I media hanno scoperto che nelle carceri si praticano sevizie e tortura. Questione di un paio di giorni, dopodiché la questione passerà nelle pagine interne e poi più nulla.
Nel corso del tempo l’arte di punire s’è “addolcita” e affinata l’ideologia del controllo. S’è trasformato l’arcipelago carcerario, almeno apparentemente, superando certe situazioni descritte in film come Detenuto in attesa di giudizio di Nanni Loy (gli intellettuali di sinistra svolgevano ancora una funzione sociale progressista).
Nella sostanza della realtà non è cambiato nulla, come del resto e da ultimo testimoniano le immagini provenienti dal carcere di Capua.
All’origine c’è una contraddizione sulla quale si sorvola: da un lato l’utopia del recupero del “deviante” per restituirlo al contesto sociale; dall’altro il pregiudizio di pericolosità che impedisce la reintegrazione.
Nel primo caso il carcere avrebbe una funzione terapeutica, ossia quella di curare per restituire il malato alla sanità della norma; nel secondo caso, la prigione si chiude nell’impermeabilità delle sue mura, nella separatezza e morte civile.
Queste due funzioni, quella sociale/terapeutica e quella disciplinare/repressiva, coesistono e s’influenzano a vicenda, ma la loro bivalenza non può emergere che in modo contraddittorio, prevalendo ora l’una ora l’altra tendenza.
Anche l’utopia riformatrice dei decenni scorsi, non ha fatto altro che riconfermare l’aporia originaria, della cui esistenza tali riforme sono il prodotto, come volontà di superare questa dicotomia. Che però è organica al modello carcerario stesso, il quale è specchio, in ogni epoca, dei rapporti sociali vigenti e delle relative forme di dominio.