mercoledì 4 gennaio 2012

Il cerotto keynesiano


Su un quotidiano italiano di ieri, ma anche su El Pais (segno di una certa convergenza d'intenti), c’era un articolo di Paul Krugman dal titolo Keynes aveva ragione. Il Nobel parte da un assunto keynesiano ("È l'espansione e non la recessione, il momento giusto per l'austerità fiscale”) per criticare le politiche recessive neoliberiste e neomonetariste (come quella di Monti, per esempio, o quella imposta alla Grecia e ad altri paesi) poiché, osserva, la spesa pubblica in un'economia depressa, deprime ulteriormente l'economia; l'austerità dovrebbe essere rimandata fino a che una forte ripresa dell'economia è ben avviata.

Il punto è proprio questo – e già al di là del fatto se sia realmente possibile una politica espansiva (anche ovviamente l'espansione del debito) – ossia se questo tipo di politica economica preluda poi a una fase di forte e ben avviata ripresa dell'economia in cui recuperare dal lato del debito con politiche di "austerità" (concetto che meriterebbe un discorso a parte). Per sostenere la sua tesi keynesiana, Krugman non può esimersi dal fare riferimento alle politiche rooseveltiane degli anni Trenta del ‘900. Infatti – anche se l’Autore non si sofferma sul punto – il sistema capitalistico, lasciato alla sua spontaneità, non tende all’equilibrio (come invece postulano quegli insulsi dei neoliberisti), ma allo squilibrio dei vari fattori, a causa della crescente divaricazione tra domanda e offerta. I keynesiani pongono all’origine di tale divaricazione una legge psicologica che chiamano “diminuzione della propensione al consumo”. Keynes prendendo atto di una contraddizione reale ma impossibilitato, per la sua posizione di classe, a individuarne le vere cause, non può far altro che arrampicarsi sugli specchi della psicologia sociale borghese, facendo perdere alla contraddizione il suo carattere capitalistico per assumerne uno “umano”.

In buona sostanza, mentre per i neoliberisti le crisi sarebbero fenomeni passeggeri assorbibili grazie a meccanismi spontanei di mercato, per Keynes si tratta di uno squilibrio che può essere ricondotto in equilibrio grazie ad un adeguato intervento dello Stato, ossia è necessario produrre domanda aggiuntiva (“aggregata”) tramite l’intervento di spesa, l’azione sul saggio d’interesse, la politica fiscale, determinando la massa complessiva degli investimenti e quindi del credito e della moneta. Naturalmente la cosa può funzionare in qualche misura solo sul breve periodo e a determinate condizioni, poiché la contraddizione, uscita dalla finestra, rientra poi dalla porta (ne ho già parlato in altri post).

Nell’articolo di Krugman non sono posti almeno due fatti a mio avviso di rilievo decisivo: la differenza forte tra il quadro geopolitico ed economico odierno e quello degli anni Trenta e l’effettiva portata del New Deal rooseveltiano. Parto da quest’ultimo punto. Sicuramente l’intervento statale negli anni della Grande Depressione ebbe effetti migliorativi sul piano della ripresa economica e dell’occupazione rispetto ai picchi più alti della depressione, ma è tutt’altro che dimostrato se tale intervento sia stato effettivamente risolutivo della crisi. Ancora nel 1941 i tassi di disoccupazione in Usa erano molto elevati e si dovette attendere il conflitto mondiale per un loro netto rientro, così come l’espansione economica americana s’irrobustì grazie se non altro al Piano di ricostruzione europea (ERP), alla massiccia richiesta d’investimenti per la realizzazione di grandi opere infrastrutturali e al crescere dell’occupazione e dei consumi, al mantenimento di un elevato livello di spesa militare. Insomma per una serie di particolari contingenze anticicliche.

Inoltre non vanno sottaciuti altri due aspetti di diversità: l’enorme potenzialità economica di alcune particolari innovazioni che però s’imposero su larga scala soprattutto a partire dal dopoguerra, basti citare l’automobile e gli elettrodomestici. Quindi, dal lato finanziario, lo scarso impatto del debito pubblico americano in quegli anni: 56 miliardi di dollari nel 1933 e sempre sotto ai 100 miliardi nel corso di tutti gli anni Trenta, con un rapporto abbastanza costante di circa il 40% del Pil, un debito pro capite di circa 200 dollari. Nei nostri anni tale rapporto debito/Pil è doppio e il debito ha raggiunto i 14.000 miliardi di dollari e i 36.000 pro capite (e non si fermerà).

Altra differenza significativa, direi decisiva sotto molti punti di vista, è offerta dal ruolo assunto oggi dalla finanziarizzazione dell’economia, con la creazione di una piramide gigantesca di carta e una speculazione non più controllabile nei suoi meccanismi ed effetti. Ulteriore diversità tra l’antico e oggi, come dicevo in premessa, è data dal quadro geopolitico ed economico, con attori e assetti produttivi oggi assai diversi rispetto al passato, con l’eliminazione della barriere e tariffe doganali, lo smantellamento di gran parte della struttura manifatturiera sia negli Usa che in molti paesi d’Europa, ecc..

