giovedì 9 maggio 2024

Uno Stato di "eletti"

 

Troppo spesso ancora oggi gli ebrei sono descritti come portatori di caratteri loro proprie, addirittura sui generis, trasmessi per via ereditaria. Uno speciale corredo genetico distinguerebbe gli ebrei da tutti gli altri esseri umani.

Questa è una teoria cara ai sionisti e, paradossalmente e per altri opposti motivi, all’antigiudaismo.

Nei registri anagrafici israeliani un cittadino può risultare di nazionalità “ebraica”. Del resto Israele si autodesigna ufficialmente come Stato del popolo ebraico. Lo Stato di Israele designa ebreo un suo cittadino non perché parli l’ebraico, racconti barzellette ebraiche, mangi cibo ebraico, scriva in ebraico o pratichi attività specificatamente ebraiche. Nulla di tutto questo.

Chi è censiti come ebraici perché quello Stato, ossia Israele, ha esaminato l’albero genealogico di quel determinato cittadino, appurando che figlio di una madre ebrea, che sua nonna era ebrea e così pure sua bisnonna, di generazione in generazione fino alla notte dei tempi. Un po’ come se per essere cittadino italiano si dovesse essere figli di una madre cattolica, a sua volta discendente di una nonna, una bisnonna e così via, cattoliche.

Quel cittadino considerato ebreo dallo Stato di Israele potrebbe aver avuto un padre e un nonno ebrei, ma ciò non lo farebbe diventare ipso facto un cittadino ebreo dello Stato d’Israele. Parlare e imprecare in ebraico non gli sarebbe servito a nulla, così come non gli sarebbe servito a nulla aver frequentato fin da bambino le scuole israeliane. Fino alla fine dei suoi giorni sarà etichettato dalle autorità come un immigrato polacco, tedesco, italiano, russo, e che dir si voglia. E così anche se fosse nato in Israele ma non da madre ebrea.

Non solo. Quel cittadino non può rinunciare di essere ebreo, e ciò stando alle leggi in vigore nello Stato israeliano, conformi in questo ai canoni della halakhah, ossia alle leggi religiose ebraiche. Il fatto di essere o non essere ebreo non ha nulla a che vedere con il libero arbitrio. Soltanto in casi limite l’anagrafe israeliana potrebbe accettare di modificare la nazionalità di un cittadino, ossia nel caso si convertisse un’altra religione.

E se quel cittadino fosse laico e non credente, ossia un cosiddetto ateo? Se non credesse nelle balle sulla trascendenza, di essere creatura di Dio e non viceversa? Ancora nel XXI secolo, in Israele nel resto del mondo, i sionisti respingono senza perdere l’idea stessa di una nazionalità israeliana di matrice puramente civile: si può parlare sempre soltanto di nazionalità “ebraica”.

Scrive lo storico israeliano Shlomo Sand: «Chi desidera considerare Israele come il proprio Stato nazionale di appartenenza restano due sole possibilità: essere figlio di madre ebrea, oppure sottoporsi a un lungo e tortuoso cammino di conversione religiosa secondo i canoni della legge ebraica, anche se in cuor suo l’aspirante cittadino è ateo al cento per cento».

Molti degli studenti di Shlomo Sand sono di origine palestinese, parlano correntemente l’ebraico e a norma di legge dovrebbero essere considerati israeliani a tutti gli effetti. Eppure nei registri del ministero dell’Interni risultano censiti una volta e per tutte come “arabi” e non come israeliani. Non è in loro potere modificare questa situazione, né oggi né mai. Qualcuno, penso a campioni come Chiaberge e altri, che propugna (giustamente) lo jus soli per i nostri immigrati, ha avuto mai da dire qualcosa a riguardo dello status dei palestinesi nati e residenti in Israele?

Per contro, s’immagini che in qualunque altro Paese le autorità imponessero a chi si riconosce come ebreo di farlo scrivere sulla sua carta d’identità, per non parlare di un ipotetico censimento nazionale condotto con simili criteri. Ma è esattamente ciò che avviene in Israele, e di ciò nell’occidente liberale e democratico non si parla.

mercoledì 8 maggio 2024

Di quale antisemitismo stanno parlando?

 

Comprendo le preoccupazioni per il caso Falcinelli, ma del resto è noto che gli Stati Uniti sono un regime a larghi tratti fascista (sì, proprio fascista). E la cosa è ben rappresentata dai 2500 arresti di manifestanti del Gaza Solidarity Encampment e altre organizzazioni studentesche. Del resto, la storia degli Stati Uniti è la storia di un regime di segregazione razziale, di linciaggi, di assassinio di popolazioni autoctone e poi di oppositori interni ed esterni, eccetera. Dunque non c’è da stupirsi. Semmai ci sarebbe da stupirsi perché Repubblica dia così ampio risalto al caso Falcinelli e tratti i manifestanti dei campus universitari dapprima alla stregua di terroristi e poi copra i loro arresti col silenzio. Stupore in realtà immotivato se si considera la proprietà del giornale e la sua direzione.

In molti casi, studenti e docenti sono stati accusati di “violazione” per essersi seduti sull’erba o aver occupato gli edifici del campus, mentre sono stati incarcerati anche i giornalisti che hanno filmato gli studenti arrestati. In molti casi si parla di “rivolta” quando invece si tratta di pacifiche manifestazioni o semplicemente di presenza nei campus. Quanto al presidente Joe Biden, in molteplici dichiarazioni continua a ripetere la grande balla secondo cui l’opposizione allo sterminio sionista del popolo palestinese è un’espressione di antisemitismo. Tutto ciò sta avvenendo da mesi senza che la libera stampa (salvo eccezioni) dell’occidente democratico sollevi sopracciglio, senza che la UE si pronunci per delle sanzioni contro Israele, nel silenzio di molti che diventa complicità.

Di fronte alla tragedia palestinese, di quale antisemitismo stanno parlando? Oggi nessun uomo politico può sognarsi di esprimere pubblicamente posizioni antiebraiche, se non forse in qualche zona dell’Europa centrale e nella sfera islamico-nazionalista. Nessun organo di stampa credibile accetterà di propagandare frottole antisemite, nessuna casa editrice degna di questo nome è disposta a pubblicare autori che predicano l’odio nei confronti degli ebrei. Nessuna emittente radiofonica e nessuna rete televisiva, pubbliche o private che siano, concedono spazio a opinionisti ostili alla popolazione ebraica. Se ogni tanto capita che i mass-media lascino passare per sbaglio frasi diffamatorie nei confronti degli ebrei, l’errore viene immediatamente rettificato, senza eccezione possibile.

Dunque? Sopravvivono sacche di odio antiebraico, residui di un passato remoto che bisbigliano nel segreto, figure marginali o di spostati, ma il grande pubblico si guarda bene dall’attribuire a quelle parole la benché minima plausibilità. La giudeofobia imperante di un tempo nelle civiltà cristiane occidentali fino ad anni recenti era, purtroppo per chi l’ha patita allora, tutt’altra cosa. Il termine stesso di “antisemitismo” è stato coniato da uomini che odiavano gli ebrei: la qualifica di “semita”, chiaramente razzista, è priva di qualunque fondamento storico.

Allora, perché tanta ferocia repressiva, che cosa motiva questo clima ideologico? D’accordo, il solito appoggio al sionismo, che tanta parte ha nella finanza e nei media, ma c’è dell’altro. Serve a stoppare preventivamente l’emergere di un’opposizione politica all’imperialismo occidentale e alle sue guerre.

Il 4 maggio 1970 quattro studenti della Kent State University, nel nord-est dell’Ohio, manifestanti disarmati furono assassinati e altri nove rimasero feriti sotto il fuoco della Guardia Nazionale. Protestavano contro la decisione del presidente Richard Nixon di intensificare la guerra in Vietnam inviando truppe statunitensi nella vicina Cambogia.

Quegli omicidi hanno strappato la maschera della “democrazia” e della “libertà” dal volto dell’imperialismo americano, mostrando che la classe dirigente americana era disposta a usare in patria contro l’opposizione politica gli stessi metodi feroci che stava usando nei suoi massacri nel sud-est asiatico.

