venerdì 14 luglio 2023

Un motivo per pagare il canone

 

Ieri sera, in occasione del 14 luglio, una data simbolo non solo per la Francia, è stato trasmesso su Rai Storia un docufilm sulla rivoluzione francese. Un ottimo lavoro, dunque non di produzione italiana (nei filmati italiani in costume i personaggi sembrano appena usciti tutti da una sartoria, tanto per dirne una), nel quale si dava conto, tra l’altro, di un fatto politico di rilevanza storica decisiva per quanto riguarda la dinamica da cui prese avvio la rivoluzione. Diceva la voce narrante del filmato:

«Luigi XVI ha convocato gli Stati generali per costringere la nobiltà ad accettare una nuova tassa che vuole imporre. Per vincere questo scontro con la nobiltà che lo ha sfidato, il re ha bisogno della borghesia del Terzo Stato, al quale ha raddoppiato il numero dei delegati».

Tutto esatto, salvo un dettaglio: Luigi XVI non adottò tale strategia del “raddoppio”, che significava dare la maggioranza al Terzo Stato, semplicemente per imporre “una nuova tassa”. L’artefice di questa astuzia fu il suo ministro delle finanze, Jacques Necker (1732- 1804), il quale si riprometteva, per far cassa, l’abolizione dei privilegi fiscali della nobiltà e del clero. Come c’era d’aspettarsi, la nobiltà ostacolò la proposta di “raddoppio” dei seggi a favore del Terzo Stato.

Il 12 dicembre 1788, i principi del sangue inviarono una supplica al re, vale a dire una lettera pietosa, nel senso che faceva pietà per gli argomenti addotti. Alla fine, data la situazione disastrosa del Tesoro francese, Necker la spuntò e il 27 successivo il Résultat du Conseil du roi accordò al Terzo Stato il raddoppio dei suoi rappresentanti, salvo omettere di menzionare le modalità con le quali si sarebbe svolto il voto in seno agli Stati Generali, ossia per “testa” (un voto per ogni rappresentante) o per “ordine” (un voto per la nobiltà, uno per il clero e uno per il Terzo Stato).

Il ministro insinuò che gli Stati Generali avrebbero ritenuto più conveniente votare per “testa” in materia d’imposte e per “ordine” in materia costituzionale. Si sbagliava.

Nel filmato di Rai Storia, a tale riguardo e opportunamente, viene detto: «Il 5 maggio 1789, quando Luigi XVI aprì solennemente gli Stati Generali, la sua strategia [quella che aveva suggerito il “raddoppio”] gli si ritorce contro. Per la prima volta i delegati della borghesia sono in maggioranza e intendono cogliere quest’opportunità per imporre le loro richieste».

Le cose andarono proprio così. Fu commesso anche un altro errore, di tipo per così dire logistico, e dalle conseguenze politiche enormi: non essendoci posto nella sala in cui sedevano la nobiltà e il clero, il Terzo Stato fu dirottato in un’altra grande sala. Nella situazione esclusiva che si venne a instaurare, alla presenza di numeroso pubblico che spesso interveniva nella discussione in aula, fu inevitabile che si creasse un clima, a sé stante, da assemblea costituente.

La prima cosa che pretese il Terzo Stato fu quella che il conteggio del voto avvenisse per delegato e non per ordine, in tal modo i delegati borghesi avrebbero avuto la maggioranza. Finché non avessero avuto soddisfazione su questo punto dal re, non avrebbero partecipato ai lavori. Il resto è storia nota.

Pertanto la faccenda del raddoppio dei seggi a favore dei rappresentanti del Terzo Stato, e conseguentemente del voto per “testa” (altrimenti che senso avrebbe avuto raddoppiare i seggi?), ebbe indubbiamente un ruolo decisivo per quello che è successo in seguito. Tuttavia non sono molti gli storici che nelle loro opere mettano in giusto risalto questo aspetto.

Non lo fa Hippolyte Taine nel suo monumentale lavoro Le origini della Francia repubblicana, dove si limita a scrivere: «Il 5 ottobre [il re] convoca i notabili per deliberare insieme con loro. Il 27 dicembre accorda una rappresentanza doppia al Terzo Stato, perché “la sua causa è legata a sentimenti generosi, e avrà sempre a suo favore l’opinione pubblica”» (p. 25). Tutto qua.

Jacques Solé, nella sua Storia critica della rivoluzione francese, a p. 32, si limita a questa semplice annotazione: «Necker consultò di nuovo, a questo proposito, i notabili. Contrariamente al loro parere, decise, alla fine dell’anno, che negli stati generali si sarebbero avuti altrettanti deputati del terzo che degli ordini privilegiati.» Un po’ poco, direi.

