigrazioni che avranno luogo all’interno stesso del paese, una specie di esodo rurale (tipo quello delle regioni meridionali verso il nord nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta).

L’ebreo dello “shtetl” (villaggio rurale) della Galizia, della Transilvania o della Rutenia subcarpatica approderà direttamente a Vienna. Non sarà casuale che proprio in questa capitale, vero nodo delle contraddizioni, inizierà la rinascita dell’antisemitismo occidentale. È proprio in questa città, non casualmente, che visse un certo Theodore Herzl e, un po’ più tardi, un disadattato nativo di Braunau sull’Inn che s’infatuerà di antisemitismo.

Quali furono le conseguenze di questa emigrazione? Nei paesi occidentali che li accoglievano (Germania, Francia, Austria) esisteva una comunità ebraica che per gran parte apparteneva alla borghesia, spesso la più facoltosa, e che stava progressivamente assimilandosi, perdendo le sue tradizioni e spesso abbandonando ogni pratica religiosa. Questa comunità, che era riuscita così bene ad integrarsi alla borghesia dei vari paesi, tanto che il razzismo anti-ebraico non era altro che una sopravvivenza, vedeva con terrore arrivare dall’Europa centrale queste migliaia di ebrei miserabili, con le loro rendingotes, gli strani cappelli e che parlavano yddish.

Questa borghesia ebraica (vedi i Rothschild del ramo francese) pensava che tali arrivi avrebbero provocato una fiammata di antisemitismo, e avevano d’altra parte ragione (si pensi al caso Dreyfus). La domanda che si ponevano con angoscia era: come liberarsene? Il sionismo stava per diventare la risposta a questa domanda.

Quando si arriva a questo punto della ricostruzione storica, sia ha l’impressione che tutto si concateni logicamente, e però si tratta di uno schema analitico e interpretativo, mentre la realtà storica non è così semplice. Tuttavia bisogna rendersi conto che il problema ebraico, la sua causa sottostante, fondamentale per ogni evoluzione, per ogni svolta, era certamente una causa economica; questa ha, ogni volta, operato attraverso una mediazione ideologica sempre molto importante, così importante che il discorso idealista sulla questione ebraica ha potuto facilmente, anche più che in altri casi, “ideologizzare” il problema.

È infatti facile stabilire delle strette correlazioni tra un certo cambiamento della situazione degli ebrei in un dato paese e quella certa bolla papale, o legislazione (vedi quella napoleonica, per esempio), oppure quella tale modificazione della pratica religiosa della popolazione del paese stesso. Questa facilità interpretativa può anche portare a restringere la questione ebraica alla faccenda dell’antisemitismo, che finisce poi con l’essere ipostatizzata come l’unica origine dei mutamenti della questione, e con l’essere in quanto tale presentata anche come una categoria teologica o quasi. Questa ideologizzazione del problema è lo scoglio principale che impedisce una comprensione della questione ebraica nella sua reale dimensione storica. I sionisti l’hanno capito bene.

(Continua in un prossimo post, forse). 

[...]

 

Predomina l’organizzazione della cacofonia, affinché nessuno ascolti davvero nessuno, e soprattutto ciò che viene detto senza di noi. Se davvero riportassimo in vita la parola, se smettessimo di esaurirla nella frenetica confusione di opinioni che si annullano a vicenda ... Apro i libri intorno alle 3, 4 del mattino per cercare di concentrare la mente su qualcosa di diverso dall’infamia. Voglio credere che l’oscurità si dirada non appena troviamo una frase giusta.

Ciò che colpisce non è l’indifferenza degli esseri umani a questa logica del peggio, è al contrario la loro consapevolezza e mobilitazione: la devastazione continua a mobilitarci. Ma siamo mobilitati per mantenerci inermi. Il discorso della mobilitazione non è altro che uno stratagemma del potere stesso che ha interesse a farci credere che il nostro destino è nelle nostre mani, per poter perpetuare i suoi misfatti.

mercoledì 25 ottobre 2023

L’essenza reazionaria del sionismo

 

La rinuncia al terrorismo, questo viene insistentemente chiesto ai palestinesi. Sarebbe lungo e forse inutile, data la situazione e l’introiezione di certe semantiche, discutere su che cosa sia il “terrorismo”. Come scrivevo in un post recente, nella narrazione che si vuole debba sostituire la memoria storica non succede mai niente se non l’interminabile scontro tra buoni e cattivi, tra il Bene e il Male.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) accettò di riconoscere Israele e di rinunciare al terrorismo quando firmò, nella persona di Arafat, gli accordi di Oslo nel 1993. Ciò avvenne sui prati della Casa Bianca, presente la controparte israeliana nella persona di Yitzhak Rabin. Ricordo bene quel momento, e anche ciò che pensai allora.