I quattro studenti uccisi avevano tra i 19 o 20 anni. In quel momento i loro assassini non stavano reagendo ad un attacco improvviso o ad una carica da parte degli studenti, o in risposta al lancio di sassi, bottiglie o altri oggetti. Due degli assassinati erano addirittura dei passanti, si trovavano a 130 metri dalle truppe. La maggior parte dei feriti si trovava a decine di metri e il più lontano a 200 metri dagli assassini in divisa, i quali spararono a raffica. Nessuno degli assassini, né i loro comandanti, né il governatore dell’Ohio, James A. Rhodes, che ordinò loro di occupare il campus e li incitò, fu mai assicurato ai tribunali. Anzi, Rhodes, al suo secondo mandato (1963-1971), fu poi rieletto per altri due mandati (1975-1983).

Il governatore descrisse i manifestanti come “peggio delle camicie brune e degli elementi comunisti. Sono il peggior tipo di persone che ospitiamo in America. Penso che ci troviamo di fronte al gruppo più forte, ben addestrato, militante e rivoluzionario che si sia mai riunito in America”.

Erano gli anni in cui il Dipartimento di Stato, attraverso la CIA, con la complicità del comando Nato in Italia e la rete Gladio, organizzava la strategia della tensione avvalendosi della manodopera fascista. Erano gli anni delle bombe e delle stragi.

Il pilastro della nostra democrazia

 

Nel 1789, per la prima volta, i rivoluzionari francesi proclamarono che il principio della libertà di espressione è uno dei diritti più preziosi e fondamentali dell’uomo e del cittadino. Si dimenticarono di chiarire che è sempre un diritto, come tutti gli altri diritti, condizionato dalle circostanze, tipo il mondo politico che non vede male limitare la libertà di espressione.

Basti pensare all’art. 21 della costituzione, che al primo comma sancisce solennemente tale libertà, dicendo che non può essere soggetta autorizzazioni o censure, ma di fatto smentendosi nei commi successivi quando il solenne principio di fatto può essere revocato “per legge”.

En passant: anche l’operaio ha diritto di diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero dicendo chiaro e tondo al suo padrone che le condizioni di lavoro non rispettano, per esempio, le norme antinfortunistiche? Ma certo che lo può fare, liberamente e senza censure.

Non è possibile alcuna libertà di espressione senza indipendenza economica. Il denaro è il nerbo anche della libertà d’espressione anche nel settore dell’informazione. Quando gente d’affari compra il media in cui lavori, media che spesso ha bilanci cronici in rosso, non nasconderti dietro il tuo mignolo, sta comprando anche la tua libertà di espressione. Non è perché scrivi sul giornale di De Benedetti o di Elkan invece che su quello di Cairo o Angelucci che puoi scrivere quello che vuoi e su chi vuoi tu.

Specie negli ultimi tempi, non mancano le polemiche e anche le proteste di giornalisti in nome e per conto della libertà e pluralità di espressione. Ci vengono presentate come prova della loro integrità professionale e ciascuno dei protagonisti s’immagina di essere il campione della invocata libertà di espressione. Certo, nella restrizione o manipolazione di questa libertà vi sono livelli diversi, e indubbiamente quello di decenza è stato superato.

Ma non da oggi, quando invece viene solo allo scoperto per i modi arroganti e maldestri. Diciamo che c’è modo e modo di manipolare l’informazione. È una questione di stile. E di giornalisti di grande stile ne vedo assai pochi di questi tempi. E neanche di coraggio: se non puoi esprimerti come vorresti nel mezzo che stai utilizzando, lascialo.

Chi può farlo? Solo le grandi “firme”, i giornalisti milionari, ma non quelli che invece remano nella stiva. Anche in tal caso, come in ogni caso, la propria libertà è condizionata dal denaro, il vero pilastro della nostra democrazia. Pertanto e in via principale è la situazione economica dei media e dei giornalisti a rendere difficile l’esercizio di questa libertà fondamentale.

A tirarci su il morale c’è l’Iran: il rapper Toomaj Salehi è appena stato condannato a morte per avere a più riprese denunciato le torture e i maltrattamenti subiti dai detenuti che si oppongono al sistema. La sua libertà di espressione non è stata molto supportata dalla nostrana intellighenzia, men che meno da quella altrimenti sempre pronta a twittare cose stupide durante le polemiche stupide.

martedì 7 maggio 2024

Chi meglio di lui, chi meglio di noi?

 

Piove. Ci voleva un po’ di pioggia dopo quasi tre giorni siccitosi. Dico quasi perché già ieri pomeriggio è caduta qualche goccia portata da un forte vento. Mi viene in mente quel romanzo, Cent’anni di pioggia mi pare titolasse. L’autrice una colombiana, Francia Elena Márquez Mina. Più che di solitudine il romanzo parla di desolazione. Non m’impressionò molto. Non ricordo esatta la trama, né quando lo lessi. Più o meno di cinquant’anni fa? Forse meno, ma non troppi di meno. Racconta di una lunga marcia di donne che denunciano l’avvelenamento dei fiumi da mercurio e la deforestazione, guidate da un prete di sinistra che predicava la “teologia della liberazione”. La marcia e tutto il racconto procedono mentre piove a dirotto e senza interruzione.

Ci sono molti paesi in cui la nozione di sinistra e destra non è in vigore. E anche quando lo è, come in Italia, non si vede più la differenza. In Colombia, però, tutto è portato all’estremo. La destra è legata ai paramilitari che fanno a pezzi i contadini con le motoseghe, e la sinistra è stata a lungo assimilata ai guerriglieri che effettuavano rapimenti. Dal 2022, cioè da quando è presidente Gustavo Francisco Petro Urrego, ex guerrigliero dell’M-19, un economista e politico colombiano con cittadinanza italiana, e la sua vice è l’autrice del romanzo di cui sopra, le cose stanno cambiando. Un esempio: la Colombia ha annunciato la rottura delle sue relazioni con Israele, seguendo la Bolivia. Ne sapevate qualcosa? Frega un cazzo, immagino. Come tutto il resto.

L’immagine mediatica della Colombia si riduce generalmente a due parole: cocaina e guerriglia. Qui da noi, dicevo, le cose vanno diversamente, per il semplice motivo e come scrivevo tempo fa, i fascisti sono sia di destra che di sinistra. Qui non ti sbregano con la motosega, si viene assassinati cinque alla volta con altri metodi. L’Italia è un paese fatto così, da sempre, che nelle stragi sa assaporare i momenti di unanime cordoglio. Al resto pensa la magistratura.

Con la magistratura italiana non si scherza, salvo errori e omissioni, che non sono solo frequenti, ma costanti. Un paese senza memoria e che ha saputo autoassolversi per l’adesione di massa al fascismo. Solo un piccolo esempio. Ricordate l’amnistia per i fascisti di Togliatti, ministro della Giustizia? Chi era il suo consigliere giuridico? Gaetano Azzariti, ministro di Giustizia nel primo governo Badoglio, poi presidente della Corte costituzionale dal 1957 al 1961. Pensa un po’ che galantuomo. Non avevano di meglio tra cui scegliere, ed infatti scelsero quello che fu il presidente della Commissione sulla razza durante il regime fascista. Chi meglio di lui a garanzia della costituzione antifascista più bella del mondo?

lunedì 6 maggio 2024

La riduzione della giornata lavorativa

 

Correva l’anno 1866. Al congresso di Ginevra della Prima Internazionale, Marx propose la limitazione legale della giornata lavorativa a otto ore.

Vent’anni dopo, le manifestazioni di Haymarket, in ricordo delle quali deriva il 1° maggio, avevano ad oggetto la riduzione dell’orario di lavoro.

Perché tanta resistenza da parte del padronato verso la riduzione della giornata lavorativa? Per rispondere a questa domanda si deve mettere in rilievo quello che è il punto critico del modo di produzione capitalistico.

Le merci sono prodotti del lavoro umano. Il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro necessario per produrla (cui si somma il costo di materie prime, ausiliarie, ecc.). Ovvio che il capitalista non acquisti la forza-lavoro per ottenere dall’impiego produttivo di essa lo stesso valore del prezzo pagato (salario) per acquistare quella stessa forza-lavoro.

Pertanto il capitalista deve sfruttare il lavoro dell’operaio per un tempo maggiore di quanto serve per produrre l’equivalente del suo salario. Ecco il perché della reazione rabbiosa del padronato (e dei suoi scrivani) alla richiesta di riduzione dell’orario di lavoro.

Lo sfruttamento non è prerogativa del solo modo di produzione capitalistico; tuttavia solamente nel capitalismo lo sfruttamento assume la forma storica e determinata di appropriazione di lavoro non pagato (*).

