Ce
la prendiamo con i ricchi, ma se fossimo noi i ricchi, come ci comporteremo? Ci
sono quelli, la stragrande maggioranza, che sostengono che il problema dei
problemi riguarda la distribuzione della ricchezza attraverso una maggiore,
rigorosa e progressiva tassazione. Lasciando ovviamente intonso il modo in cui la
ricchezza viene prodotta e accumulata. Sono quelli, molto realisti e
pragmatici, che vogliono “salvare” il sistema basato sulla schiavitù salariata,
alternativa dal quale non esiste.
Quel
bravo e intelligente ragazzo che risponde al nome di Gilioli, nel suo blog
scrive:
«… se i giganti digitali decuplicano i
profitti con un decimo dei dipendenti (e se questa è la tendenza) solo la
tassazione di questi profitti e la loro redistribuzione col reddito minimo può
salvare il meccanismo produzione-consumo su cui si regge l'economia.»
Gilioli,
ha costruito la sua carriera su questo tipo di contenzioso, e del resto non si
può chiedere al calzolaio di andare oltre la scarpa.
Questi
signori che invocano la “salvezza” del sistema di sfruttamento su cui regge “il meccanismo produzione-consumo”, fingono di non sapere che per il
capitale il plusvalore è l’unica misura della razionalità di un sistema. I
singoli capitalisti, in quanto tali, siano essi rappresentati individualmente o
come azionisti, sono interessati
solo all’acquisto e allo sfruttamento della forza-lavoro; fuori dal rapporto di
scambio e di sfruttamento ogni costo diventa per loro improduttivo, irrazionale
e dunque assolutamente privo d’interesse.
I
gruppi sociali che consumano senza produrre e senza contribuire in alcun modo
alla realizzazione e alla conservazione del valore, potrebbero senza alcun
inconveniente, per ciascun singolo capitalista, essere tranquillamente soppressi.
Il ragionamento può essere spinto fino al suo estremo limite, restando vero
anche in rapporto a tutti i capitalisti nel loro insieme.
*
La
ricchezza è legata allo sviluppo della produttività sociale del lavoro. Tale
sviluppo si manifesta in due modi:
-
nell’enorme volume delle forze produttive già prodotte, nell’entità del valore
e della massa delle condizioni di produzione che danno luogo alla nuova
produzione e nella grandezza assoluta del capitale produttivo già accumulato;
(ciò
è meno visibile in Italia laddove spesso la struttura produttiva è più frammentata e
l’innovazione tecnica meno presente, per cui si spiega anche che nonostante gli
operai lavorino mediamente per più ore rispetto agli operai di certi altri
paesi, la produttività del lavoro italiano risulti più bassa)
-
in secondo luogo nella relativa esiguità della parte di capitale spesa in
salario in rapporto al capitale complessivo, ossia nella quantità relativamente
modesta di lavoro vivo che è richiesta per riprodurre e valorizzare un capitale
determinato, per la produzione in massa.
Ciò
presuppone nel medesimo tempo la concentrazione del capitale.
Pertanto,
lo sviluppo della forza produttiva, in rapporto alla forza-lavoro impiegata, si
palesa nuovamente sotto un duplice aspetto:
-
innanzitutto nell’incremento del plusvalore, ossia nella diminuzione del tempo
di lavoro necessario che è richiesto per la riproduzione della forza-lavoro;
-
secondariamente nella riduzione della quantità della forza-lavoro (numero degli
operai) che viene impiegata per mettere in opera un capitale determinato.
Questi
due movimenti non solo agiscono simultaneamente, ma si determinano
reciprocamente, sono manifestazioni di una medesima legge. Essi tuttavia agiscono in senso opposto sul saggio del profitto.
La
massa (attenzione: la massa) complessiva del profitto
corrisponde alla massa complessiva del plusvalore e il saggio del profitto è
espresso dalla formula pv : C, laddove pv sta per plusvalore e C per capitale
costante (impianti, macchinari, materie prime, ecc.).
Tuttavia,
il plusvalore come totale è determinato in primo luogo dal suo saggio, in
secondo luogo dalla massa di lavoro contemporaneamente impiegata a questo
saggio o, ciò che significa la stessa cosa, dalla grandezza del capitale variabile.
Da
un lato uno di questi fattori, il saggio
del plusvalore, aumenta, dall’altro lato il secondo fattore, il numero degli operai, diminuisce
in senso relativo o assoluto.
In
quanto lo sviluppo delle forze produttive fa diminuire la parte pagata del
lavoro impiegato, esso accresce il plusvalore aumentandone il saggio; in quanto
tuttavia diminuisce la massa complessiva del lavoro impiegato da un determinato
capitale, esso diminuisce il
coefficiente numerico con cui viene moltiplicato il saggio del plusvalore per
ricavarne la massa.