Pertanto una politica economica espansiva di tipo keynesiano così come invocata da Krugman è senz’altro preferibile rispetto alle demenziali politiche recessive neoliberiste, ma tale intervento sarebbe comunque destinato ad avere effetti piuttosto contenuti nel breve periodo e comunque non decisivi alla lunga, aggravando ancor più il dissesto finanziario degli Stati poiché di una vera e propria fase di sostenuta espansione, date le premesse, non si può ragionevolmente sperare. La Storia ha cambiato pagina e, a meno di eventi di natura e portata straordinaria, le vecchie ricette non bastano più a salvare il culo al sistema.

No, il capitalismo non ce la può fare, anche se il suo collasso non dipenderà solo da ragioni strettamente economiche. Troppe le sue contraddizioni e troppo radicale e avanzata la sua crisi, inimmaginabile una ripresa di lungo periodo del suo sviluppo; molte le incognite che portano a presagire, anche in chi fino a ieri era ottimista, anni difficili se non tragici. Del resto, nell’orizzonte generale di chi contesta gli attori di questa crisi non c’è assolutamente chiara l’idea della necessità del superamento dell’attuale sistema ma solo quella della sua riforma, come del resto l’articolo in questione conferma.

13 commenti:

  1. L'articolo che aveva dato spunto al mio commento precedente era proprio questo!

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  2. Complimenti per il suo impagabile lavoro:

    contribuire sempre con precisione a far chiarezza nel marasma quotidiano.

    Keynes mi sembra sempre più l'espressione della struggente nostalgia della classe media per i bei tempi andati.

    Quei tempi in cui autoassolvevano i propri privilegi con la fede cieca in un progresso costante.

    Ma la realtà avanza e sono passati i tempi di Proust e di Keynes.

    Per l'oggi segnalo

    2012: QUALE SARA' LA GOCCIA CHE FARA' TRABOCCARE IL VASO?
    http://www.laclasseoperaia.blogspot.com/

    e soprattutto i link interni che rimandano a "Programma politico di emergenza" e "MPL".

    ......eppur si muove.....

    gianni

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  3. Già, la recessione degli anni '30 fu poi vinta dopo la distruzione, la seconda guerra mondiale. Distruggere ogni cosa per ricominciare. Ebbero la "fortuna" di trovarsi a combattere un Adolf Hitler, che diede loro il trampolino di lancio.
    Oggi una guerra mondiale significherebbe la catastrofe senza più ritorno, penso che lo mettano in conto, ma di questi tempi di Adolf Hitler in giro ne vedo più di uno, mille volte più astuti dell'originale.

    Bun Anno, con un pò di ritardo ma spero sempre validi gli Auguri per una speranza :)

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  4. oh cara Francy, mi chiedevo del tuo silenzio ... augurissimi anchea te, grazie

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  5. sono d'accordo con l'anonimo.Si fa ricorso a Keynes quasi per impietosire un capitalismo che sia disposto a concedere qualcosa.Io credo che abbiano già deciso per noi qual'è il nostro futuro nella divisione internazionale del lavoro e cioè diventare contoterzisti della Germania nella sfida competitiva con la Cina.

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  6. hai centrato Luca, ne ho esperienza diretta e non da oggi

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  7. alternativa sarebbe?il comunismo?

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  8. Sull'impossibilità di "Keynes" avevo già scritto e dimostrato anche troppo in giro per i vari blog: per me è cosa ovvia, come lo è anche la stessa politica keynesiana in sé e i suoi seguaci neokeynesiani come lo è anche Krugmann.

    Si fanno appelli alle suddette politiche per conservare la propria posizione di classe, che altrimenti dicendo la verità perderebbero, è scontato.

    Non bisogna essere marxisti per capire l'impossibilità del capitalismo: bastano anche le teorie "borghesi" (un buon corso di politica economica, economia industriale e economia monetaria) per capirlo.

    Certo, non sono cosi esplicite, ma i più attenti non troverebbero difficoltà alcune. Per fare un esempio.

    "I neoclassici-marginalisti ritengono che il problema economico fondamentale di ogni individuo e di ogni società sia quello di impiegare al meglio i mezzi scarsi di cui dispone al fine di accrescere più che può il proprio benessere. Questo problema secondo i neoclassici è così importante che definisce in quanto tale l’oggetto stesso della scienza economica." (Preso per comodità da Emiliano Brancaccio)

    E sia cosi. Vediamo un attimo le implicazioni.
    Per usare un espressione sempre borghese direi che la propensione al consumo dei ricchi è molto minore rispetto al loro reddito di quanto lo sia per quella dei poveri.

    E allora?