Gli accordi avrebbero dovuto inaugurare uno staterello palestinese con capitale ad Abu Dis, un sobborgo di Gerusalemme Est, la cosiddetta soluzione dei due Stati. L’OLP avrebbe assunto il ruolo di Israele nel controllo delle masse palestinesi in uno stato binario, composto da una specie di “bantustan” non contigui, separati ma contenuti da Israele, sul modello Sudafricano. Ciò precludeva ogni possibilità di una vera autodeterminazione e di democrazia per i palestinesi (*).

Non si tratta di giustificare, bensì di capire ciò che sta accadendo: è l’immensa sofferenza di chi vive ghettizzato, discriminato e senza via d’uscita, situazione di cui non sembra si voglia prendere atto, che ha portato a ciò che è accaduto il 7-9 ottobre. Che poi vi sia chi, da parte araba, iraniana e altro, sfrutta la situazione palestinese per altri scopi politici e geopolitici, si può discutere, e dunque possiamo evocare e deprecare con raccapriccio quanto ha messo in atto Hamas, ma tutto ciò non può essere avulso dal contesto storico e contingente.

È la rivolta di un popolo oppresso, consapevole che va incontro a un massacro di massa, portato alla disperazione e deciso a fuggire dal campo di concentramento in cui Israele, con l’appoggio di tutte le maggiori potenze, lo ha rinchiuso.

Quanto alla democratica Israele, con la continua repressione dei palestinesi ha dimostrato di essere incapace di sviluppare una società autenticamente democratica. Stato presidio dell’imperialismo statunitense, ripetutamente in conflitto con i suoi vicini mediorientali (salvo stabilire lucrosi accordi economici con alcuni di essi) e in perenne guerra con i palestinesi, persegue una politica espansionistica del “Grande Israele”, appoggiandosi sempre più sui coloni nei territori occupati e sulle sovvenzioni militari statunitensi per compensare l’impatto destabilizzante di livelli di disuguaglianza sociale tra i maggiori del mondo.

La guerra di Israele contro Gaza è la dimostrazione definitiva dell’essenza reazionaria del sionismo. Un’ideologia che proclamava di voler fornire un rifugio sicuro agli ebrei ha invece prodotto decenni di morte, pulizia etnica, apartheid ed espropriazione dei palestinesi, mettendo gli ebrei israeliani, sotto la guida di governi di criminali fascisti (Netanyahu e i suoi tentativi di assumere poteri dittatoriali è l’esempio più recente ed evidente), in conflitto permanente con i loro vicini, e costretti a vivere armati e nella costante paura.

Quando parlo dell’essenza reazionaria del sionismo, intendo questo: lo Stato sionista rispetto alla popolazione palestinese può comportarsi soltanto da Stato sionista, cioè secondo un criterio etnico e religioso, poiché proprio tale criterio discriminatorio permette la distinzione e l’isolamento del non ebreo in generale e del palestinese in particolare.

Nel sionismo, per dottrina, non c’è spazio per l’uguaglianza. E dove non c’è uguaglianza come pretendere altri diritti effettivi? Vorrei ricordare, tra gli altri alle scimmiette televisive, che i diritti umani sono diritti politici.

Il modo di formulare un problema contiene già la sua soluzione: l’unica prospettiva praticabile non è una mitica “soluzione a due Stati”. La distinzione tra ebrei e arabi dovrebbe cessare riconoscendo come loro autentica aspirazione il superamento del proprio pregiudizio etnico (il travestimento etnico) e confinando la propria religione nel diritto privato, in modo che tutti i cittadini possano entrare tra loro in rapporti universalmente umani. Ciò non è possibile se non ponendosi l’obiettivo del superamento dell’ordine economico attuale da cui promana l’asservimento generale: l’interesse privato è l’essenza della distinzione e della separazione, del bellum omnium contra omnes.

(*) Gli ultranazionalisti israeliani e i loro rappresentanti politici nel Likud e in altri partiti religiosi e di estrema destra respinsero anche questa presa in giro di uno Stato palestinese. Due anni dopo, nell’ottobre del 1995, i nazionalisti religiosi di destra, istigati dai leader dell’opposizione guerrafondai Ariel Sharon e Benjamin Netanyahu, denunciarono Rabin come traditore durante una manifestazione rabbiosa a Gerusalemme. Un mese dopo, un fanatico religioso assassinò Rabin.

