giovedì 3 luglio 2025

In questi tempi binari

 

Un caldo così lo sognavo da anni. Voi no?

Donald Trump, quarantotto ore dopo che i suoi B-2 avevano bombardato i siti nucleari iraniani, ha annunciato che la guerra tra lo Stato sionista d’Israele e lo Stato islamico dell’Iran era finita. Un po’ come se, nel settembre 1939, Stalin avesse annunciato che la guerra tra la Germania e la Polonia si era conclusa.

Eppure sappiamo che quei dodici giorni di bombardamenti e di lancio di missili non hanno risolto nulla e sono stati solo un altro episodio del conflitto che contrappone Iran e Israele dal 1979. La guerra tra sionisti e sciiti continuerà in altre forme.

Nonostante il cessate il fuoco, permane un senso di guerra permanente, le cui munizioni sono le parole. Il vocabolario, le espressioni e le dichiarazioni sui social media si distinguono per la loro palese violenza. Un bombardamento quotidiano di insulti e minacce appena velate contro chi non è dalla nostra parte. Verrebbe da porsi la domanda: è la violenza delle parole la causa della guerra o è la guerra che la genera?

Come possiamo partecipare ai dibattiti che scuotono il mondo senza che ciò contribuisca a questa aggressività generalizzata? Purtroppo molte persone eccitate, che cercano una causa alla quale immolarsi solo simbolicamente, non capiscono o non accettano altro modo che quello, e pensano che la brutalità delle loro parole faccia parte della tradizione di una libertà di espressione illimitata. Questo ragionamento errato e stupido illustra il fatto che oggi la libertà di espressione è divisa tra estremismi desiderosi di poter dire qualsiasi cosa e minacciare chiunque in nome delle proprie convinzioni, che ovviamente ritengono superiori a tutte le altre.

Come se agli abitanti di Gaza o di Sumy importasse qualcosa delle bandierine esposte nei nostri profili social o stese alle finestre o sui frontoni dei nostri municipi.

Dopo l’attacco a Pearl Harbor, Churchill rivolse queste parole all’ambasciatore giapponese: “Quando devi uccidere qualcuno, non costa nulla essere educati”. I giapponesi mancarono di creanza. Anche nelle ore tragiche della storia, è essenziale mantenere un certo grado di savoir-faire e di humor (che non va confuso col sarcasmo), ultime vestigia di civiltà.

Mi chiedo a proposito di Trump (ma l’elenco degli “unti” sarebbe birichino): è la povertà del suo vocabolario che lo costringe a usare parole semplici e, di conseguenza, a esprimere idee semplicistiche e oltraggiosamente demagogiche? Certo, la sua spavalderia deve procuragli un delizioso brivido e possiamo ravvisare anche un gusto infantile nel giocare con i fiammiferi mentre cosparge di benzina i suoi elettori.

Nelle dichiarazioni ufficiali e sui social media, possiamo solo osservare un impoverimento delle parole e quindi del pensiero. Insulti e minacce isteriche sono diventati la norma e preannunciano un’era imminente in cui manganelli e bombe sostituiranno il vocabolario in uso un tempo, e anche il dizionario, al quale non si bada quasi più.

mercoledì 2 luglio 2025

L’antisemitismo degli ebrei

 

Che cos’è l’occupazione israeliana della Cisgiordania? Anzitutto va detto che “Cisgiordania occupata” è il termine usato nel diritto internazionale. Essa è presente 24 ore al giorno e si concretizza in vari modi, con la distruzione di case, lo smembramento di un’intera società e con 800 posti di blocco che controllano ogni spostamento, qualsiasi movimento. Appena possa apparire sospetto, e a ciò basta un nulla, gli israeliani sparano. Sparano per uccidere: uomini, donne, bambini.

Ogni città palestinese sembra un’enclave isolata dalle altre città: appena la si lascia, si incontrano posti di blocco, soldati o coloni. Un medico che presta servizio a Nablus e Ramallah ha impiegato quindici ore per spostarsi da una città all’altra, nonostante la distanza di 60 km, perché il checkpoint era chiuso.

Ecco spiegata la paura delle donne incinte di rimanere bloccate a un checkpoint quando stanno per partorire. E c’è ancora chi, qui da noi, ha la faccia di negare sia vigente un sistema di apartheid!

La vita quotidiana dei palestinesi include anche la distruzione repentina delle abitazioni. È sufficiente che gli israeliani siano convinti si tratti di case di “terroristi”. Era già così, ma oggi la distruzione è totale e sta accelerando dal 7 ottobre. A Gerusalemme Est, il comune presume che queste costruzioni siano illegali perché questa parte della città è stata annessa da Israele. Ma il diritto internazionale considera questo territorio appartenente ai palestinesi. L’obiettivo dei sionisti è fare tabula rasa della presenza palestinese a Gerusalemme Est.