Se la giornata lavorativa corrispondesse soltanto alla creazione di un valore pari al salario, se cioè fosse composta tutta da lavoro pagato, la diminuzione di orario in corrispondenza di un aumento della produttività sarebbe un fatto naturale e praticamente automatico; nelle condizioni date, invece, l’aumento della produttività causa soltanto una riduzione delle ore in cui l’operaio lavora per sé (per il proprio salario), a tutto vantaggio delle ore in cui l’operaio lavora gratis per il padrone (plusprodotto).

Analogo discorso si potrebbe fare per il cottimo o lavori comunque incentivati, sistemi con i quali si riesce ad accorciare il tempo di riproduzione del salario e l’incentivo è sempre molto al di sotto del vantaggio che il padrone stesso trae dal prolungamento del tempo di lavoro (**).

Il motivo per cui il padronato cerca di mantenere, da contratto a contratto, gli stessi orari è evidente: l’incremento della forza produttiva del lavoro non ha per nulla lo scopo di abbreviare la giornata lavorativa, di liberare tempo “libero”. Ha solo lo scopo di abbreviare il tempo di lavoro necessario per la produzione di una determinata quantità di merci (dunque anche abbreviare il tempo di lavoro necessario per produrre l’equivalente del salario). La creazione di plusvalore è lo scopo animatore, dominante ed ossessivo del capitalista, il pungolo e il contenuto assoluto del suo operare (***).

Date queste premesse, è chiaro il motivo per il quale i padroni si oppongono in tutti i modi alla riduzione della giornata lavorativa e ad altre misure accennate. Maggiore è la durata della giornata lavorativa, e maggiore sarà, a parità di condizioni, il grado di sfruttamento della forza-lavoro.

I soliti bischeri parlano di “capitale umano” perché essi considerano la vita umana del salariato sotto il punto di vista del capitale, per cui il proletario è solo una macchina per consumare e produrre; gli uomini non sono niente, la valorizzazione del capitale è tutto (il capitale privato sussumerà anche lo Stato? svuoterà progressivamente il potere politico fino a lasciarne solo un vuoto involucro utile a rappresentazioni di proscenio? Sta avvenendo! Ma il capitale non può sopravvivere alle sue crisi ontologiche senza iniezione di denaro pubblico e architettura legislativa su misura).

Le lotte per la riduzione della giornata lavorativa hanno ottenuto la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere, ma non ci si schioda da questo orario da un secolo. Di vera e propria lotta a tale scopo nemmeno l’ombra, e ciò nonostante l’enorme incremento della produttività del lavoro in forza dello sviluppo tecnologico.

Si può ben dire che i salariati siano stati abituati a ritenere ovvie le esigenze dei padroni e dunque normale la loro servitù volontaria. Evidentemente poco importa ai salariati di produrre tempo libero per delle classi sociali di mantenuti mediante la trasformazione in tempo di lavoro del proprio tempo di vita. Tutto sommato, mediamente, la vita del salariato è una bella vita. Che avesse ragione Marchionne a dire che la lotta di classe è un anacronismo?

Anche il cosiddetto comunismo, nella sua prima forma storica moderna, intendeva annullare tutto ciò che non è suscettibile di essere posseduto da tutti, ma ciò era soltanto la generalizzazione fittizia della proprietà comune. In tal modo la prestazione del salariato non veniva soppressa, bensì estesa a tutta la società, né veniva ridotta la giornata lavorativa.

Come aveva ben spiegato Marx, il ricambio organico uomo/natura rimane sempre un regno della necessità. Il vero regno della libertà incomincia “con lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, e tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa” (III, cap. 48).

Marx, scoprendo le leggi del “lavoro determinato dalla necessità”, trasforma la libertà da sogno utopico in coscienza della realtà. In altri termini Marx ci indica la strada per il regno della libertà, fermo restando la necessità di provvedere ai nostri bisogni attraverso il lavoro di produttori associati che regolano razionalmente il ricambio organico con la natura. Anzi, tali bisogni si espandono, ma si espandono proprio perché le capacità umane sono in grado di soddisfarli.

Con lo sviluppo delle forze produttive, è possibile ridurre il tempo di lavoro socialmente necessario ad un minimo. Se non viene ridotta progressivamente la giornata lavorativa in rapporto alla produttività del lavoro, si potrà fare qualunque rivoluzione, chiamare un sistema sociale col nome di socialismo, comunismo e, se piace di più, col nome di liberalismo democratico, ma si tratterà pur sempre di forme di una reale servitù dei produttori a degli scopi ed interessi a loro estranei.

Il fatto che possano essere concesse alcune libertà di dire e di fare non assolve il sistema sociale dallo stigma di essere sostanzialmente la dittatura di una minoranza che sfrutta a proprio vantaggio il lavoro della maggioranza. Perciò è necessaria la lotta di classe, ponendosi come obiettivo prioritario la riduzione della giornata lavorativa.

Di quanto ridurre la giornata lavorativa al minimo necessario è un compito tecnico basato sull’analisi scientifica. Tuttavia ciò può avvenire solo a condizione di trasformare gli attuali rapporti sociali in nuovi rapporti tra produttori associati, che portano sotto il loro comune controllo l’economia e la regolano razionalmente, di modo da non essere da essa dominati come da una forza cieca. Una simile trasformazione epocale dipende dal processo storico di sviluppo oggettivo, ma essa non può avvenire senza l’intervento dell’insieme degli artefici e dei produttori della futura comunità reale (la tecnologia da sola non cambia la società).

(*) Una precisazione mi pare necessaria perché c’è confusione interessata nel dire che il lavoro non deve essere trattato alla stregua di merce. La forza-lavoro è la capacità lavorativa umana: essendo una forza produttiva, essa è comune a tutte le epoche storiche. È soltanto nel modo di produzione capitalistico che la capacità lavorativa umana assume la forma di merce (ciò avviene anche in epoche e modi di produzione diversi dal capitalismo, ma non in modo generale e prevalente). Nel capitalismo, dunque, la forza-lavoro è merce (il salariato che incarna la forza-lavoro è perciò esso stesso merce) e si distingue da tutte le altre merci per il fatto che il suo valore d’uso (il suo impiego) produce un valore maggiore di quello che possiede (cioè maggiore di quanto viene pagata la forza-lavoro).

(**) Contestualmente alla riduzione d’orario a parità di salario, devono essere aboliti gli straordinari, turni notturni, cottimi e altri incentivi e posto l’assoluto divieto di aumento dei ritmi (va anche tenuto conto che orari più brevi consentono ai lavoratori di mantenere una maggiore intensità di lavoro poiché questa maggiore intensità deve essere mantenuta per un periodo di tempo più breve). Si tratta in realtà di aumentare l’occupazione, ma ciò è in palese contrasto sia con la natura stessa dell’appropriazione privata del plusvalore e sia con la questione della “competitività” su scala sia locale che globale.

(***) Nei periodi di crisi, o perché un certo settore produttivo ha raggiunto la saturazione rispetto alla domanda, si presenta la necessità di ridurre l’attività globale di una azienda, per cui si ricorre alla cassa integrazione guadagni o a licenziamenti (e ciò appare chiaramente un controsenso in un mondo in cui aumenta la produttività del lavoro ma si mantiene la giornata lavorativa di 8 ore). Si ricorre, di fatto, anche alla riduzione dei salari, non adeguandoli all’inflazione, non rinnovando i contratti, oppure introducendo forme contrattuali peggiorative. E ciò di solito avviene in accordo con i sindacati (tutti o alcuni) e dei partiti politici (tutti).

domenica 5 maggio 2024

Nuovi soldati

 

Nel 1915-1918, le donne lavorarono e mantennero il paese in funzione sostituendo gli uomini che partivano per combattere. Appena finite le ostilità tornarono alle loro case, madri prolifiche e spose obbedienti. Nel 1940-1945, accadde la stessa cosa, ma infine fu concessa loro una ricompensa che era solo una legittima prerogativa: votare. Il voto è così importante per cambiare la società che ci sono voluti decenni per un diritto di famiglia decente e 36 anni prima che il superbonus dell’omicidio, il delitto d’onore, fosse cancellato dal codice. Adesso possono fare anche il soldato. I cannoni ruggiscono, si invocano nuove coscrizioni, le ragazze hanno il diritto all’uguaglianza.

“Sono un soldato” (con la scaletta).