Israele ha utilizzato gli accordi di Oslo per espandere gli insediamenti in Cisgiordania, prendere il controllo dell’acqua e di altre risorse, costruire strade e installare più di 600 posti di blocco, interrompendo il libero movimento in tutta la regione e distruggendo la sua economia. Gli insediamenti, che ora ospitano almeno 500.000 israeliani, ovvero quasi il 20% della popolazione, controllano una percentuale molto maggiore della terra, comprese quelle più fertili e produttive.

Quello descritto è uno stato di fatto, non invenzione. L’annessione di Gerusalemme Est, ossia di ciò che non era stato ancora occupato della città da parte israeliana, quindi di parte della Cisgiordania, la costruzione di circa 200.000 case di coloni, il tutto in violazione del diritto internazionale. Lo sfratto delle famiglie palestinesi dai quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan per volere di gruppi religiosi e di estrema destra guidati da Ben-Gvir, hanno portato ripetuti scontri tra palestinesi e polizia.

Sulla base di queste premesse, vi fu la seconda Intifada nel settembre 2000, dopo la provocatoria marcia di Ariel Sharon attraverso il complesso della moschea di Al Aqsa sotto scorta militare per affermare il controllo di Israele sul luogo santo dell’Islam. L’Intifada fu allo stesso tempo una rivolta contro la leadership dell’OLP che aveva sancito i disastrosi accordi di Oslo.

Il numero dei palestinesi ora supera ancora il numero degli ebrei all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti di Israele e dei Territori occupati. Da ciò il tentativo di contrastare quella che i sionisti chiamano la “bomba a orologeria demografica”, la richiesta di “trasferimenti di popolazione” e misure volte a effettuare la pulizia etnica.

Sharon ordinò la costruzione della famigerata barriera di separazione che sequestrò un ulteriore 10% della terra palestinese per separare Israele dai palestinesi e tagliarne fuori migliaia dalle loro famiglie e dai posti di lavoro. Nel 2005, Sharon chiuse 14 insediamenti israeliani e ritirò l’esercito dalla Striscia di Gaza, pur mantenendo il controllo degli ingressi via terra, mare e aria. Gaza divenne di fatto in un ghetto impoverito, con la vita devastata dei suoi residenti.

Che cosa dovrebbe fare milioni di persone ristrette in un simile recinto? Come dovrebbe reagire la gioventù palestinese, in una situazione di alta densità urbana, dove viene fornito solo il minimo indispensabile dei servizi essenziali come acqua ed elettricità? Alla rivolta degli oppressi palestinesi, Israele ha risposto distruggendo gran parte delle infrastrutture pubbliche di Gaza, molti edifici residenziali, ospedali, scuole e moschee e attacchi omicidi.

Operazioni definite come “falciare l’erba”. Queste includono l’Operazione Piombo Fuso (2008-2009), l’Operazione Pilastro di Difesa (novembre 2012) e l’Operazione Margine Protettivo (2014), eccetera. Il bilancio complessivo delle vittime palestinesi in più di sette grandi attacchi contro Gaza da parte della più potente forza aerea del Medio Oriente è stato di almeno 4.164 morti, con la perdita di 102 vite israeliane.

La situazione economica di Gaza era disastrosa ben prima dell’attuale attacco. Circa tre quarti delle famiglie di Gaza dipendono da qualche forma di aiuto da parte delle Nazioni Unite e di altre agenzie, aiuti che secondo l’Unione Europea sono ora “sotto revisione”. Sono tali i livelli di povertà e disoccupazione che bande criminali rivali hanno preso il controllo delle città e dei villaggi arabi, provocando più di 180 omicidi dall’inizio dell’anno.

martedì 24 ottobre 2023

L’unica certezza che ci resta

 

Ne Il nome della rosa, Umberto Eco immagina che una terza parte del trattato Poetica di Aristotele, dedicata alla commedia e considerata perduta, sarebbe stata segretamente conservata in un’abbazia e occultata dall’inquietante monaco Jorge de Burgos. Alcuni storici stimano che appena l’1% della letteratura antica sia sopravvissuta. Un’immensità di scritti, conoscenze e creazioni letterarie è stata cancellata dal tempo e dalla mano degli uomini, non escluse le manine sante alla Jorge de Burgos, eppure ci sentiamo, curiosamente, eredi di questa spettrale ricchezza.

Avremo un giorno la possibilità di scoprire nei sinistri labirinti di un oscuro monastero o di una negletta biblioteca la terza parte del trattato Poetica di Aristotele o altri scritti da autori dimenticati dell’antichità? Anche solo qualche libro più moderno scampato al rogo inquisitorio. È il sogno di ogni bibliofilo, destinato a rimanere tale. Qualche “carta” sta riemergendo nel mentre si stanno digitalizzando i fondi bibliotecari, ma nulla di più che non sia il tentativo di scrutare all’interno dei rotoli papiracei inceneriti di Ercolano.

