mercoledì 24 aprile 2024

Il diritto e il rovescio del più forte

 

Scrivevo ieri, a proposito di “libertà e uguaglianza”, che si tratta in genere di goffe esercitazioni scolastiche di coloro che vorrebbero, a parole e molto meno nei fatti, farsi rappresentanti non degli interessi di chi patisce questi rapporti, ma degli interessi dell’essere umano, dell’uomo in genere; dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà.

Soggiungevo che senza toccare i rapporti di proprietà, questi nobili propositi dichiarati di libertà e uguaglianza diventano un insieme di reazionario e utopistico.

Esempi se ne potrebbero fare molti, uno dei più classici riguarda il rapporto tra padrone e salariato. Partiamo dal Codice Civile del 1804, detto anche Codice Napoleonico, che tanta parte ha avuto nell’informare il diritto civile moderno. L’articolo 1781 regolava i rapporti tra padrone e lavoratore: “Il padrone si crede sulla sua affermazione, per l’ammontare della paga, per il pagamento della retribuzione dell’anno trascorso e delle rate corrisposte per l’anno in corso”.

In altre parole, il padrone beneficiava di una presunzione di credibilità e spettava al dipendente dimostrare il contrario. Questa disuguaglianza di discorso tra padrone e lavoratore la dice lunga sulla visione del legislatore dell’epoca, più preoccupato degli interessi dei proprietari che di quelli dei lavoratori. Il diritto del lavoro verrà costruito lentamente, con l’obiettivo di riequilibrare i rapporti tra padrone e lavoratore, allontanandosi dal diritto comune che si basa sul principio ottimistico che due contraenti sono su un piano di parità. Cosa che non avviene nel mondo del lavoro poiché il proletario è in una posizione di inferiorità rispetto a chi ha il potere di assumerlo e licenziarlo a suo piacimento.

Il diritto attuale, almeno in linea teorica e di principio, tende a tenere conto delle molteplici forme di disuguaglianze tra gli individui, e in qualche modo si sforza di limitarne le conseguenze più gravi, consolidando i diritti dei più deboli e attenuando la posizione egemonica dei più forti. Bellissima ambizione, che però non può in alcun caso superare la contraddizione che sta alla base dei rapporti sociali tra le classi.

Questo discorso sull’uguaglianza, tanto cara al liberalismo progressista, si può estendere a ogni aspetto dei rapporti di classe. Nella realtà di ogni giorno, le cose stanno diversamente. Basti pensare ai tagli di spesa che riguardano la sanità pubblica e al fatto che ciò favorisce quella privata. Nessun problema per chi è ricco o benestante, costoro possono accedere benissimo alle cure della sanità privata. Lo stesso vale per la scuola: che senso ha aiutare le famiglie dei bei quartieri a iscrivere i propri figli alle scuole private visto che comunque possono accedervi?

Ora, apparentemente, salto di palo in frasca, parando di diritti e di uguaglianza in rapporto alla vicenda che vede da quasi ottant’anni contrapporsi israeliani e palestinesi. Si tratta della stessa logica che sottende il diritto privato borghese, la stessa retorica sull’uguaglianza basata su una disparità di fatto che non può essere in alcun modo colmata nell’ambito dei rapporti di proprietà borghese.

La settimana scorsa, mentre noi tutti (o quasi) eravamo impegnati a stabilire se i fascisti nostrani siano davvero fascisti oppure solo l’espressione di una deriva fascistoide, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato contro un progetto di risoluzione che proponeva di garantire alla Palestina la piena adesione alle Nazioni Unite. Il che avrebbe portato al riconoscimento dell’esistenza di uno Stato palestinese. Gli Stati Uniti hanno usato il loro veto per opporsi all’adozione di questa risoluzione e il loro vice ambasciatore, Robert Wood, lo ha giustificato in questi termini: “Questo voto [statunitense] non riflette l’opposizione a uno Stato palestinese, ma tale riconoscimento può nascere solo attraverso negoziati diretti tra le parti”.

