A Davos, una cittadina svizzera costruita modernamente negli anni Sessanta da braccia prevalentemente italiane, si riuniscono ogni anno i rappresentanti dei capitalisti, dei funzionari del capitale e la gentaglia che cura i relativi interessi sul piano politico e legislativo. Insomma, non bisogna farsi trarre in inganno dai loro curricula, si tratta della peggiore feccia dell’umanità, di elementi socialmente pericolosissimi.
Questi ceffi impomatati, profumati e blindati (se non fossero scortati lo spread sulle loro vite sarebbe più di quello greco), sono convinti di sapere bene e tutto sulle cause della crisi del capitalismo, in realtà non sanno assolutamente un cazzo. Soprattutto perché essi non hanno alcun interesse a porsi una domanda fondamentale, la quale chiarirebbe loro due cose, sia in generale e anche in dettaglio: 1) i motivi del fallimento del capitalismo e 2) la conseguenza che li riguarda individualmente, ossia l’essere gli zombie di questo fallimento.
Essi sono convinti che il capitalismo, presto o tardi, uscirà dalla crisi e, al pari di altri miserabili, che questo sistema, il modo di produzione capitalistico, si fondi sulla “distruzione - costruzione”. In realtà questo è il solo modo di agire, non il fondamento del sistema. Al capitale non interesserebbe nulla di rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali se non nella misura in cui tale incessante mutamento, la “distruzione - costruzione”, non fosse funzionale all’unico aspetto che realmente è cogente alla sua esistenza: l’accumulazione. La produzione di plusvalore e quindi la creazione di nuovo capitale.
Se questi estimatori crepuscolari del capitalismo avessero per la dialettica un minimo di stima, capirebbero anche che l’enorme processo di sviluppo delle forze produttive capitalistiche costituisce la base contraddittoria di questo processo e che perciò “come il sistema dell’economia borghese si è venuto sviluppando passo a passo, così avviene anche per la sua negazione, che ne è il risultato ultimo”.
Al capitale non interessa nulla se distrugge l’ambiente in cui viviamo per costruire armi o cibo avvelenato. Torno a ripetere ancora una volta anche in questo post: il prodotto del processo di produzione capitalistico non è né semplice prodotto (valore d’uso) né semplice merce, cioè prodotto dotato di un valore di scambio; il suo prodotto specifico è il plusvalore.
Non desidero, anche per brevità e per non ripetermi, addentrami negli aspetti tecnici della crisi, ma porre in evidenza un aspetto precipuo (il reale fondamento !!!), e denso di conseguenze anche sul piano generale, di questo sistema economico e cioè che per il capitale l’unica razionalità riconosciuta è il profitto. È evidente che le forze produttive capitalistiche essendo interessate esclusivamente a questo aspetto, cioè a spremere plusvalore, hanno del tutto trascurato aspetti e problemi che sono invece fondamentali per la semplice sopravvivenza delle specie, in primis quella umana.
"Non desidero, anche per brevità e per non ripetermi, addentrami negli aspetti tecnici della crisi".
RispondiEliminaUn appunto mi permetto: ha pensato che l'addentrarsi negli aspetti tecnici della crisi (ma mantenendo sempre la visione generale del sistema capitalistico), dia l'opportunità a molte persone, di capire come i fondamentali del modo di produzione capitalistico siano contraddittori, generando proprio l'assurdità di quegli aspetti tecnici?
saluti e buon lavoro.
ho scritto "per non ripetermi" proprio perché ne ho già parlato numerose volte in post precedenti. ritornerò sull'argomento in una prossima occasione.
RispondiEliminagrazie e saluti cordiali
Siamo al punto cruciale: "per il capitale l'unica razionalità riconosciuta è il profitto". Ma non concordo, se posso e se non ho frainteso, sull' affermazione che gli impomatati di Davos nulla sanno della crisi del capitalismo perchè se ne intuissero la portata si interrogherebbero sui motivi di tale fallimento. Questo sarebbe fare loro l'unico torto che non hanno. E' stato raggiunto, nella crisi, il rischioso punto del non ritorno e ne sono freddamente consapevoli. E' l'ora dei duri senza esitazioni. Li tradisce la negazione intransigente verso qualsiasi inutile provvedimento che abbia parvenza di equità e di giustizia; il ripetere e far ripetere, ai loro reggicoda, formulazioni tanto tetragone quanto fastidiosamente stolide. E' crisi, mi sembra, tutta interna al sistema del capitale ove le storiche forze oppositive ed alternative del lavoro, sono spettatrici tragicamente passive o colpevolmente distratte. Non c'è spazio per il riformismo socialdemocratico e ce n'è ancora meno per i giovanili sogni di fulgide albe rivoluzionarie. E' uno scontro mortale tra il nuovo capitale della speculazione finanziaria ed il vecchio capitale della produzione delle merci. Il primo guadagna sul fallimento del secondo. Crono mangerà i suoi figli ma non salverà il trono. In attesa di Zeus.
RispondiEliminaConscrit