L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha gettato nel nulla innumerevoli manoscritti, quelli attinenti in gran parte “la rivoluzione dimenticata” di cui ci parlò a suo tempo Lucio Russo, e non dobbiamo credere che questa disgrazia non ci colpirà mai più. Finora la distruzione delle opere culturali è stata quasi sempre provocata dalla mano dell’uomo. In Afghanistan i talebani hanno fatto saltare in aria i Buddha di Bamiyan; a Timbuctu i mausolei sono stati distrutti dagli jihadisti; a Palmira Daesh hanno fatto esplodere il tempio di Bêl; eccetera.

Il fanatismo religioso, nella specie quello islamico. Bisognerebbe chiedersi, nel caso della iconofobia islamica, perché si uccide di più per le immagini che per le idee? Tra l’altro, il Corano (sono tra i rari “occidentali” ad averlo letto) non dice assolutamente nulla sulle immagini, tanto che le raccolte di hadith o ash-shama’il (testimonianze scritte) descrivono, intorno al X secolo, perfino il sudore e i capelli bianchi di Maometto.

Ma non dobbiamo dimenticare, storicamente, l’azione del cattolicesimo in America Latina e altrove, né il vandalismo mercenario inglese in India e in Cina. Tuttavia esistono altre forme, più sottili, di occultamento e di censura, unitamente a quelle di controllo e inibizione, tanto che il solito Fahrenheit 451 rappresenta una cacotopia senza fantasia.

Nel caso è sufficiente portare l’istruzione a livello essenzialmente professionale (a che cosa mai serve il latino, per non dire il greco, geografia, filosofia, eccetera?) e lo standard culturale medio tipo quello della “ruota della fortuna”, avendo cura di agire adeguatamente su alcune funzioni psichiche peculiari attinenti la logica, l’attenzione (durata di uno sketch pubblicitario), la visione del mondo (di quali tipi di “segnale” S-R immettere si occupano selezionatissimi specialisti della comunicazione che devono privilegiare l’emotività e l’istinto) e la gestione della rappresentazione storica (come in questi ultimi tempi di guerra). Ovvio che va mantenuto anche un livello del sapere “difficile” e “sofisticato”, perfino lateralmente critico, ma questo sapere (che può giungere alle tecniche di dominio) deve avere un accesso prevalentemente elitario e oneroso (come il nuovo modello di sanità).

Sto divagando, come capita agli apostati ben nutriti del “sistema”. Più banalmente esiste la riesumazione da parte di qualsiasi lettore di un libro a lui sconosciuto, spesso ignoto perché non tradotto nella sua lingua. Quando capita una di queste “scoperte”, ci fa intravedere cosa dovettero provare gli esploratori quando si ritrovarono davanti ai resti di città abbandonate nella giungla, dimenticate al punto da essere diventate miti. La riscoperta di un dipinto, di un manoscritto o di una scultura perduta è un’emozione che sogniamo di vivere una volta nella vita, come Carter davanti alla porta della tomba di Tutankhamon.

Sto esagerando nell’analogia, me ne rendo conto, ma il nome di Carter mi serve per parlare d’altro. Non di Howard Carter, bensì Jimmy Carter, l’ex presidente degli Usa. Ho infatti “scoperto” un suo libro, non tanto recente, del 2006. Di solito, i libri pubblicati dagli ex presidenti degli Stati Uniti vengono subito tradotti anche in italiano, e spesso subiscono la stessa sorte dei libri di Bruno Vespa: pile del volume sono accatastate nelle librerie nella certezza di venderne a decine di migliaia di copie.

Non è stato il caso di questo libro di Jimmy Carter, non tradotto in italiano malgrado tratti un argomento che purtroppo è di attualità da decenni, ovvero la questione israelo-palestinese. E di tale questione Jimmy Carter è una delle persone più provvedute, dato il ruolo avuto di mediatore tra le parti.

Allora, quando il libro fu pubblicato negli Stati Uniti, scatenò feroci polemiche, anzi, brucianti accuse. L’autore fu accusato di antisemitismo, come spesso accade a chi prende posizione contro lo stato di fatto, ossia l’apartheid, instaurato da Israele in Palestina. Antisemitismo, mai termine fu così semanticamente improprio ed etimologicamente fuorviante. Semiti sono gli ebrei, ma ancor più gli arabi. Ancor più degli ebrei perché non è chiaro, non decisamente chiaro, quale sia l’origine degli ebrei attuali, quantomeno di molti di loro.