Andiamo
ad un esempio: due operai i quali lavorassero 12 ore il giorno non potrebbero produrre la stessa massa
di plusvalore di 24 lavoratori che lavorassero solo due ore giornaliere. Sotto
questo rispetto, la possibilità di compensare la diminuzione del numero degli
operai aumentando il grado di sfruttamento del lavoro ha dei limiti
insuperabili; pertanto la caduta del
saggio del profitto può essere ostacolata, ma non annullata.
Con
lo sviluppo del modo capitalistico di produzione diminuisce dunque il saggio
del profitto, mentre la sua massa aumenta unitamente alla massa crescente del
capitale messo in opera. Questo aspetto è stato qui esaminato più volte e anche
recentemente. Ad un determinato livello dell’accumulazione, la scala della
produzione è data tecnicamente, poiché per la sua espansione è necessaria una
quantità definita di capitale, la grandezza del plusvalore che si richiede per
consentire la valorizzazione non è
arbitraria, ma sottoposta a vincoli tecnici.
Le
difficoltà di valorizzazione, nelle fasi storiche di crescita del capitalismo,
si manifestano periodicamente attraverso crisi cicliche. In altre parole,
quando il profitto sociale non è in grado di far fare al capitale il necessario
salto di composizione organica si determina la crisi di sovrapproduzione.
Per
sovrapproduzione di capitale, peraltro, non s’intende sovrapproduzione di merci
(benché la sovrapproduzione di capitale determini sempre sovrapproduzione di
merci) ma sovraccumulazione di mezzi di produzione e sussistenza in quanto
questi possano operare come capitale.
Le
crisi cicliche esprimono periodicamente le difficoltà dell’accumulazione.
Infatti, il plusvalore sociale, se da una parte è insufficiente a valorizzare
l’intero capitale esistente, dall’altra, però è in grado di valorizzarne una
parte. Nella realtà concreta, storica, s’inaspriscono la concorrenza e la
pressione contro la classe operaia e dei salariati in generale per la riduzione
dei salari; i grandi capitalisti divorano quelli piccoli; si formano i
monopoli, la centralizzazione si accentua, fino a superare i confini dei
singoli Stati nazionali (sorgono le multinazionali); interi settori o branche
produttive scompaiono e se ne formano altri; il capitalismo entra nella sua
fase imperialistica, ecc..
Con
tutto questo, le crisi cicliche
rappresentano momenti solo temporanei di risanamento del sistema.
Nel
momento in cui si ristabiliscono (anche se in modo sempre più violento e con
perdite di ricchezza) le condizioni della valorizzazione, il processo di
accumulazione capitalistica riprende, benché a fatica e su una base produttiva
ancor più ristretta, fino a superare il limite oltre il quale il plusvalore comincia nuovamente a ridursi e
la valorizzazione stessa inizia progressivamente a venire meno, approssimandosi sempre più al momento in
cui si arresta.
La
tendenza allo sfacelo del modo di produzione capitalistico, in quanto “tendenza
di fondo”, oggettiva, del capitalismo, si suddivide quindi, in una serie di
cicli (crisi) che appaiono soltanto come deviazioni transitorie dal percorso
che l’accumulazione deve necessariamente compiere, proprio come il processo
naturale di crescita dell’erba che viene interrotto ad ogni falciatura per poi
ricominciare daccapo più vigorosamente.
Senza
addentrarmi in altri dettagli, è sufficiente dire che il sistema è entrato in
una fase in cui la crisi
generale-storica investe il capitalismo nella sua totalità e si estende nel tempo quanto più aumentano le difficoltà
di valorizzazione.
Multinazionali:
RispondiEliminaPerkins: dopo il terzo mondo, ora stanno depredando noi
Leggi tutto: https://it.sputniknews.com/punti_di_vista/201610183511582-perkins-terzo-mondo-noi/
Ciao,g.
bellissima la parte irrilevante.
RispondiEliminaCosa si intende per capitale più frammentato in Italia?
dovevo scrivere: la struttura produttiva è più frammentata
Eliminagrazie molte
maggiore divisione del lavoro?
Eliminanon proprio o non solo. si tratta di una minore concentrazione e centralizzazione del capitale, in altri termini di una struttura composta da piccole entità produttive: piccola e media impresa
Eliminaio la chiamo maggiore divisione del lavoro.
EliminaSe togli alla "nostra" piccola e media impresa le banche (centralizzazione e concentrazione massima) non rimane niente di "nostro", non rimane che una famiglia, laboriosa quanto vuoi, ma limitata al suo interesse particolare. Spesso - e lo vediamo sempre più di frequente - se togli loro la banca non rimane neppure una famiglia...