Non abbiamo l’impressione di leggere un passo dell’antico Codice napoleonico del 1804? Le controversie tra padrone e dipendente saranno risolte dai rapporti di forza tra loro, senza interventi esterni per riequilibrare le disuguaglianze tra le due parti.

Si tratta dello stesso ragionamento che il diplomatico americano ha adottato per palestinesi e israeliani: sono su un piano di (fittizia) parità e dunque solo dei “negoziati diretti tra le parti” decideranno l’esito della loro disputa. Nessuno terzo, nessun esterno al conflitto potrà agire per ristabilire un giusto equilibrio nelle loro relazioni. Che vinca il migliore, il più forte prevalga (tra l’altro con l’aiuto di armi e dollari statunitensi) e che il più debole scompaia per sempre.

Il liberalismo anglosassone si applica qui con incrollabile cinismo: ognuno deve difendersi da solo (se è palestinese), senza interventi esterni, senza l’aiuto di altri Stati, senza il sostegno di un’autorità internazionale riconosciuta. Il libero mercato in tutta la sua asettica crudeltà.

I palestinesi devono far valere i loro diritti contro lo Stato israeliano sulla base di una palese disuguaglianza, illustrata dalle decisioni della Corte Suprema israeliana che quasi sempre respinge i ricorsi presentati dai palestinesi espropriati delle loro terre dai coloni (coloni!). Poi, se reagiscono contro questi e altri soprusi e violenze, diventano dei terroristi che meritano l’annientamento con le rami generosamente fornite dai Ponzio Pilato statunitensi ed europei.

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martedì 23 aprile 2024

"Il più quotato artista"

 

Gli eroi morti sono come questo mondo che sta per finire e che non smette mai di celebrarli: stanchi. Prendiamo Raymond Maufrais, del quale sto leggendo i diari pubblicati postumi, a differenza di Ulisse, dal suo viaggio non ritornò più a casa.

Nessuna Penelope attendeva il suo ritorno, tranne i suoi genitori. Invano. Raymond era un giovane uomo che non si sentiva a suo agio in nessun luogo della terra. È anche tornando a casa si sarebbe sentito estraneo. Ulisse era sfuggito all’ira di Poseidone, alla lussuria dei pretendenti, Raymond doveva sfuggire solo a sé stesso.

Il suo cane riconobbe Ulisse, mentre Raymond dovette uccidere il proprio per cibarsene. Nel 1736 Voltaire concludeva la sua poesia Le Mondain con un verso famoso: “Il paradiso terrestre è dove sono io». Una cosa è certa: quando lo scrisse non era nella foresta della Guiana francese. E Raymond non si trovava dove avrebbe potuto scrivere del paradiso.

«Questa sera sono invitato dai Bush a mangiare lucertola acquatica e riso. Un gran piatto nel centro, e ciascuno, cucchiaio la mano, vi attinge senza restrizioni. Mi piace dividere così, al chiarore del fuoco, la vita dei primitivi. Per questo ho intrapreso questo viaggio, per condividerla pienamente, senza essere infastidito da gente saputa.

«I Bosch hanno cantato buona parte della notte, ha fatto freddo, ha piovuto, impossibile dormire. All’alba scorgo su un ramo di un albero caduto, a pochissima distanza, una superba iguana. Senza alzarmi, dato che ho la carabina a portata di mano, sparo. Cade e lo recupero. Cotto con riso, mi serve da prima colazione» (p. 90).

Improbabile il parallelo tra Ulisse e Raymond, e non so se il francese avesse letto Omero. Potrebbe essere stato astuto come il greco, ma non è mai stato il re di una grande isola e anzi non lo fu di niente. Fin da subito un birichino, e dopo tante avventure non sempre consigliabili (anche Ulisse non è sempre stato un bravo ragazzo, la virtù permanente non caratterizza gli eroi), ha finito per incarnare, a modo suo e per poco, il mito dell’intrepido viaggiatore, forgiato in tante prove che ne basterebbe una sola per mandare sottoterra chiunque di noi.