Già sollevare tale dubbio sull’origine degli ebrei moderni equivale ad essere classificati antisemiti, nel significato più turpe e infamante che ha assunto tale termine. Succede un po’ come con gli islamici, guai a sfiorare il Corano o Maometto. Che tale dubbio sugli ebrei moderni sia fondato oppure frutto di stravaganza di Arthur Koestler o di storici israeliani come Shlomo Sand, non ha importanza. È l’ipotesi stessa, il dubbio, che risulta intollerabile, degno di punizione. E quando i fanatici religiosi o politici non possono materialmente punire qualcuno, fanno come facevano i papi di Roma, emettono la loro bolla di scomunica a distanza.

L’unica certezza che ci resta al riguardo e fino a prova contraria, è che i nostri progenitori abitavano in Africa, non parlavano yiddish, Adamo non aveva l’obbligo di indossare la kipph ed Eva il hijab.

lunedì 23 ottobre 2023

«L’apartheid israeliano ben peggiore dell’apartheid in Sud Africa»

 

Un blog, che si definisce reiteratamente “anticapitalista”, dedica un post agli ultimi eventi con il titolo “La questione palestinese dopo il 7 ottobre”. Apre con una citazione, che evidentemente fa propria:

«La questione palestinese sorge con la fine della Seconda guerra mondiale e si proietta fino alla preparazione della Terza, della quale anzi potrebbe essere uno degli ormai numerosi possibili “incidenti” scatenanti. Perciò abbiamo sempre tentato con vivo interesse di decifrarne l’enigma (Combat, Supplemento Palestina, 1986)».

Ma di quale cavolo di “enigma” parlano, come si fa a dire che la questione palestinese sorge con la fine della seconda guerra mondiale? È vero che nel dopoguerra, nel 1948, il movimento sionista istituzionalizzava lo Stato d’Israele nei territori palestinesi portarono così a compimento un’operazione di sgombero di quasi un milione di abitanti autoctoni, per la maggior parte semplici contadini, e altre centinaia di migliaia di persone rimaste furono trasformate in cittadini di seconda classe, in paria nella loro stessa terra, ma come si era arrivati a questo?

Affermare che la questione palestinese sorge con la fine della seconda guerra mondiale, fa il gioco dei sionisti, significa negare le origini storiche della questione palestinese, dello scontro tra arabi e israeliani, misconoscere le violenze dell’una e dell’altra parte, ma soprattutto voler ignorare la nascita e l’azione delle organizzazioni terroristiche sioniste in terra di Palestina, il vero ruolo di carnefici del movimento sionista e dell’imperialismo che ha invaso e occupato le terre palestinesi e sfrattato la loro popolazione (*).

Senza andare troppo indietro con la storia della questione palestinese, di cui ho tracciato qualche linea nel post precedente, già nel 1939 era in atto la terza fase del sionismo. Per attenerci alla definizione di Ben Gurion, Michael Bar-Zohar, in The Armed Prophet: A Biography of Ben Gurion, Barker, 1967, scrive: «La prima fase era quella dell’amore persiano ed è la possibilità di un accesso legale in Palestina. Questa fase finì all’inizio della grande guerra. La seconda fase, quella del sionismo politico, inizia con la dichiarazione Balfour e termina con il Libro Bianco del 1939 [Commissione Peel]. Inizia allora la terza fase, quella del sionismo militante».

Questo periodo è come caratterizzato dalla nascita di gruppi terroristici che avrebbero gettato le basi del futuro esercito israeliano. Il gruppo più importante era quello organizzato dall’Agenzia Ebraica: l’Haganah, che, all’atto della Dichiarazione dello Stato di Israele, era un esercito clandestino di 60.000 uomini. L’Irgun, costituito dagli inglesi durante la rivolta araba del 1936-‘39, era un gruppo meno numeroso ma molto più violento. Da quest’ultimo se ne distaccherà, nel 1940, un terzo che opererà per proprio conto sotto il comando di Abram Stern, dal quale prenderà il nome.

La sospensione dell’immigrazione fu l’occasione principale dell’inizio delle attività dei diversi gruppi. Il gruppo di Stern si segnalò per una serie di assassinî nella regione di Tel- Aviv. La stessa opinione pubblica ebraica appoggiò le misure draconiane di sicurezza decretate contro questo gruppo dalle autorità britanniche. Abram Stern morirà nel 1942, nel corso di un’operazione del suo gruppo. All’inizio del 1944, la campagna terroristica si intensificò. Culminerà nel 1946 a Gerusalemme, dove il 22 luglio il gruppo Stern faceva saltare l’albergo King David, quartier generale delle forze britanniche: 91 i morti e 45 i feriti.