    Proprio secondo i neoliberisti per massimizzare il benessere di tutti la redistribuzione verso il basso dovrebbe essere più che ovvia, e questo fino al punto in cui 1€ di tassa aggiuntiva verso il basso contribuisce ad 1€ di spesa aggiuntiva del meno abbiente.

    Cosi anche sull'ambiente. Se 1€ di consumo aggiuntivo provoca 1€ di costo aggiuntivo (anche i costi esterni e di lungo periodo) il limite è stato raggiunto e limitare i consumi dovrebbe essere ovvio, da buoni e pratici neoliberisti.

    Cosi anche in merito al lavoro. Se esiste un modo di investire 1€ aggiuntivo ricavandone almeno 1€ aggiuntivo di beneficio, vuoi sociale, vuoi individuale, si investe, altrimenti non si investe.

    Se c'è un modo di dimostrare che la piena occupazione porta beneficio a tutti (e lo si è fatto e conviene), allora si fa.

    In realtà non succede niente di tutto ciò! I costi esterni nessuno li calcola, la propensione al consumo non gli interessa, la piena occupazione e il lavoro in generale ancor di meno (e sappiamo il perché).

    Possiamo davvero definire questo sistema neoclassico e marginalista? La risposta è ovvia, almeno per me. Questo non significa che io non usi gli stessi termini, ma solo per comodità.

    Io penso invece che il sistema attuale a poco del scientifico in se e molto di mafioso e affarista, solo parzialmente basato su alcune considerazione vere e scientificamente corrette, proprio per discolpare se stesso.

    Io penso anche che le teorie neoclassiche marginaliste siano valide ma incomplete e penso anche applicandole ci si arriva ad un vicolo cieco che va sviluppato proprio considerando la società nel suo insieme e proseguendo coerentemente con l'impostazione marginalista originaria (come da esempio di sopra).

    segue...

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  9. ...il seguito

    Keynes si accorse di queste insufficienze a livello aggregato, invece di considerare coerentemente sul da farsi, per esempio la propensione al consumo a livello di classi per reddito come nell'esempio, preferì snobbarlo introducendo la spesa a deficit anticiclica per le ragioni di classe che conosciamo, perché altrimenti tassare i patrimoni e gli accumuli (flussi di cassa anche storici, patrimoni improduttivi, es: le case vuote e sfitte) prevederebbero le classi, cosi anche la propria appartenenza.

    Quindi, Keynes avrebbe dovuto integrare la teoria considerando la necessità di tassare se stesso e proletarizzarsi? Si, ovviamente non lo fece.

    Secondo punto importante.
    Ipotizzando la stessa teoria, applicandola a dovere arriveremmo ad un certo punto che tassando e redistribuendo e fornendo potere contrattuale ai lavoratori (piena occupazione) in un Mondo profondamente diverso i capitali inizierebbero a sfuggire come già avviene, ma per altri motivi, che conosciamo bene, come il saggio di profitto maggiore all'estero.

    A questo punto di analisi, l'UNICO modo non protezionista (dazi e altre barriere autarchiche) e liberale sarebbe quello dell'autogestione proletare delle imprese, Si perché i lavoratori non potrebbero esternalizzare se stesse, se non delocalizzandosi all'estero con l'impresa stessa, che non sarebbe un male: meno imprese, meno produzione, ma anche e proporzionalmente meno persone che consumano e da sfamare.

    Questo implica anche un altro aspetto, la finanza. Se non vi sono più imprese private e se si finanziano i sociolavoratori, il problema deriva dall'indebitamento delle imprese autogestite e susseguenti fallimenti. Certo che anche le banche dovrebbero riformarsi ed esistere proprio al servizio delle imprese e lavoratori, come vere e proprie ISTITUZIONI rigorose e imparziali, ma sociali e anch'esse gestite dai cittadini.

    Se tutta l'economia è autogestita e autoorganizzata, certo che parlare di capitalismo e statalismo, spesa a deficit e signoraggio, di sindacati e confindustria, ma anche di politici e vasalli, sarebbe superfluo: con una sola parola, SOCIALISMO.

    Vedete, applicare le teorie scientificamente e fino in fondo conviene soprattutto ai lavoratori, che guarda che di questa conoscenza ne sono sprovvisti. Ma questo è un altro post.

    saluti

    ps. Scusate perché mi sono divulgato troppo, ma io penso che i capitalisti che non sono altro che mafiosi legalizzati (il potere del più forte) vanno combattuti non con Marx, ma proprio con le loro teorie mafio-borghesi. Le conclusioni di questa piccola tesi sono ovvie.

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  10. @ anonimo:

    sì, quello di pol pot. Contenta/o?

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  11. buon giorno Olympe e buon anno aproposito di germania virtuosa ecco cosa si puo trovare sul sito nocensure.com/crisi_europea_la_germania_maschera_il_suo_deficit_reale/3/1/2012
    Fabio

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  12. L'alternativa è il movimento reale che abbatte lo stato di cose presenti :p

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