Ah, la democrazia. Quanto amiamo questa parola, quanto ne siamo orgogliosi. Ne riempiamo i nostri discorsi come la mozzarella sulla pizza. Questa parola, democrazia, la senti come scorre bene sotto la lingua, quanto tempo rimane in bocca. La succhiamo come una caramella, democrazia, democrazia, esaminando i nostri sondaggi, contando le nostre schede, verificando che al telegiornale ci siano tanti degli uni e tanti degli altri (neanche più questo è vero). Tanti poveri quanto tanti ricchi. Ah, no, sto scherzando. Un’altra parola squisita che ci piace far risuonare nelle nostre frasi è “costituzione”, con il suo strascico di uguaglianza, di libertà. Di fratellanza. Ah, no, sto scherzando ancora.

A proposito di fratellanza, ora che hanno risolto la questione di Gaza, americani, russi, inglesi, francesi e, perché no, italiani, risolveranno anche quella ucraina. Una questione, la guerra, che per noi è diventata noiosa come la pioggia. Fin dove si spingeranno, fino a quando li lasceremo fare? Possibile non comprendere che per provocare una catastrofe è sufficiente armare gli idioti? Basterà l’ultima goccia di sangue degli altri, o li lasceremo fare fino a quando tutto quel mondo di pacifica bellezza che, malgrado tutto, per noi esiste ancora, non ci crollerà addosso?

sabato 4 maggio 2024

Dazi

 


A Venezia chiedono cinque euro per entrare,
a P. Marghera 43 anni di contributi per uscirne. 

venerdì 3 maggio 2024

Il capitalismo cinese e quello degli altri

 

I cinesi lo hanno capito prima di noi e molto meglio. L’economia è soprattutto materie prime, energia, acqua, terra fertile e tecnologia. Anche gli americani lo sanno bene: shale gas e petrolio stanno rendendo gli Stati Uniti un esportatore netto di energia, e se ne fottono che il metano ha un potere riscaldante 23 volte maggiore di quello della CO2 (*).

Dunque la chiave dell’economia non è la generica “competitività” di Mario Draghi ed Enrico Letta, entrambi autori, nelle ultime settimane e con grande soddisfazione degli imbecilli di Europa, di un rapporto inteso a consentire all’Unione europea di competere ... con la Cina!

Per comprendere appieno l’enormità della bugia: a un operaio italiano quanti stipendi pieni mensili costa un’auto elettrica europea? Niente panico, i dazi e i bonus risolveranno tutto.

Dei democratici decadenti in gara con i cinesi? Mario Draghi ed Enrico Letta ne hanno mai conosciuto uno di questi cinesi? Il capitalismo cinese non è banalmente un capitalismo di Stato, né un comunismo che ha scelto la “retta via”. La Cina è “decisamente” un paese capitalista “su tutti i fronti” (Branko Milanovic, Capitalismo contro capitalismo, Laterza, p. 115).

Alla fine del 2019, poco prima del Covid, più di 27.500 aziende cinesi avevano investito in 188 paesi (l’ONU ne contava 197). La cosa divertente è che taluni continuano a classificare la Cina come un “paese emergente”.

Le “nuove vie della seta” si ispirano a quelle antiche (ma non solo), attraverso le quali transitavano seta, porcellana e giada verso l’Europa. Per la Cina si tratta di acquisire e costruire enormi infrastrutture, porti e ferrovie. Anche in Europa: il porto del Pireo in Grecia, il 90% del porto di Zeebrugge (Belgio), il 35% del porto di Rotterdam (Paesi Bassi), il 20% del porto di Anversa (Belgio), il 25% del porto di Amburgo. Quindi la linea ferroviaria veloce Budapest-Belgrado e persino la costruzione da parte di un consorzio cinese di un ponte stradale in Croazia, però finanziato dall’UE.

È stato ad Astana (nel 2017 ha ospitato l’Esposizione Universale dell’Energia), capitale del Kazakistan (ex Urss), che Xi Jinping ha pronunciato il discorso fondativo di questo programma. Il Kazakistan, che roba è? È nove volte l’Italia, membro dell’Unione economica eurasiatica (UEE), cioè un’unione con Russia, Bielorussia e Armenia, ed è il più importante produttore ed esportatore di petrolio nell’ambito della Comunità di Stati indipendenti (CSI).

Il Kazakistan possiede circa il 60% delle risorse minerarie dell’ex Unione Sovietica; in questa regione chiave tra Europa e Asia, una delle più lontane dal mare, e quindi dagli scambi commerciali, la Cina pratica la “diplomazia dei gasdotti” con la costruzione di gasdotti al servizio quasi esclusivo di Pechino. Tra parentesi: nel gigantesco campo di Karachaganak (gas e petrolio), estraggono Eni e Shell (co-operatori), Chevron e la compagnia russa Lukoil. La UE si balocca ancora con le “sanzioni” alla Russia!

In Africa, il Regno di Mezzo sta portando avanti la “diplomazia del debito”. Acquista intere regioni, fa costruire strade e ferrovie da aziende cinesi che impiegano manodopera proveniente dal paese, che è il destinatario quasi esclusivo dell’esportazione di riso o dei cereali raccolti. Man mano che Pechino anticipa tutto il denaro, i paesi “beneficiari” (indebitati) diventano, per decenni, i suoi debitori. Un film già visto in passato, mi pare, ma con altri attori protagonisti.

Per Pechino si tratta di offrire ai Paesi interessati un’alternativa agli Stati Uniti, giocando sulle divisioni dei Paesi membri della cosiddetta “Unione” europea. È così che, nel 2021, nel pieno della crisi del programma nucleare iraniano, la Cina ha firmato un accordo venticinquennale di “cooperazione strategica” con la Repubblica islamica, sempre secondo la stessa logica: investimenti cinesi contro il petrolio iraniano ad un prezzo stracciato.

In breve, la Cina pratica un capitalismo semplice ed efficace: possiede risorse minerarie, agricole, infrastrutture, tecnici di livello e manodopera obbediente, rende dipendenti i Paesi attraverso il debito, inondando al contempo quelli europei e americani di tutto ciò che produce. Lo so che la Cina se la passa male (difficoltà del settore immobiliare e non solo) e forse un giorno crollerà. In attesa di questo ipotetico collasso, tanto sognato da alcuni, si sta comprando mezzo mondo.

L’unica cosa che si può concedere a riguardo delle difficoltà della Cina è che essa dovrà affrontare le contraddizioni tipiche del capitalismo. Per esempio, dal febbraio scorso, per dare fiato agli investimenti, ha abbassato il tasso di riserva obbligatoria, ovvero la quota di depositi che le banche sono tenute a tenere nelle proprie casse, e questa è già la sesta volta che il governo abbassa questo tasso da luglio 2021. Ciò nonostante l’indice dei direttori degli acquisti (PMI), che riflette la salute del mondo industriale, è entrato in territorio positivo solo una volta in sei mesi (50,8 a marzo da 49,1 a febbraio, superando il livello di 50 che separa la crescita dalla contrazione e raggiungendo il valore più alto da marzo 2023).

Dovrà affrontare anche altre sfide la Cina, tipiche della nostra epoca, quali quella demografica, e ancor più impegnativa è la partita con gli Usa, con il desiderio di Washington di cancellare la Cina come potenza economica e militare dalle mappe. Con la lieve differenza che non siamo più nel XIX secolo.

(*) Dopo il suo insediamento, l’amministrazione Biden ha dichiarato che “metterà la crisi climatica al centro della politica estera e della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Inoltre, l’amministrazione Biden vedeva il cambiamento climatico anche come un mezzo con cui gli Stati Uniti potevano tornare a riconquistare la leadership globale (vedi l’Inflation Reduction Act).

Tuttavia i numeri dimostrano altro. Anche se con l’Inflation Reduction Act sono stati stanziati ingenti fondi per lo sviluppo delle energie rinnovabili, il numero di nuovi parchi eolici e solari costruiti negli Stati Uniti nel 2022 è in realtà diminuito rispetto al 2021 del 16%.

Più di 8.100 progetti energetici negli Stati Uniti sono in attesa di autorizzazione per connettersi alla rete elettrica e il tempo di attesa è di quattro o cinque anni. In molte località degli Stati Uniti le reti elettriche funzionano già a pieno regime e per collegare nuovi impianti è necessario ammodernare un intero sistema di trasmissione.

Il New York Times ha scritto che anche se l’attuale Congresso degli Stati Uniti manterrà tutti i sussidi promessi, le emissioni di gas serra degli Stati Uniti saranno ridotte solo di circa il 25% entro il 2030 rispetto al 2005, molto al di sotto dell’obiettivo fissato del 50%.