L’iniziativa terroristica, rivolta prevalentemente contro gli inglesi, fu successivamente rivolta contro i palestinesi. Nella notte tra il nove e il 10 aprile 1948 il villaggio di Deir Yassin cadde in mano ai terroristi dell’Irgun, capeggiato da Menachem Begin (noto “pacifista”, tanto da meritare poi il Nobel per la pace) e dal gruppo Stern. Una strage di 254 persone tra le quali donne e bambini. Una strage assurda, apparentemente inspiegabile, ma non per Begin, che nel suo libro The Revolt: Story of the Irgun, New York, 1951, scriveva testualmente: «[...] Tutte le forze ebraiche avanzarono dentro Haifa come il coltello nel burro. Gli arabi fuggivano presi dal panico».

La politica di Israele nei confronti del popolo palestinese, fondamentalmente sempre uguale a sé stessa e che precede anche la fondazione dello Stato di Israele, non è altro che la liquidazione del popolo palestinese come identità nazionale, riduzione di chi sopravvive ad una massa di profughi senza terra.

Bisogna pur chiamare con il suo nome una politica di discriminazione razziale esercitata con terrore poliziesco nei territori occupati, con carcere, privazione di diritti e torture. E questo nome è apartheid, nelle sue forme peggiori (**).

L’ex presidente Jimmy Carter, amico d’Israele, nel 2006 ha pubblicato Palestine: Peace Not Apartheid, dove già il titolo chiarisce un fatto storico che i sionisti tendono a negare. Carter afferma: «La situazione attuale in Palestina, la confisca delle loro terre, l’incapacità della sua gente di protestare contro ciò che accade, la costruzione del “muro” all’interno del suo territorio, e la completa separazione degli israeliani dai palestinesi sono, per molti versi, condizioni ben peggiori dell’apartheid in Sud Africa».

Il libro di Carter suscitò aspre polemiche presso la comunità ebraica americana e i media che essa controlla. Alle critiche sull’impiego della parola “apartheid”, secondo Le Monde dell’11-12-2006, Carter ha risposto: « [...] il libro descrive l’abominevole oppressione e persecuzione nei territori palestinesi occupati, il rigido sistema di lasciapassare e la rigida segregazione tra cittadini palestinesi e coloni ebrei in Cisgiordania. In molti sensi, è più oppressivo che per i neri che vivono in Sud Africa durante l’apartheid.»

In un’altra intervista, l’ex presidente difendeva il termine “apartheid” usato nel titolo e nel testo del libro: «Apartheid è una parola che descrive accuratamente ciò che sta accadendo in Cisgiordania, e si basa sul desiderio o sull’avidità di una minoranza di israeliani per la terra palestinese. Non è basata sul razzismo. Questi avvertimenti sono chiaramente fatti nel libro. Questa è una parola che descrive molto accuratamente la separazione forzata degli israeliani dai palestinesi all’interno della Cisgiordania e la totale dominazione e oppressione dei palestinesi da parte dell’esercito israeliano dominante». 

Lo Stato di Israele è stato costruito nella negazione fisica e morale di tutto ciò che è arabo e palestinese. Chi lo nega è complice di questo crimine storico.

(*) Si sostiene che i pionieri della colonizzazione palestinese fossero artigiani, poveri negozianti, gente insomma di cui si può dire tutto tranne che avevano cospicue possibilità finanziarie. Il che in parte è vero, ma nell’insistere su questo aspetto si cerca così di trasmettere un’immagine “plebea”, “operaia” e persino “socialista” del sionismo. Non era nei piani del barone Edmund de Rothschild, e di altri signori come lui, trasferirsi personalmente per coltivare la terra in Palestina. Ma questo non significa nulla in termini di caratterizzazione di classe del sionismo. La chiave è: a chi conveniva che sarti, venditori ambulanti e disoccupati umili e disperati di Varsavia o Lublino venissero noleggiati per la Terra Santa?

Se c’è qualche dubbio su cosa ciò abbia significato il movimento sionista in relazione alla situazione politica europea, è lo stesso Herzl a chiarirlo: uno dei suoi temi ossessivi è che l’emigrazione degli ebrei in Palestina è l’unica garanzia che non verranno reclutati. dai “partiti sovversivi”. Herzl incontra Guglielmo II, imperatore di Germania. Di che cosa parlano? «Herzl ha presentato il suo progetto in termini generali. Poi si parlò del problema ebraico, dell’affare Dreyfus, dell’influenza della Germania nell’Est e del vantaggio che si sarebbe potuto trarre dalla soluzione della questione ebraica, la quale, se non risolta, come Herzl non mancò di sottolineare, avrebbe spinto i proletari ebrei verso i partiti sovversivi».