P.S. Leggere libri, lo dichiara Micheletto Pistolotto, che ha la passione per il cattivo gusto, non serve a nulla. Lo conferma il ministro della cultura che sta dando spettacolo di terz’ordine (e non capisce che la questione non è solo quella del bilancio o dei sussidi, di non promuovere ciò che non deve essere promosso, ma quella dell’intelligenza), e l’intero governo (la cui aspettativa di vita va, ahimè, oltre questa legislatura) con l’adottata strategia della volgarità. Non è solo cinismo: “Il cattivo gusto”, disse Stendhal, “porta al crimine”.

La loro espressione adeguata

 

Elezioni regionali Basilicata: elettori: 567.939; votanti: 282.886 (49,81%); schede nulle: 9.441; bianche: 3.090; contestate: 19. Voti validi: 270.336 (47,59%).

Ciò che mi ha incuriosito è il terzo piazzato (1,21%), Eustachio Follia. Dipendente dell’acquedotto locale, distribuisce i suoi fiori retorici un po’ di qua e un po’ di là sui giornalini locali. Però ha una grande ambizione, quella del suo stesso movimento politico (Volt), che è “pan- europeo” e ovviamente “fondato sui valori della libertà, dell’uguaglianza, dell’equità intergenerazionale”, qualunque cosa voglia dire quest’ultima cosa, e soprattutto qualunque cosa voglia far intendere con il frasario filosofico di “libertà e uguaglianza”.

Ed infatti si sputtanano subito dichiarando di credere “fermamente nella democrazia liberale”, che mi pare mal si concilia nella pratica, specie di questi tempi, col “concetto di sostenibilità ambientale, sociale ed economica raggiungibili senza lasciare indietro nessuno e lottando contro le diseguaglianze” (si badi: ci si limita al “concetto”).

Per esempio, mi piacerebbe conoscere le loro posizioni, sia pure “concettuali”, in relazione alle contraddizioni insite nei rapporti di produzione, quindi su monopolio, finanza, corporativismo e le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza. Il loro è lo stesso l’insulso eco che sento provenire dal Partito democratico e compagnia bella, dove sono tutti tesi a mantenere l’esistenza degli attuali rapporti sociali e dunque della società borghese (che di meglio non c’è, né ora e nemmeno in prospettiva).

Gli aderenti sono consapevoli che siamo “entrati in un’epoca che pone grandi sfide all’umanità” ed “è più che mai necessario tendersi la mano per progredire e migliorare insieme”. Ah, ecco qual è la soluzione proposta, tendersi la mano. Lo diranno forte e chiaro a Washington e a Pechino, forse anche a Bruxelles, dove questo movimento che vuole trasformare l’UE conta un proprio solitario rappresentante.

Si raffigurano il mondo ove domina la borghesia come il migliore dei mondi. Vogliono la società attuale tranne le sue contraddizioni (o aporie, come le chiama Cacciari); vogliono migliorare la situazione di tutti i membri della società, anche dei meglio situati. Quindi fanno continuamente appello alla società intera, senza distinzione, meglio ancora presso i ceti benestanti.

In realtà, questa “sinistra”, democratica, liberale ed europea, vuole far passare alle classi sfruttate la voglia di qualsiasi movimento rivoluzionario, la voglia di adire a un cambiamento delle condizioni materiali di esistenza, cioè dei rapporti economici. Sia chiaro: la borghesia c’è riuscita anche grazie al loro aiuto. Godiamoci i gadget tecnologici e non rompiamo le balle sui rapporti fra capitale e lavoro salariato.

Senza toccare i rapporti di proprietà, questi nobili propositi dichiarati di libertà e uguaglianza diventano un insieme di reazionario e utopistico. Con le loro goffe esercitazioni scolastiche vogliono farsi rappresentanti non degli interessi di chi patisce questi rapporti, ma degli interessi dell’essere umano, dell’uomo in genere; dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi neppure alla realtà, perché appartiene soltanto alla confusione nella loro testa.