In particolare, per quanto riguarda i veicoli elettrici, gli Stati Uniti non pensano che vi sia di per sé un problema con tali veicoli, ma che esista un problema con il dominio della Cina nel campo dei veicoli a nuova energia.

Secondo il rapporto 2024 dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili la quota delle stesse ha raggiunto l’86% nel 2023, rispetto all’84% nel 2022. Anche la quota rinnovabile della capacità elettrica totale è aumentata di quasi tre punti percentuali, passando dal 40,4% nel 2022 a 43,2% nel 2023.

Nel 2023, i paesi del G7 (esclusa l’UE) rappresentavano il 25,3% della capacità globale di energie rinnovabili (solare, eolico, biomasse, ecc.), con un totale di 980 GW. I paesi del G20 (esclusi UE e Australia) rappresentano il 79,7% della quota globale con una capacità totale di 3.084 GW. Rispettivamente i paesi del G7 e del G20 rappresentano il 14,7% e l’87,2% delle nuove capacità nel 2023.

Sempre per quanto riguarda le energie rinnovabili, l’Asia ha rappresentato ancora una volta la maggior parte della nuova capacità nel 2023 (69,3%), aumentando la sua capacità rinnovabile del 327,8 GW per raggiungere 1.961 GW (50,7% del totale globale). La maggior parte di questo aumento si è verificata in Cina (+297,6 GW). La capacità in Europa e Nord America è aumentata rispettivamente di 71,2 GW (+10,0%) e 34,9 GW (+7,0%).

Energia solare: energia solare fotovoltaica ha rappresentato quasi tutto l’aumento della produzione di energia elettrica nel 2023, con un aumento del solare fotovoltaico di 345,5 GW. L’espansione in Asia è stata di 237,7 GW nel 2023 (rispetto a +110,7 GW nel 2022). Il 91,2% dell’espansione è avvenuta in Cina (+216,9 GW) e India (+9,7 GW). Anche il Giappone aggiunti 4,0 GW, in lieve diminuzione rispetto al 2022. Al di fuori dell’Asia, gli Stati Uniti hanno aggiunto 24,8 GW di energia solare capacità nel 2023, Germania e Brasile hanno aggiunto 14,3 GW e 11,9 GW rispettivamente.

Energia eolica: con un incremento di 116,0 GW nel 2023, la crescita dell’energia eolica ha visto il suo maggiore incremento negli ultimi dieci anni. La Cina ha rappresentato quasi i due terzi di questa espansione (+75,9 GW) e capacità negli Stati Uniti è aumentata di 6,3 GW.

Biomasse: l’espansione della capacità della bioenergia è rallentata nel 2023 (+4,4 GW rispetto al +6,4 GW nel 2022). Capacità bioenergetica in Cina è aumentata di 1,9 GW e altri paesi con i maggiori incrementi sono stati il Giappone (+1,0 GW), il Brasile (+0,4 GW) e Uruguay (+0,3 GW).

Al momento, la Cina ha costruito il più grande sistema di alimentazione elettrica e di generazione di energia pulita del mondo (lo dico per gli alunni di terza elementare: ciò non significa che le sue produzioni basate sul carbone e gli idrocarburi non inquinino), e le sue nuove tecnologie energetiche e i livelli di produzione di apparecchiature e di veicoli a nuova energia, batterie al litio e prodotti fotovoltaici, sono tra i leader mondiali.

Pechino ospita fino a domani l’International Auto Show. Ci sono 278 nuovi modelli in mostra, ma Tesla non ha partecipato. Non partecipa alla fiera perché non lancia un nuovo modello da molto tempo. Di fronte a un ambiente competitivo in cui i marchi nazionali di veicoli a nuova energia lanciano uno dopo l’altro nuovi prodotti e nuove funzionalità, Tesla si trova in svantaggio.

Con la visita in Cina dei giorni scorsi, Musk spera di cooperare ulteriormente con la Cina nel campo della guida autonoma. Tesla ritiene che questo sarà un nuovo punto di crescita per l’industria dei veicoli elettrici.

Draghi, Letta e altri, invece di parlare di competizione e dazi, ragionassero in termini di cooperazione (la storia delle Repubbliche marinare nei loro rapporti con l’oriente dovrebbe insegnare qualcosa), sempre che i loro amici di Washington e quelli di Wall Street glielo consentano.

giovedì 2 maggio 2024

Basta la parola

 

In un momento storico in cui, ovunque nel mondo, comprese le democrazie ritenute più immuni alla peste fascista, l’estrema destra si sta affermando come un’alternativa politica accettabile, quando non è già al potere, si sta banalizzando pericolosamente la realtà storica del fascismo, la sua ideologia, i suoi attori, i crimini e le atrocità da loro commesse.

Più ancora che attraverso certe smargiassate mediatiche, ciò avviene in modo perfidamente subliminale. Piaccia o no, il rifiuto di prendere una chiara posizione contro il fascismo è gravido di conseguenze. La negazione impone la sua legge nella memoria collettiva. Fa anche parte di un modo molto contemporaneo di condurre il dibattito, o meglio di chiuderlo.

E invece è opportuno ricordare l’intervista di Filippo Focardi a De Felice (La guerra della memoria, Laterza), il quale auspicava una storicizzazione del fascismo (“possiamo ragionare, informarci, parlare del fascismo con più serenità”), implicando il superamento del mito antifascista e una riforma istituzionale che deve comportare l’abolizione delle norme costituzionali che vietano la ricostruzione del partito fascista.

Molti credono che il fascismo sia come la cavalleria nel Don Chisciotte, ossia che non tornerà più. Si dice che nelle sue concretizzazioni storiche non risponda più a una realtà come quella odierna, dunque che la parola è sopravvissuta alla cosa. Si sbagliano oggi come allora:

“Il fascismo, come ordine politico, è finito: le sue strutture esteriori, le colonne di cartapesta e gli archi di falsa antichità, lo sappiamo, non torneranno mai più. [...] Ma resta l’usanza sotterranea; circola, serpeggia, fermenta: alimenta altri furti, incoraggia altre prepotenze, dà origine ad altre oppressioni” (Piero Calamandrei, Per la storia del costume fascista, Il Ponte, 1952, VIII/10, p. 1337-1348).

I fascisti non sono scomparsi da un giorno all’altro, la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, dove esistono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia sociale. Un “sommerso” che ha sempre guardato all’esperienza fascista in maniera indulgente, addirittura benevola, che si alimenta di meschinità mentale, egoismo e chiusura. L’anacronismo è solo apparente, il fascismo va oltre l’epoca che lo ha generato ed è poco compreso perché poco conosciuto e intanto guadagna terreno.

Meloni e i suoi camerati hanno avuto la capacità, a loro congeniale, di opporsi a tutti i governi che si sono succeduti dal 2012. Facendo leva sul malcontento sociale, sono tornati al potere senza orbace e sfruttando una legge targata Pd che è una combinazione di voto proporzionale e maggioritario, che dà un premio significativo alle coalizioni.

Come disse Almirante, bisogna imparare ad “essere fascisti in democrazia”. Prendono le distanze dagli aspetti più ignominiosi del regime fascista, in particolare dalle leggi razziali e dalla guerra (ma il razzismo non è un inciampo e la guerra non è un incidente, sono lo sbocco naturale del fascismo), ma per il resto si trascinano dietro la velenosa eredità, piena di contraddizioni, di un modo di pensare e di sentire, una serie di cliché culturali.

Rimozioni, revisioni, negazioni, fanno gargarismi con parole tese a ingannare avversari e contradditori. E, quando queste parole mancano o non bastano, ne inventano di nuove. Anche se non di rado raggiungono l’apice del ridicolo, si tratta innanzitutto di fellonia. Ma non ci si può sbagliare, nonostante i tailleur e le cravatte Armani sono proprio loro.

La XII disposizione transitoria e finale della Costituzione vieta la riorganizzazione del partito fascista. La conseguente legge n. 645/1952 non impedisce a chicchessia di dichiararsi fascista e perfino di esprimere una difesa elogiativa del fascismo. Per paradosso esiste da quasi ottant’anni un partito neofascista in Parlamento, ma nessun personaggio di spicco di questo partito, almeno di recente, ha avuto il coraggio di dichiararsi pubblicamente fascista.