L’ideologia sionista, per tutto l’arco della sua evoluzione, rappresenta un tutto di una tale complessità che sfida ogni analisi semplicistica. Si è dichiarata socialista, comunitaria, rivoluzionaria e si è fatto un gran rumore intorno l’esperienza del kibbutz senza riconoscere che questi venivano costruiti su terre rubate i palestinesi.

(**) «[...] Israel’s continued control and colonization of Palestinian land have been the primary obstacles to a comprehensive peace agreement in the Holy Land. In order to perpetuate the occupation, Israeli forces have deprived their unwilling subjects of basic human rights. No objective person could personally observe existing conditions in the West Bank and dispute these statements.

«Two other interrelated factors have contributed to the perpetuation of violence and regional upheaval: the condoning of illegal Israeli actions from a submissive White House and U.S. Congress during recent years, and the deference with which other international leaders permit this unofficial U.S. policy in the Middle East to prevail.

« [...] The United States has used its U.N. Security Council veto more than forty times to block resolutions critical of Israel. Some of these vetoes have brought international discredit on the United States, and there is little doubt that the lack of a persistent effort to resolve the Palestinian issue is a major source of anti-American sentiment and terrorist activity throughout the Middle East and the Islamic world.

« [...] A system of apartheid, with two peoples occupying the same land but completely separated from each other, with Israelis totally dominant and suppressing violence by depriving Palestinians of their basic human rights. This is the policy now being followed, although many citizens of Israel deride the racist connotation of prescribing permanent second-class status for the Palestinians. As one prominent Israeli stated, “I am afraid that we are moving toward a government like that of South Africa, with a dual society of Jewish rulers and Arab subjects with few rights of citizenship. The West Bank is not worth it.” An unacceptable modification of this choice, now being proposed, is the taking of substantial portions of the occupied territory, with the remaining Palestinians completely surrounded by walls, fences, and Israeli checkpoints, living as prisoners within the small portion of land left to them.

« The bottom line is this: Peace will come to Israel and the Middle East only when the Israeli government is willing to comply with international law, with the Roadmap for Peace, with official American policy, with the wishes of a majority of its own citizens—and honor its own previous commitments— by accepting its legal borders. All Arab neighbors must pledge to honor Israel's right to live in peace under these conditions.» (J. Carter, Palestine: Peace Not Apartheid, 2006, capitolo 17). 

domenica 22 ottobre 2023

Le origini della questione palestinese

 

Nella narrazione che si vuole debba sostituire la memoria storica non succede mai niente se non l’interminabile scontro tra buoni e cattivi, tra il Bene e il Male. Tanto più quando si ha a che fare con la questione palestinese, laddove le ragioni di un popolo sono rimosse, censurate, mistificate in uno sfondo di razzismo che risulta intollerabile.

Giuliano Amato, nel corso di un’intervista televisiva di martedì scorso, ha sostenuto la fiaba della “terra promessa”. Testualmente: «Che Israele e gli ebrei abbiano diritto di stare lì, viene da migliaia e migliaia di anni. Ma insomma, l’ebreo più famoso della storia si chiama Gesù di Nazaret, mica Gesù di Granada o di Bergamo. È tutta la storia ebraica, la terra promessa era quella».

Ecco un motivo per cercare di ritrovare con lo sguardo, in tempi sospetti come gli attuali, la vita dei palestinesi sulla terra da essi secolarmente abitata: con il passare del tempo, e soprattutto con la nascita dello Stato d’Israele, nel mondo occidentale le tesi sioniste sulla “terra promessa” e la “terra senza popolo” sono divenute dominanti.

venerdì 20 ottobre 2023

Buone notizie

 

Contrariamente alla credenza popolare, ci sono anche buone notizie, in attesa che l’esercito israeliano spiani una metropoli per farne un parcheggio e, per quanto ci riguarda direttamente, aspettando che le agenzie di rating confermino che il nostro debito pubblico è monnezza, ma non è ancora maturo il momento di fare dell’Italia un’Argentina europea. Forse.

Il capitalismo non regge più, le politiche monetarie sono un bluff per tirare innanzi, ma sappiamo anche altre due cose: le multinazionali continuano a registrare profitti record e riapre il Grand Hotel Puccini in corso Buenos Aires a Milano. Perciò il prossimo sarà un week-end di buone notizie.