Nessuno sa mai quando arriveranno i bulldozer: potrebbero arrivare nei prossimi giorni o tra qualche anno. Le vite di queste famiglie possono essere stravolte da un momento all’altro, creando una grande vulnerabilità. Alcuni bambini vanno a scuola con i loro giocattoli preferiti nel caso in cui la loro casa venga distrutta durante il giorno.

Un processo di disgregazione della società palestinese pianificato a tavolino che si è diffuso in tutta la Cisgiordania. Lo scorso maggio, Israele ha avviato un’operazione di indagine territoriale che faciliterà, ancora una volta, l’espropriazione delle proprietà palestinesi. Allo stesso tempo, lo Stato israeliano sta agevolando con finanziamenti diretti l’acquisto di terreni da parte dei coloni (già il termine “colono” chiarisce, o dovrebbe chiarire, una situazione di assoluta illegalità e di abominio).

Riguardo agli ostaggi israeliani, capisco il dolore delle loro famiglie. Quello che non capisco, tuttavia, è il sostanziale unanime silenzio dei loro e dei nostri media a riguardo dei 3.500 detenuti palestinesi, tra cui 400 bambini, in detenzione amministrativa. Uno status che consente a chiunque di essere arrestato per motivi di sicurezza. Il periodo di detenzione può essere prorogato più volte senza una specifica accusa.

Gli ebrei (oltretutto quelli della nostra epoca!) sono convinti che Dio abbia dato loro quella terra. Non solo sono di ciò convinti, ma ritengono che i palestinesi non meritino di viverci su quella terra. Questo è precisamente il diffuso sentimento antisemita degli ebrei.


martedì 1 luglio 2025

Criptovalute, da moneta speculativa a moneta di riserva

 

Con la fine di Bretton Woods, ossia della convertibilità del dollaro in oro, la massa monetaria in circolazione di qualsiasi valuta non ha più alcun aggancio con la quantità di oro presente nelle varie banche centrali. In tal modo la moneta s’è sganciata dal valore reale e universale della merce oro.

La banconota non è più segno di un valore tangibile, ma è divenuta in tutto e per tutto un pezzo di carta a mezzo del quale si riconosce legittimità a due poteri: il primo è politico, ed è quello che fa capo a uno Stato o all’Unione europea, e autorizza un’istituzione finanziaria a stampare quel pezzo di carta, a cui riconosce un “corso legale”, ossia forzoso; il secondo è economico, ed è esercitato da una banca, che la politica ha definito “centrale”, che ha l’autorità di emettere moneta e di essere garante del sistema di circolazione.

Una moneta garantita da che cosa? Dalle riserve auree? Esigue, rispetto alla massa di moneta circolante. Questo fatto apre già un problema, che non viene in luce proprio perché la circolazione di una moneta si basa sulla fiducia di tutti. Fino a quando?

Se all’interno di una comunità nazionale e internazionale accetto di effettuare transazioni di beni e servizi sulla base di valori nominali di una moneta cartacea (molto spesso le transazioni sono computerizzate), posso anche accettare che lo scambio economico avvenga sulla base non di una banconota ma di un codice, precisamente di una stringa alfanumerica, che mi permetta di acquistare beni e servizi. Ecco che quella stringa digitale alfanumerica diviene una moneta, un Bitcoin, una moneta digitale che opera senza intermediari finanziari.

Possedere dei bitcoin significa avere un portafoglio virtuale – ossia un indirizzo Bitcoin (sequenze casuali alfanumeriche lunghe in media 33 caratteri) – che utilizza un sistema di crittografia asimmetrico, a doppia chiave, pubblica e privata (ogni coppia di chiavi è formata in modo tale che ciò che viene cifrato con una, può essere decifrato solo con l’altra): ai bitcoin è associata la chiave pubblica del portafoglio, e ogni individuo può spendere solo la criptovaluta collegata al proprio indirizzo, mentre la chiave privata consente di apporre la propria firma digitale per effettuare il pagamento (*).

Concettualmente il Bitcoin non è molto diverso dalla tradizionale moneta contabilizzata elettronicamente dalle banche, e soddisfa le caratteristiche di garanzia necessarie, ossia la sua proprietà può essere univocamente e irrevocabilmente identificata, e non è possibile il double spending, cioè la doppia spesa con gli stessi bitcoin (né con la stessa somma in conto corrente).

Nel caso del Bitcoin la funzione di garanzia è stata assegnata non a un’istituzione finanziaria, ma a tutta la rete peer-to-peer (P2P), grazie al sistema blockchain (vediamo subito cos’è), pertanto è stata sostituita la fiducia bancaria con la crittografia.