Massimo Cacciari sostiene che la richiesta di pentimenti e di conversione è odiosa. Perfettamente d’accordo, nessun pentimento e men che meno richieste di conversione. Ma la richiesta c’è perché personaggi che ricoprono le più alte cariche istituzionali non si dichiarano apertamente per quello che sono e in ciò in cui credono, senza escamotage verbali. Non si tratta di un semplice dibattito semantico: come non cogliere un vulnus nella reticenza di questi personaggi? La domanda è importante.

Non si chiede loro di dichiararsi antifascisti perché non lo sono, né di purgarsi con l’olio di ricino, ma con la dolce Euchessina. Basta la parola: fascisti.

mercoledì 1 maggio 2024

Attrezzi di lavoro

 

Buon Primo Maggio. Piove a dirotto, ma di per sé non è un fatto straordinario. Che piova quasi ininterrottamente da febbraio forse un po’ anomalo lo è. Sì, l’ho sentito dire: la corrente del golfo del Messico ha trovato in mezzo all’Atlantico un vortice ciclonico che le ha impedito di raggiungere il suo amore nell’Artico.

Siamo tutti esperti di qualcosa, come una mia parente che fa la diagnosi a tutti: “non sono un medico, ma penso ...”. Ma pensasse ai cazzi propri. Non che la “scienza” sia molto meglio. La questione della verità e della menzogna. Anche sul clima. Ovvio che assistiamo a un cambiamento accelerato, quando mai s’è visto il riscaldamento acceso a maggio? Anche ai primi di giugno s’è per questo, qualche anno fa.

Se un “esperto” onesto dovesse dire “non lo so” in TV, non lo inviteranno a tornare. Ma un esperto onesto non si fa vedere nella TV spazzatura. La scienza si basa sul dubbio permanente. Questa oscillazione induce una certa confusione nella società, e dunque assistiamo, come durante il Covid, a delle vere e proprie pagliacciate.

È vero che la ricerca consiste nel porre domande, ma dopo un certo tempo si raggiunge un consenso, quantomeno all’ingrosso. Le controversie sono il carburante della scienza (vedi Pasteur e Koch) e la scienza è un modo collettivo per porre fine alle controversie. Ma in televisione si vedono solo tifosi. E anche noi tifiamo per questo o quello.

Non parliamo poi se tali controversie dovessero anche solo sfiorare questioni religiose (Galileo, Darwin, per citare famosi) o di natura politico-ideologica. In genere, per formarsi un’opinione, l’uomo medio spesso mette al primo posto il buon senso. Sappiamo però che il buon senso è fuorviante, altrimenti continueremmo a credere che il Sole giri attorno alla Terra.

Bisognerebbe dirlo anche a quelli che dicono di essere culo e camicia con la “realtà”. Te lo dimostrano dicendo che due più due fa sempre quattro. Dipende però da dove e come hai ricavato quei numeri. Se per esempio il “valore aggiunto” lo metti in rapporto con tutto il capitale, viene fuori che anche una biella, per il semplice motivo che si muove, produce valore. E dunque se qualcuno sfrega l’uccello al padrone, anche quel movimento produce “valore” (*).

Dicevo che la scienza consiste nel porre domande. Tuttavia la scienza non può rispondere a tutte le domande che ci poniamo. Ad esempio, cos’è una società giusta o come vivere liberi. Queste non sono domande su cui deciderà la scienza.

Il valore di verità delle idee nate in un particolare contesto sociale e ideologico non potrà mai essere emancipato da questo contesto senza una lotta ideologica. Ecco perché, ripeto per l’ennesima volta, la lotta ideologica è la lotta più importante. Non per far cambiare idea ai padroni e ai loro mantenuti (impossibile), ma per far uscire noi dalla caverna nella quale ci tengono incatenati con le loro bugie e i pregiudizi ripetuti continuamente e che creano dei bias cognitivi.

Cari lavoratori e care lavoratrici, in questa bella società il nostro lavoro è equiparato a quello di una biella o di qualsiasi aggeggio della cassetta degli attrezzi. E dunque pazienza se qualcuno di noi dovesse morire o diventare invalido; come per gli attrezzi di lavoro, se ne compra un altro. Come per gli attrezzi di lavoro, se non servono più, diventiamo inutili. I padroni, loro mai.

(*) «Smith aveva sostanzialmente ragione col suo lavoro produttivo e improduttivo, ragione dal punto di vista dell’economia borghese. Ciò che gli viene contrapposto dagli altri economisti è o sproloquio (per esempio Storch, Senior ancor più pidocchiosamente), e cioè che ogni azione produce comunque degli effetti, per cui essi fanno confusione tra il prodotto nel suo senso naturale e in quello economico; secondo questo criterio anche un briccone è un lavoratore produttivo poiché, mediatamente produce libri di diritto criminale; (per lo meno questo ragionamento è altrettanto giusto per cui un giudice viene chiamato lavoratore produttivo perché protegge dal furto). Oppure gli economisti moderni si sono trasformati a tal punto in sicofanti del borghese da volerlo convincere che è lavoro produttivo se uno gli cerca i pidocchi in testa o gli sfrega l’uccello, giacché quest’ultimo movimento gli terrà più chiaro il testone — testa di legno — il giorno dopo in ufficio» (Grundrisse, MEOC, XXIX, p. 203).

martedì 30 aprile 2024

Otto zeri

 

Il dottor Stranamore era un “documentario”, non un’opera di finzione.

Con la fine della Guerra Fredda molti pensavano che il mondo avesse superato la politica del rischio nucleare delle grandi potenze. Dopo la Guerra Fredda, sia gli americani che gli europei hanno perso, in larga misura, la paura per la guerra nucleare. Almeno inconsciamente sono arrivati a credere che questo fosse un vecchio problema, qualcosa che abbiamo superato con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica.

In realtà, negli ultimi anni, i pericoli di un’escalation nucleare sono aumentati, e non diminuiti. In parte ciò è dovuto al fatto che siamo diventati sprezzanti nei confronti di questi pericoli. In parte ciò è dovuto al fatto che molte delle linee rosse che erano state stabilite nel periodo della Guerra Fredda per gestire i pericoli di quel tipo di escalation sono scomparse o sono diventate labili.

Non c’è quel tipo di dialogo come ai tempi di Kennedy e Krusciov che permise di trovare una via d’uscita dalla crisi missilistica cubana. In questo momento, le due parti non si parlano. Non esistono le misure necessarie per prevenire l’escalation: l’allora Anatoly Dobrynin, ambasciatore sovietico durante la crisi missilistica cubana, è oggi Anatoly Antonov, l’ambasciatore russo a Washington, quasi una persona non gradita.

Gli Stati Uniti, nella loro arroganza, hanno perso l’abitudine allo scambio diplomatico durante il periodo successivo alla Guerra Fredda. Non c’era alcun potere paritario nel mondo, nessun’altra potenza si avvicinava al grado di potenza militare ed economica degli Stati Uniti.

Una potenza unipolare che riteneva di non dover stringere accordi, di dover scendere a compromessi con altri paesi. La tendenza era quella di dire agli altri che cosa andava fatto e quando si rifiutavano giungeva subito la minaccia. Washington ha rinunciato alla diplomazia che sarebbero normalmente richiesta in un ordine mondiale caratterizzato da maggiore equilibrio.

Negli Stati Uniti la Russia è diventata una questione di politica interna e non di politica estera. C’è la convinzione di avere a che fare con un problema di deterrenza. Il modo migliore per trattare con la Russia è mostrare la propria determinazione, schierando truppe e armamenti ai suoi confini, facendole capire a cosa va incontro se non si tirerà indietro.

È sulla base di tale strategia e mentalità che si è arrivati alla guerra in Ucraina. Si è stabilita così una spirale di escalation, e, contrariamente a quanto si può pensare, una simile spirale aggrava la situazione. Con il recente nuovo finanziamento per l’invio di armi a Kiev si è raggiunto un punto estremamente pericoloso.

È ovvio che entrambe le parti vogliono evitare la guerra nucleare, ma ci sono diversi modi in cui ciò può accadere. Uno è accidentale: più a lungo va avanti la guerra, più gli Stati sono in essa invischiati, più sei in quella situazione, più alte diventano le possibilità di incidente.

Il sostegno militare all’Ucraina potrebbe diventare così determinante sul campo di battaglia da far decidere a Putin di non avere altra scelta se non quella di attaccare quel sostegno. Finora si è astenuto dal farlo, o è intervento su scala relativamente limitata nell’interdizione delle forniture militari occidentali destinate al fronte ucraino. Certamente non ha attaccato le fonti di tale sostegno, ma potrebbe vedersi costretto a farlo.