Albert Soboul, sempre così ricco di dati nel suo La rivoluzione francese, scrive a p. 88: «Per soddisfare l’aristocrazia, Brienne aveva loro conferito poteri notevolmente estesi, a svantaggio degli intendenti; ma aveva concesso al Terzo Stato una rappresentanza numericamente doppia, consentendo il voto per testa e non per ordine». Anche in tal caso troppo poco sul punto del “raddoppio”, sorvolando poi sul fatto che Soboul attribuisce a Brienne ciò che fu opera del suo successore Necker.

Va meglio con il grande (aggettivo meritato) storico George Lefebvre, nel suo La rivoluzione francese, a p. 134, dà conto se non altro di quanto accadde e del fatto che il «terzo stato gridò vittoria e ostentò di considerare il voto per testa come già acquisito». Naturalmente, aggiunge, la nobiltà negò questa conseguenza.

Il nostro Gaetano Salvemini, nel suo La rivoluzione francese (una ricostruzione storica d’impronta divulgativa un po’ snobbata in certi nostri ambienti), coglie invece la grande importanza del “raddoppio” dei deputati del Terzo Stato: «L’aristocrazia comprendeva che rinunziare alla tradizione giuridica era rinunziare all’ultima forza che le rimaneva. Se unica fosse stata l’assemblea depositaria della sovranità nazionale, e se il numero dei deputati plebei [sic!] fosse stato uguale alla somma di quelli della nobiltà e del clero, i rappresentanti del terzo stato, sorretti dal favore del paese, incuneandosi fra alto e basso clero, fra alta e bassa mobilità, attirando a sé i privilegiati amanti di popolarità, avrebbero conquistata la maggioranza e fatto prevalere sulle forze conservatrici la loro volontà. La riunione degli ordini e il doppio numero di voti concesso al terzo stato erano, dunque, la fine delle gerarchie tradizionali: era la disfatta delle classi feudali» (pp. 95-96).

Bravo Gaetano, e brava Rai Storia che ha trasmesso il docufilm francese. Un motivo, tra cento di cattivi e di pessimi, per pagare il canone televisivo con meno insofferenza.

2 commenti:

  1. Dal punto di vista della critica storica, non conosco sulla rivoluzione francese un giudizio così esatto e sintetico come quello formulato da Gaetano Salvemini (uno dei pochi studiosi italiani, appartenenti ad un contesto caratterizzato da una profonda incomprensione della rivoluzione francese, che abbiano scritto un libro fondamentale su questo evento epocale. "I rivoluzionari, annullando tutte le leggi dell'antico regime, liberarono il mondo moderno dall'involucro medioevale che lo avvolgeva; trasferirono alla borghesia la proprietà fondiaria ecclesiastica e corporativa; col pretesto della emigrazione, confiscarono buona parte della proprietà nobiliare; estesero le regole romane della proprietà borghese a tutte le proprietà di tutte le classi con l'abolizione del diritto di primogenitura e della manomorta; divisero la Francia in circoscrizioni amministrative uniformi e omogenee; cercarono di organizzare il Governo in forma rappresentativa in modo che esso fosse un consiglio d'amministrazione della nuova classe dominante."

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    1. Nella notte del 4 agosto 1789, i deputati dell'Assemblea nazionale costituente proclamarono l'abolizione dei diritti feudali e dei vari privilegi. Tuttavia, i diritti feudali furono irrevocabilmente aboliti senza compenso o eccezione solo con decreto del 25 agosto 1792.

      Per quanto riguarda i principi generali del nuovo diritto successorio, essi vennero fissati via via con varie leggi e decreti: il decreto del 15 marzo 1790 aboliva i diritti di anzianità e di mascolinità sui beni nobiliari; seguirono altre leggi, come quello dell'8 aprile 1791, sull'uguaglianza tra gli eredi e la libertà di testare. La legge del 17-21 nevoso Anno II (1794), segna l’apogeo della legislazione rivoluzionaria in materia di eredità: è vietato favorire gli eredi legittimi in linea diretta o collaterale, per non violare la “santa uguaglianza”. Vieta definitivamente le pratiche di esclusione dei figli dotati, in vigore in Normandia o nel Mezzogiorno; la capacità di testare è quasi del tutto vietata: si può disporre solo di un decimo del proprio patrimonio se si lasciano eredi diretti e di un sesto se ci sono solo collaterali (art. 16). Le cose non andarono proprio lisce poiché la nuova legge prevedeva degli effetti retroattivi che crearono confusione, sconcerto e liti legali infinite.

      Per l’estensione ad altri Paesi di questi principi del nuovo diritto successorio si dovette attendere il codice napoleonico e la sua applicazione.

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