martedì 23 maggio 2017

I cannoni di Mehmet II


Il dibattito politico, non solo in Italia ma soprattutto in questa disastrata provincia, è etereo quanto poteva esserlo quello teologico nel momento in cui i possenti cannoni di Mehmet II sgretolavano le mura di Costantinopoli: elezioni, legge elettorale, corruzione, intercettazioni, muri e migrazioni, terrorismo. Quello economico non va meglio: austerità, tassazione, spesa pubblica, deflazione, quantitative easing, banche, euro sì o no oppure nì, startup, tagli e frattaglie.

Dei cannoni di Mehmet II non frega nulla a nessuno. Eppure sono lì, se ne vedono gli effetti che essi provocano sui bastioni sempre più sguarniti delle nostre roccaforti metropolitane, ma tant’è.

Nessuno che si prenda la briga, non dico di analizzare (compito impossibile in una società largamente spettacolarizzata), ma almeno di citare l’esistenza dei cannoni di Mehmet II, vale a dire la legge dell’aumento della composizione organica del capitale, la quale va analizzata non solo dal lato del valore, solo come aumento del capitale costante relativamente al capitale variabile, ma anche dal lato della materia, come grandezza fisica dei mezzi di produzione. Non è il caso che ripeta i dettagli della sporca faccenda, godiamoci le chiacchiere sulle sorti m&p della tecnologia.


Uno degli effetti che vengono a mostrarsi è un sempre più minaccioso pauperismo di massa al quale si pensa di far fronte con sussidi alla povertà. Non si vuol comprendere, o si finge, che non si tratta semplicemente di mettere in campo delle risorse sempre crescenti anno per anno, ma di far fronte a un fenomeno che andrà prendendo dimensioni sempre maggiori, incontrollabili, laddove una quota sempre minore di forza-lavoro troverà impiego, a fronte di una quota di plusvalore che cresce sempre meno del capitale anticipato e dunque a fronte di una fuga sempre più massiva di capitali dalla produzione, i quali cercano di trovare riparo e ristoro in quel gigantesco groviglio di speculazione finanziaria che prelude ad immani disastri.

4 commenti:

  1. I mutamenti avvenuti nelle politiche economiche a partire dagli anni ’70, contrariamente a quanto recita una ‘vulgata’ diffusa nella sinistra, la quale, avendo contribuito a determinarli, non può riconoscere la paternità delle conseguenze che ne sono derivate, hanno, come tutti i fenomeni storici, cause ed effetti precisi. Ad esempio, la priorità accordata al controllo dell’inflazione (anziché al pieno impiego) è frutto di una scelta compiuta dal laburismo inglese, poi imitato dal resto della sinistra europea. Parimenti, l’origine del debito pubblico è un altro esempio di falsa spiegazione (per altro funzionale agli interessi dominanti), poiché i difensori di quegli interessi (tanto al governo quanto all’opposizione) si guardano bene dal dire che l’origine di tale debito non sta dal lato delle uscite, ma dal lato delle entrate. Queste ultime, grazie alle misure di detassazione dei profitti e al vero e proprio piano di sabotaggio dello ‘stato sociale’ posto in essere a partire dagli anni ’90, sono andate progressivamente diminuendo, talché il rapporto entrate-PNL da allora non è più aumentato. Orbene, come dimostrano i fatti precedenti, la spesa sociale, lungi dall’essere un regalo della fiscalità generale, rivela sempre più la sua vera natura di variabile dell’accumulazione del capitale in una fase di declino. D’altro canto, la storia insegna che le epoche di aumento della spesa pubblica e di pieno impiego hanno coinciso con la I e con la II guerra mondiale, mentre sia la storia che la cronaca ci insegnano la funzione (non solo politica ma anche e soprattutto) economica del permanente stato di guerra in cui (e di cui) vive la superpotenza mondiale. In effetti, sia la destra che la sinistra, sul piano teorico, sono incapaci di cogliere il nesso tra autovalorizzazione e capitalismo: quel nesso che spiega come mai la spesa pubblica incontra un limite nel momento in cui la redditività del capitale diminuisce, quel nesso che spiega come mai la domanda complessiva (= beni di consumo + beni di investimento) non aumenta e come mai la riduzione dei salari (sia diretti che indiretti) serve a questo preciso scopo, quel nesso che spiega come mai la costante di tutte le manovre finanziarie è sempre questa, quel nesso che esprime la tendenza al declino del saggio di profitto, iniziata per l’appunto negli anni ’70 e tipica dell’intera economia mondiale. La conclusione è che, rispetto alla crisi economica mondiale, non esistono né una fuoriuscita di destra (il liberismo puro è solo un’utopia reazionaria) né una fuoriuscita di sinistra (il keynesismo puro è un impraticabile sogno riformista). Infatti, le politiche economiche seguite dai governi borghesi (con o senza la partecipazione dei riformisti) non sono né carne né pesce, ma si limitano molto empiricamente a mescolare e dosare in misura variabile (ma dipendente, in buona sostanza, dalla natura di classe del blocco sociale di consenso) elementi propri di una politica di sostegno dell’offerta (= liberismo) con elementi propri di una politica di sostegno della domanda (= keynesismo). Gli ultimi decenni hanno posto fine perciò ai miti della sinistra (controllo sociale degli investimenti, salario come variabile indipendente, modello alternativo di sviluppo), dimostrando che il capitalismo non è controllabile. Ecco perché la sinistra non propone nulla, se non una versione edulcorata del programma della destra. Ecco perché, data la relazione esistente fra democrazia, capitalismo e piena occupazione, relazione in virtù della quale i suddetti termini, come la storia e l’economia del nostro secolo dimostrano, possono procedere soltanto a due a due, i margini sempre più ristretti della coppia ‘democrazia-capitalismo’ rendono matematicamente inevitabile il dilemma, che solo la lotta fra le classi potrà sciogliere, fra la coppia ‘capitalismo + piena occupazione’ (= fascismo) e la coppia ‘democrazia + piena occupazione’ (= socialismo).

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    1. il tema è stato affrontato in questo blog in lungo e in in largo, per quanto ne sono capace, e cercando, per quanto possibile, di renderlo con un linguaggio potabile ai più. concordo sostanzialmente con quanto lei dice, salvo il fatto che a riguardo del noto "dilemma" mi pongo molte domande.
      La ringrazio per il contributo.

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  2. Si vabbe mo': “un’oligarchia dinamica incentrata sulle grandi ricchezze ma capace di costruire il consenso e farsi legittimare elettoralmente tenendo sotto controllo i meccanismi elettorali”.

    Nun è più semplice dire che: "Pochissimi hanno tutto il denaro e fanno mpò come cazzo se pare della vita di tutti gli altri" ?

    P.S. Per la precisione l'1% degli esemplari della specie Homo Sapiens Sapiens possiede il 99% della ricchezza della Terra e 8 (dico otto) esemplari della specie Homo Sapiens Sapiens possiedono una ricchezza equivalente a quella di 3,6 miliardi di esemplari della specie, cioè la metà di quelli presenti sulla Terra)

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    1. Caro Giamba, lei riporta una frase tra virgolette, la quale appartiene a Luciano Canfora, da me citata in un commento ad un post di Malvino. Dunque non qui, perciò non capisco perché lei non pubblichi il suo commento in risposta al mio nel blog di Malvino.
      In tale sede Le risponderò gentilmente e volentieri. Coraggio.

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