Se la Nato entra sempre più nel conflitto, posto che la Russia non è disposta a contemplare la sconfitta, la guerra si trasformerebbe rapidamente in livelli nucleari tattici e poi strategici. Il deterrente nucleare russo ha lo scopo di scoraggiare le minacce esistenziali alla Federazione russa, indipendentemente dal fatto che siano nucleari o minacce convenzionali.

Non comprendere questo significa non avere chiaro come possa evolvere realmente lo scenario di guerra in Europa. Significa non comprendere che in questa guerra non è coinvolta la Serbia, tanto per dire, ma è in gioco la stessa sopravvivenza della Federazione russa, vale a dire una delle superpotenze nucleari del pianeta.

Oggi, a differenza del periodo della Guerra Fredda, quando in realtà le uniche armi che potevano rappresentare una minaccia strategica alla sopravvivenza degli Stati Uniti o dell’Unione Sovietica erano solo le armi nucleari, questo non è più vero. Oggi, le armi convenzionali possono, attraverso il loro puntamento di precisione e il loro potenziale esplosivo, rappresentare il tipo di minaccia che solo i missili nucleari rappresentavano.

Mi sembra chiaro che di fronte a una tale situazione, auspicata da Kiev, la Russia si vedrebbe costretta a ricorrerebbe al nucleare per reagire. Continuare ad alimentare questa guerra e introdurre armi sempre più potenti e di più lunga gittata, è una formula per una rapida escalation fino a un conflitto nucleare strategico.

Quando c’è un attacco in arrivo, questo è rilevato dal sistema di allarme. Ciascuno dei leader coinvolti, i presidenti degli Stati Uniti e della Russia, non si accontenterebbe di aspettare per vedere l’effetto di quegli attacchi in relazione alla propria capacità di ritorsione. Ciascuna parte agirebbe molto rapidamente, in modo di limitare i danni alla propria parte. L’incentivo è quello di fare le cose in grande, non di sedersi e aspettare e sperare che l’altra parte stia conducendo una sorta di attacco dimostrativo.

Sarebbe una cosa molto difficile da gestire e con pochissimo tempo per prendere decisioni irrevocabili. Queste armi possono raggiungere i propri obbiettivi in pochi minuti, e il tempo in quei frangenti passerebbe in fretta come non mai. In quei momenti cruciali, i responsabili politici e militari in quale stato psicologico ed emotivo si troveranno? Saranno sobri, saranno assonnati, saranno preparati e sufficientemente informati e ben consigliati?

Chi sottovaluta il rischio nucleare, ignora come sia diventato delicato il meccanismo d’innesco della risposta e come questa non si attivi necessariamente con una delle tre valigette Zero Halliburton rivestite in pelle (spetta al Centro di Comando del Pentagono avviare la procedura).

Sembra una barzelletta, ma dal 1962 al 1977 il codice di lancio dei missili nucleari era composto semplicemente da otto zeri! Oggi, i codici a disposizione del presidente, e che poi permettono al Pentagono di lanciare missili, non solo sono generati automaticamente dalla NSA, ma compaiono anche, sul cookie, tra altre serie di numeri. Il presidente deve quindi sapere dove si trova esattamente il suo codice. Una precauzione in più in caso di furto della carta (il “biscotto” che porta con sé).

Possiamo immaginarci Biden o Trump, mentre si stanno ancora infilando i calzoni, con decisioni da cui dipende la sopravvivenza stessa dell’umanità e alle prese con questa procedura? Questa è solo letteratura, roba da film. Infatti, Bill Clinton aveva smarrito il biscotto per diversi mesi nel 2000, e i presidenti Gerald Ford e Jimmy Carter lo lasciarono entrambi in un abito che andò in tintoria. Nel marzo 1981, dopo l’attentato a Ronald Reagan, il militare incaricato di portare la valigia non riuscì a salire sull’ambulanza. Raggiunse rapidamente il presidente in ospedale e, una volta lì, si rese conto che mancava il biscotto. La piccola tessera è stata infine ritrovata in una delle scarpe del presidente, in sala operatoria.


lunedì 29 aprile 2024

La "minaccia cinese"

 

Per gli eroi del libero (?) mercato non si è mai abbastanza capitalisti. Nella Cina odierna, quello che oggi viene definito “socialismo con caratteristiche cinesi” non è altro che il vecchio capitalismo, in cui la stragrande maggioranza delle persone nella società lavora e il loro lavoro è sfruttato da una piccola minoranza di proprietari.

La Cina ha fatto uscire dalla secolare povertà più nera centinaia di milioni di persone, e non si può negare che il tenore di vita sia aumentato significativamente negli ultimi decenni. Nonostante ciò, la disuguaglianza è enorme. Jack Ma, il miliardario fondatore di Alibaba (l’equivalente di Amazon in Cina), con un patrimonio netto di oltre 40 miliardi di dollari, non si è arricchito rivendendo le mele che aveva lucidato per qualche mercato locale. Si è arricchito allo stesso modo di Jeff Bezos: sfruttando i lavoratori e facendo amicizia nelle alte sfere.

Se la storia cinese ha insegnato qualcosa (chi digita sui social e altri media parlando di Cina ne sa realmente qualcosa?), è che le persone normali e comuni hanno la capacità di lottare in modo sorprendente. Dalla ribellione antimperialista dei Boxer all’ondata di scioperi di massa del 1927, dalla guerra antigiapponese alla rivoluzione del 1949, fino alle proteste di piazza Tiananmen del 1989, il popolo cinese si è dimostrato capace di sollevarsi e reagire contro difficoltà apparentemente insormontabili.

C’è un articolo sul Sole 24 ore di ieri (L’asse tra Russia e Cina schiaccia l’Occidente) che ci racconta il ruolo economico della Cina e perché Washington la vede come una “minaccia” (e vuole cancellarla dalla carta geografica). Comincia così: “Pechino, per risollevare le sue fortune economiche, sta inondando il mondo di prodotti a basso costo”. Non sono prodotti a basso costo, sono soprattutto prodotti di alta tecnologia a prezzi competitivi. I nostri eroi del libero mercato in regime di monopolio non hanno alcuna visione storica di ciò che sta avvenendo realmente e sul perché.

La retorica della sovraccapacità cinese, anzitutto nelle nuove tecnologie e nell’industria dei veicoli a nuova energia (NEV) non è altro che una copia del principio “America First”. Il rapido sviluppo dell’industria verde cinese mette a dura prova la forza e lo status degli Stati Uniti, e la competitività della Cina viene tradotta in una “minaccia alla sicurezza” per il mondo libero, vale a dire gli Stati Uniti, che si vedono sfuggire la loro posizione di monopolio di lunga data nella catena industriale globale.

Un dato che non c’è nell’articolo citato: secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, la domanda globale di veicoli a nuova energia nel 2030 raggiungerà i 45 milioni di unità, ovvero 4,5 volte quella del 2022, e allo stesso tempo, la domanda globale di nuovi impianti fotovoltaici raggiungerà gli 820 gigawatt, ovvero circa 4 volte quella del 2022.

Lo sviluppo della capacità produttiva verde è appena iniziato ed è un mercato ben lungi dalla saturazione, quindi da dove viene la “sovracapacità” cinese? È tipico della mentalità statunitense, quella dei cowboy, reagire con la pistola, considerando la nuova industria energetica cinese con una mentalità di gioco a somma zero e attribuendo i problemi reali alle cause sbagliate.

Per esempio, qualcuno s’è chiesto perché la Tesla Shanghai Gigafactory è il maggiore centro di produzione di Tesla al mondo e con le migliori prestazioni? Aiuti di Stato? Perché che cos’è l’Inflation Reduction Act? Scrive il sito della Casa Bianca che il “Presidente ha

ridefinito la leadership americana nell’affrontare la minaccia esistenziale della crisi climatica [leggi: la minaccia cinese] e ha avviato una nuova era di innovazione e ingegnosità americane per ridurre i costi al consumo e far avanzare l’economia globale dell’energia pulita”. Far avanzare l’economia globale? Ci prendono in giro e ridono di noi.

Dal 25 aprile al 4 maggio si tiene la 18esima edizione del Beijing International Automotive Exhibition (Auto China 2024). Sono presenti tutti i grandi marchi internazionali, compresi quelli che un tempo erano italiani, dunque compresa la Lamborghini (gruppo Volkswagen).