Ci darà sicuramente la certezza che l’atomo risolverà tutti i nostri problemi energetici, specie in Brianza. Che a breve potremmo raggiungere Selinunte da Milano attraversando “il ponte” e guidando comodamente un’auto elettrica. Che il cibo, diventato un lusso, fino a natale avrà un prezzo politico, perché è solo una diceria che dipendiamo da un sistema di produzione e distribuzione del nostro cibo su cui nessuno ha alcun controllo.

La povertà come progetto è una bugia. Non va bene la parola povertà, si può dire: una stagnazione storica del tenore di vita. Molti di noi vivono già in un’economia di guerra, fatta di carenze, razionamenti e privazioni. Ma non devi dirlo, non è dignitoso far conoscere le proprie condizioni di sopravvivenza, e certi sguardi maliziosi uccidono.

Non possiamo nemmeno più, come ai vecchi tempi, andare a caccia con arco e frecce e portare a casa un mammut da cuocere nel camino. Il sistema di distribuzione dei supermercati e dell’industria alimentare ha creato un monopolio nella produzione e nella vendita di ciò che mangiamo.

Una società del comfort totalmente artificiale. Le persone mangiano cose di cui non sanno spiegare come sono fatte. Come una specie invasiva, il cibo industriale ha preso il posto del cibo vero e proprio. Si arriva ad ordinare pasti pronti di cui non sappiamo come siano stati concepiti, grazie a un sistema, Internet, di cui non sappiamo nemmeno come funzioni. Bisognerà ancora sapere su quali alberi crescono le uova. Il futuro ha in serbo ottime notizie.

mercoledì 18 ottobre 2023

I minuti non bastano

 

Quando sarà passata questa buriana (in attesa della successiva), bisognerà pur parlare del perché e del come si è passati da una soluzione politica del conflitto israelo-palestinese che sembrava a portata di mano, a una netta convinzione, su un fronte e nell’altro, che il ricorso alla minaccia e alla violenza sia l’unico mezzo per ottenere concessioni da parte dell’avversario.

Di questo genere di strategia politica e della violenza islamista rimaniamo sopraffatti dallo stesso disgusto. Non solo del fanatismo religioso che produce o ispira la violenza, ma anche da quella politica della stupidità, del cretinismo, del calcolo miserabile. Due facce della stessa medaglia, una cosa che infine accomuna israeliani e palestinesi nella frustrazione per uno status quo infinito.

Netanyahu è l’esempio perfetto di questa deriva, di che cosa produce la politica quando strizza l’occhio al fanatismo religioso e identitario. Egli è stato uno dei principali favoreggiatori di Hamas in Palestina, avendo scientemente indebolito l’Autorità nazionale palestinese nei suoi apparati per delegittimarla nella sua stessa opinione pubblica, per poter poi dire a Washington: come posso concludere accordi se l’OLP ormai rappresenta una minoranza?

Hamas trova buon gioco nel fatto storico che Israele è una creazione dell’Occidente, e nell’apartheid cui sono sottoposti i palestinesi. Ma invece di inquadrare la questione palestinese storicamente e politicamente (cosa ovvia per il nazionalismo arabo), la inquadra dal punto di vista dell’identità araba e della religione (cosa che, con motivazioni opposte, fanno anche i sionisti).

Da qui si alimenta nei fanatici uno tsunami di bugie e superstizioni arcaiche, convinti che la loro fede abbia la risposta a tutto. Gli studiosi religiosi, con le loro idee semplicistiche e credenze infantili, sono fanaticamente convinti che la verità sia inscritta nei loro testi sacri, ma basta prendersi la briga di sfogliarli questi testi religiosi (tutti) per comprendere di che cosa si tratta.

Questa deriva è decuplicata dallo stordimento delle menti trascinate dai social network, che vomitano ogni giorno tonnellate di informazioni manipolate e false. Tuttavia, per quanto riguarda l’islamismo mutuato in terrorismo, trasformare le nostre società in campi trincerati non risolverà nulla né a breve né a lungo termine.

Jihadismo e sionismo religioso sono ideologie che mirano ad imporre la loro concezione teocratica del potere, e dunque vanno combattuti sul campo delle idee, nel non lasciare più senza risposta discorsi irrazionali e fanatici, così come nel non cedere più a pretese comunitarie abusive; e nell’azione politica concreta, vale a dire l’opposto dell’attuale politica estera americana e israeliana, dunque nel non lasciare più senza risposta le richieste di giustizia e diritti chi viene oppresso, e nel riprendere la strada degli accordi di pace.

Contro i coltelli degli islamisti, ma anche contro il rifiuto violento che non riconosce i diritti dei palestinesi. Se non si comprende questo, se continueremo a dividerci in fazioni pro e contro, i minuti di silenzio non basteranno mai.