L’architettura tecnica del Bitcoin, nella sua idea essenziale e nella sua dinamica inerziale, è meno complicata di quanto si creda. Il fatto che le chiavi di tutti i portafogli Bitcoin siano pubbliche, rende pubbliche tutte le transazioni, memorizzate in un database – una sorta di “libro contabile” generale, disponibile a tutti i nodi della rete, appunto la blockchain (“catena di blocchi”) – che finisce per contenere lo storico di tutti i movimenti di tutti i bitcoin generati, a partire dall’indirizzo del loro creatore fino all’ultimo proprietario. Questo permette di verificare che i bitcoin oggetto di una qualsiasi transazione appartengano effettivamente a un dato portafoglio.

Questo per quanto riguarda la circolazione dei bitcoin. Altra questione è quella della creazione della massa dei bitcoin in circolazione (quello che con la moneta tradizionale fa la banca). Confermare un pagamento in bitcoin significa risolvere un problema di crittografia ricevendo in cambio una ricompensa in nuovi bitcoin.

Tuttavia, il grosso della creazione di bitcoin avviene con cadenza temporale costante. Il software Bitcoin rilascia nella rete P2P un blocco Coinbase: lo potremmo definire un problema crittografico da risolvere. Il primo computer della rete che ne arriva a capo, trovando attraverso dei calcoli una serie di numeri, riceve una ricompensa in bitcoin di nuova emissione (un valore che si dimezza ogni quattro anni circa).

È dunque una specie di caccia al tesoro, che viene definita attività di mining, ossia di “estrazione” (simbolicamente dell’oro). Dapprima per i “minatori” erano sufficienti dei computer personali per risolvere il problema crittografico. Man mano che la rete è cresciuta, il problema crittografico si è fatto più complesso. I proprietari dei relativi pc hanno iniziato ad acquistare hardware specializzati in quel particolare processo di calcolo, e sono nati i mining pool: nodi di rete che si sono uniti, per accrescere la potenza in termini computazionali, spartendosi poi la ricompensa in nuovi bitcoin a seconda del contributo al processo di calcolo dato da ciascun computer.

Si è prodotta una sorta di élite che effettua Coinbase, risolve complessi problemi matematici per aggiungere nuovi blocchi alla catena e verifica le transazioni, traendone un guadagno in nuovi bitcoin, a fronte di una massa di utenti che non possono che limitarsi a utilizzare la criptovaluta. In breve: grandi capannoni, situati generalmente nei pressi di centrali elettriche, dalle quali attingono l’energia per alimentare un enorme numero di computer dedicati all’attività di mining.

Fino al 2021, in Cina era delocalizzata una percentuale notevole del processo di mining, con la medesima logica della delocalizzazione manifatturiera. Vi lavorano addetti al controllo dei computer, a salari cinesi, che operano in lunghi turni, spesso dormendo sul posto. Dopo le restrizioni cinesi, il Kazakhstan e il Canada sono diventati hub importanti per il mining di criptovalute, in particolare Bitcoin.

Da moneta speculativa le criptovalute, dunque anche i bitcoin, si sono trasformati anche in moneta di riserva. Il 23 gennaio, Trump ha firmato l’ordine esecutivo Strengthening American Leadership in Digital Financial Technology, con cui apre la strada alle criptovalute. In tal modo affossando le valute digitali delle banche centrali e favorendo le criptovalute private. L’ordine presidenziale è la pietra tombale sul progetto di dollaro digitale emesso dalla FED e, in generale, sull’utilizzo all’interno degli Stati Uniti di qualsiasi valuta digitale nazionale.

Il 6 marzo, con un altro ordine esecutivo, il presidente USA ha istituito una “riserva strategica di bitcoin”, nella previsione di ampliarla ad altre criptovalute al fine di “stabilire una riserva di asset digitali degli Stati Uniti”. Al momento nel conto andranno “tutti i bitcoin detenuti dal Dipartimento del Tesoro che sono stati definitivamente confiscati come parte di procedimenti penali o civili”. Ciò segna un cambiamento nel ruolo di Bitcoin all’interno del sistema finanziario globale, da attività speculativa a strumento di riserva macroeconomica legittimo e riconosciuto.

In caso di grave crisi finanziaria, queste riserve basate sul nulla che funzione avranno? Appunto quella di essere semplicemente virtuali. Che cosa potrebbe succedere? Parafrasando Enrico Cuccia a proposito di Mediobanca, si può dire che se anche l’Impero romano è crollato ... . E dunque? Risposta: perché preoccuparsi di cose sulle quali nulla sappiamo ancora e nulla possiamo?

(*) Il sistema Bitcoin è non solo sicuro ma anche trasparente. Ogni persona può generare un numero infinito di doppie chiavi crittografiche (pubblica/privata) e dunque un numero infinito di portafogli (indirizzi) Bitcoin: anche uno per ogni singola transazione. Se la chiave privata viene smarrita, i bitcoin a essa associati sono irrimediabilmente persi, distrutti come banconote in un falò, perché non esiste altro che quel codice per dimostrarne la proprietà e quindi utilizzarli.