In definitiva, questi piccoli movimenti borghesi giungono alla loro espressione adeguata solo quando i loro buoni propositi di riforma sociale diventano semplice figura retorica.


lunedì 22 aprile 2024

L’onorevole Peppone e i fascisti


Pare si sia fatta una scoperta: il partito che fu di Almirante, poi di Fini e ora di Meloni è impregnato di fascismo. Nessuna ossessione classificatoria (le classificazioni sono comunque e ovunque necessarie), ma è un fatto che i fascisti in Italia (ma non solo) esistono e sono tanti. Perché i conti con il fascismo non sono mai stati fatti realmente e seriamente? Non solo, ma anche per tale motivo.

Quando l’onorevole Peppone, nella rappresentazione filmica, si desta dal suo torpore e s’alza dallo scranno parlamentare e grida “fascisti”, senza sapere il motivo della bagarre in atto, in cuor suo sapeva di non sbagliare, perché i fascisti non se ne sono mai andati. Dimenticava, per spirito di appartenenza, che l’amnistia del 1947 fu promossa da Togliatti. Certo, invocata da tutti gli altri, e fu un colpo di spugna che lasciava impuniti molti protagonisti di quel regime fino al punto di riciclarli in ruoli chiave dell’amministrazione statale.

Di là di questo, nella sua realtà storica e sociale, l’Italia in non piccola parte è stata e rimane fascista. Non semplicemente nostalgica e conservatrice, ma proprio fascista. Con ovvie mutazioni situazionali, si tratta delle stesse componenti sociali eredi del regime, che, vale sempre la pena ricordare, non si stabilì al potere nel 1922 per via elettorale, ma con la violenza. Saccheggi, incendi, torture e omicidi punteggiarono l’offensiva fascista, che fu tollerata e anche favorita dalla classe padronale e dirigente d’allora (compresi molti intellettuali prestigiosi).

Dunque, con l’appoggio monarchico, dei cattolici e dei liberali di allora. Ed è per certi aspetti comico vedere i liberali odierni, che hanno costruito una carriera e un patrimonio sulla retorica dei valori democratici e sulla lotta al “totalitarismo”, tornare culo e camicia nera con i fascisti (e i nazisti) non appena è stata l’ora di difendere i “valori” e il primato planetario dell’Occidente. Dov’è la novità, non solo nell’”anima”, rispetto alla “dottrina” di un Franco Freda o di un Giuseppe Pozzo di Borgo? Aveva ragione Peppone: fascisti! Soggiungo: spudorati.

Nel dopoguerra l’Italia non è diventata immune al fascismo per natura ma per circostanze (che sia in vigore la Costituzione firmata da Terracini e non quella di un Carlo Alberto Biggini). Si tratta di cogliere le novità, che sono il frutto di una situazione, ma la sostanza di base resta quella di Salò, nelle sue motivazioni di classe. A livello di rappresentanza politica, il programma, esplicito o semplicemente sottinteso, è di rivendicazione (il regime fattivo e bonario), di vendetta (contro il “tradimento”) e di conquista (lo stiamo vivendo e lo vedremo ancor più con l’istituzione di un Capo dell’Italia fraterna).

Dopo la conferma referendaria, il passo successivo, se il vento di destra prevarrà in Europa, sarà quello di dichiarare che il parlamentarismo non è l’unica, esclusiva e necessaria forma di democrazia.

La soluzione socio-economica: “riconciliazione nazionale” (quando fa comodo), corporativismo (anzitutto fiscale, non più quello statale à la Mussolini), sindacati “domestici”, pace sociale invece di scioperi, gerarchia invece di uguaglianza, paternalismo invece di potere negoziale delle classi salariate, promozione del made in Italy (le antesignane “merende a pane e marmellata nazionali”), ripristino dell’armonia tra le diverse categorie della società, migliorare le condizioni morali, riportare la famiglia al suo luogo primordiale, inibire da buoni cattolici l’aborto, uno Stato custode delle tradizioni, eccetera.

Nello psicodramma nel quale siamo immersi e con questa dottrina sociale (con tanti elementi dilatori, astuzie e propaganda), è come usare una rete a strascico in un acquario. Quanto alle responsabilità della “sinistra”, che vanno ben al di là di aver favorito Meloni e i suoi caricaturali gregari, ebbene non si tratta più di analisi politica, ma di materia psichiatrica.