Ieri era presente Elon Musk, a colloquio col primo ministro Li Qiang. Tesla ha venduto circa 600.000 veicoli elettrici nel 2023 in Cina, cedendo la sua posizione di principale venditore di veicoli elettrici in Cina alla cinese BYD. Il tasso di penetrazione dei NEV passeggeri ha superato il 50% nella prima metà di aprile, superando i tradizionali veicoli a benzina. Tutto ciò avviene mentre in Italia chi possiede un’auto elettrica non sa mai quando è in strada se troverà una colonnina attiva per la ricarica.

Con una carenza di capacità produttiva di alta qualità, il mondo ha bisogno di maggiore cooperazione. Gli Stati Uniti hanno di mira solo la loro leadership, non la coordinazione degli interessi. L’hanno sempre fatto per l’energia, per l’elettronica, per tutto ciò che riguarda le nuove tecnologie. Solo che ora si trovano a dover affrontare un concorrente di grande caratura mondiale, e utilizzano deliberatamente la “minaccia cinese” per spiegare tutto, cercando di risolvere i problemi contenendo la Cina.

Ed è esattamente ciò che fanno con la Russia, dividendola dall’Europa. La quale Europa pensa alle elezioni, e in Italia a quale nome mettere nei simboli delle liste elettorali.

domenica 28 aprile 2024

Prepariamoci

 

Che cosa dicevano gli aristocratici dell’ancien régime (e i loro manutengoli)? Che quello vigente era il miglior sistema sociale possibile. La borghesia e il proletariato erano classi necessarie ma pericolose. Ed infatti la borghesia, non appena le fu concessa l’occasione, divenne sommamente rivoluzionaria. Non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”, per dirla con Marx.

Instaurò un regime di terrore e mandò al patibolo migliaia di aristocratici e anche di plebei. Joseph Fouché, il futuro ministro di polizia di Bonaparte, venne soprannominato il “mitragliatore di Lione”. In sostituzione della ghigliottina, troppo lenta, usava il cannone a mo’ di mitraglia. Perfino quel terrorista di Robespierre lo accusò delle misure eccessivamente dure. Le rivoluzioni non sono un pranzo di gala, disse qualcuno.

È lo stesso refrain dei liberali di oggi: quello vigente è il miglior sistema sociale possibile. Vige la libertà e la democrazia, che altro volete? Ogni tanto fa capolino qualche guerra, ma esse sono combattute proprio in nome e per conto della “democrazia”. Da esportazione, come le vecchie sigarette.

Il determinismo teorico di questi soggetti equipara fascismo, nazismo, comunismo, stalinismo, bonapartismo e quant’altro alla voce “totalitarismo”. Tra l’altro trascurando che ogni rapporto sociale è stato trasformato in un puro rapporto di denaro e non vi è nulla di più totalitario del potere del denaro, cioè del capitale.

Non dobbiamo dimenticare che la verità è sempre concreta e che la storia ci parla di tutt’altro di una semplicistica equiparazione (che lasciamo volentieri agli sciocchi) di “totalitarismi”. Chiunque operi nell’ambito della teoria utilizzando categorie astratte è condannato a una cieca capitolazione di fronte ai fatti.

Che cosa sia stato il comunismo in versione novecentesca, ossia in versione stalinista-maoista, lo sappiamo. Ed è comprensibile che i “liberali” battano su quel tasto per fare di ogni erba un fascio: non gli resta altro per la loro propaganda. Dunque non vale la pena addentrarsi in distinzioni e precisazioni.

Quanto al fascismo originario, è un movimento di origine plebea, e viene utilizzato dalla borghesia italiana, profondamente opportunista, per regolare i conti con i partiti di sinistra, con l’insorgenza operaia e contadina (ricordiamoci che nel primo governo Mussolini c’erano dentro tutti i partiti “democratici”). In Germania, le motivazioni su cui si basa l’ascesa del nazismo saranno sostanzialmente diverse e prenderanno vigore con la crisi economica e parlamentare degli anni Trenta.

Quanto al capitalismo tedesco, era nato con un certo ritardo e si è trovato privato dei privilegi derivanti dalla primogenitura (stessa cosa che accadde all’Italia). Si trovò di fronte alla necessità, in un momento in cui il mondo intero era già diviso, di conquistare i mercati esteri e di procedere ad una nuova divisione delle colonie, già spartite. Al capitalismo tedesco non era dato di nuotare nella direzione della corrente, di abbandonarsi al libero gioco delle forze. Solo la Gran Bretagna ha potuto permettersi questo lusso, e solo per un periodo storico limitato.

L’intera vicenda storica della Germania si sviluppa da queste premesse. Il capitalismo tedesco non poteva permettersi il “senso della misura” che caratterizza il capitalismo britannico e, in parte, quello francese, saldamente radicati e dotati di riserve sotto forma di ricchi possedimenti coloniali. Per la Germania sarà un concatenarsi di vicende (vale la pena ricordare che fu grazie alla socialdemocrazia che il governo Brüning ottenne il sostegno del Parlamento per governare attraverso leggi di emergenza) in cui il nazismo trova una sua chiara ragion d’essere. E ciò che vale per la Germania vale per l’Italia, la Russia, eccetera.

Equiparare Mussolini, Hitler, Franco, Salazar, Chang Kai-shek, Masaryk, Brüning, Dollfuss, Pilsudski, Primo de Rivera, il re serbo Alessandro, Severing, MacDonald, ecc., è sbagliato e fuorviante. Gli interessi della classe dominante non si sono mai adattati alla democrazia “pura”, che non esiste, talvolta aggiungendovi qualcosa e talvolta sostituendola con un regime di aperta repressione. Questi regimi si esplicano ognuno a modo loro, necessariamente in tutti i tipi di situazioni transitorie e intermedie.

Allo stesso modo è fuorviante equiparante i fascistoidi di oggi al fascismo mussoliniano, prescindendo da certe figure caricaturali, slogan e atteggiamenti nostalgici (*). Quella che è stata definita come democratura ha motivazioni e forme sostanziali molto diverse. Agisce in una situazione sociale e politica, interna e internazionale, molto articolata e contraddittoria, come dimostra in modo evidente il regime ungherese (e ciò dimostra sufficientemente l’importanza di distinguere la forma di potere orbaniana da quella fascista classica).

Dunque giudichiamo il fascismo quale è oggi, senza l’orbace e l’olio di ricino. Per esempio, il mercato del lavoro: buono, giusto e duro, quello in cui il lavoro si vende e si compra come le patate. L’uberizzazione della società che ha smantellato le tutele, messo la propria firma sullo Jobs act, che ha tagliato la sanità, dato solidi alle scuole private, ingrassato le banche e migliaia di gestori privati di acqua, luce, gas, eccetera. 

Il governo Meloni (la cui vera base politica è l’ondivaga piccola borghesia), così come i governi che l’hanno preceduto e quelli che lo seguiranno, è lo strumento dell’ordine europeo e atlantico. Agisce in una situazione sociale e politica interna di crisi e contrapposizione, latente ma non assente, laddove il parlamento ha rinnegato sé stesso, un parlamento del quale i governi sempre più volentieri fanno a meno. Man mano che gli esecutivi diventano indipendente dalla società, aumenta la disaffezione e l’astensione dal voto (i media tendono a dare l’interpretazione opposta!).

La reiterata riproposizione di “riforma costituzionale”, il coniglio dal cilindro, ha il solo compito di adeguare le istituzioni statali alle esigenze e alle comodità di esecutivi sempre più autocratici. Il grande capitale cerca vie legali che gli consentano di imporre ogni volta alla nazione il miglior arbitro con il consenso forzato di un parlamento delegittimato ed esautorato. Le forme essenziali della democrazia restano, ma sostanzialmente e progressivamente rese inerti.

Tutto ciò avviene nel quadro della contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive dell’umanità da un lato, il prevalere dei grandi monopoli e degli interessi degli Stati nazionali dall’altro. Per l’Occidente è finita un’epoca di sviluppo pacifico e ordinato (a spese degli altri), dunque volenti o nolenti dovremo adattarci alle esigenze di Washington, che sono mutate e ci preparano alla guerra.

(*) Ho apprezzato Massimo Magliaro (personaggio a me altrimenti inviso “a pelle”), che ha avuto il coraggio di dire di essere fascista. Il coraggio di un momento, per poi tornare ad essere pavido come tutti quelli che per opportunità mascherano ciò che sono e pensano. Nel dichiararsi fascisti non s’incorre in alcun reato e spesso, secondo sentimento diffuso, nemmeno in una qualsiasi condanna morale.