Nessuno crede che lo sviluppo storico segua una linea
retta e continua. Nondimeno i fatti storici dimostrano un accrescimento che se
non altro è dato dall’aumento demografico e dunque dalla crescita della
produzione e degli scambi. In altri termini, si tratta dello sviluppo delle
forze produttive, cioè di quelle forze del lavoro sociale che sole possono
fornire, in prospettiva, la base materiale di una libera società umana (*).
Sappiamo che l’essenziale si presenta sempre in forma
specifica. E l’essenziale, per quanto riguarda questo discorso, è prima di
tutto il processo d’industrializzazione che alla lunga s’impone e supera
necessariamente la produzione artigianale. Proprio per questo le idee di un
ritorno a una decrescita felice (Marx le definiva robinsonate) sono utopistiche
(**).
Se la produzione non avesse creato la base materiale
per soddisfare non solo i bisogni sociali ma per assicurare, con il suo
plusprodotto, tutti gli strumenti necessari alle attività non strettamente
produttive, non vi sarebbe stato sviluppo umano. Nel creare il fondamento
materiale di tutte le attività non direttamente produttive e la soddisfazione
di tutti i bisogni non materiali, la produzione ha avuto e continuerà ad avere
un ruolo fondamentale.
Per i “marxisti” d’antan è appena il caso di
ricordare che in tutto il passato storico, e cioè fino agli albori del XX
secolo, le trasformazioni dei rapporti economici si sono realizzate
spontaneamente. Ciò non significa, a priori, che tali rapporti non possano
essere trasformati con la lotta di classe, anzi. A ben vedere è proprio questo
uno degli aspetti essenziali e decisivi delle trasformazioni storiche; tuttavia
ciò non è mai avvenuto e mai accadrà sulla base della semplice azione consapevole
e variamente motivata degli individui. Non con esiti stabili e positivi.
Infatti, tale aspetto della dinamica storica, la trasformazione dei rapporti di
produzione, deve sempre scaturire dallo sviluppo delle forze produttive. Il
movimento storico non è quello del salto della quaglia.
Se le forze produttive diventano forza motrice dello
sviluppo sociale nella misura in cui soddisfano i bisogni della società stessa,
tuttavia lo sviluppo delle forze produttive da solo non basta, anche se
costituisce la condizione imprescindibile di ogni radicale trasformazione.
Pertanto, concepire come necessità riconosciuta lo sviluppo delle forze
produttive è fondamentale, ma inferire che le trasformazioni storiche dipendono
solo da tale sviluppo porta al fatalismo storico. La fondamentale cognizione marxista
stabilisce che nello sviluppo sociale esiste un complesso di leggi che si
realizza all’interno e attraverso un insieme di attività umane liberamente motivate
e dettate dai loro interessi.
Nella rivoluzione industriale, ad esempio, è
facilmente misurabile tutta la complessità di un processo che non si limita a
un mutamento nella produzione e nella distribuzione della proprietà, ma coinvolge
e trasforma radicalmente tutta la struttura sociale tradizionale e influisce profondamente
anche sugli orientamenti ideologici, come del resto non mancava di sottolineare
il giovane Marx nel Manifesto. In
altri termini, l’alienazione del lavoro capitalistico si estende a tutte le
sfere della vita sociale e dunque anche a tutte le zone della coscienza.
*
A ben vedere, quanto mai prima d’ora, la sola
attività umana che può avere un significato sociale è quella che corrisponde
allo sviluppo di tutti i bisogni sociali o può risvegliare tali bisogni. Ad un
grado elevato dello sviluppo delle forze produttive quale è stato raggiunto oggi,
l’attività non produttiva e la
soddisfazione dei bisogni non materiali ad essa collegati raggiunge un’ampiezza
maggiore della produzione stessa. Lo sviluppo delle forze produttive ha
raggiunto incontestabilmente un tale livello, e infatti nelle società di più
antica industrializzazione ben oltre due terzi della popolazione attiva si
occupa di attività non direttamente produttive o non produttive affatto. L’estensione di queste attività cresce in
assoluto e in percentuale, e continuerà a crescere anche in quei paesi oggi
considerati come le fabbriche del mondo.
Questa maggiore importanza del ruolo delle attività
non direttamente produttive non può essere vista come negazione del ruolo fondamentale
della produzione: al contrario, solo in base all’alta produttività del lavoro e
al suo incremento la quantità dei bisogni sociali materiali e non materiali può
aumentare, quindi il tempo libero allungarsi, per esempio, e portare in
prospettiva a una radicale trasformazione sociale, al superamento delle tradizionali
forme di alienazione peculiari del lavoro che produce merci, ecc..
In tal senso, quanto più un’attività produttiva
proporzionalmente decrescente è in grado di soddisfare gli accresciuti bisogni
– materiali e immateriali – tanto maggiore è l’influenza sulla configurazione
dei bisogni e degli interessi umani acquisita anche nell’attività non
direttamente produttiva. E tuttavia ciò richiede, per realizzarsi in pieno, il superamento
degli attuali rapporti sociali, i quali sono l’espressione del dominio di classe,
vale a dire della sottomissione dei non proprietari alla schiavitù del rapporto
sociale capitalistico, il quale ha un unico scopo che lo anima, assoluto e
ossessivo: l’autovalorizzazione del capitale (***).
(*) Per quelli che spaccano un capello in frazioni
atomiche: ciò vale in senso generale; è chiaro che in piccole comunità isolate,
o in situazioni geografiche, climatiche e biologiche particolari, si può
assistere a una sostanziale stagnazione dello sviluppo economico e umano.
(**) Secondo le concezioni di questi poverelli, variamente
declinate dagli anni Sessanta ad oggi, lo sviluppo tecnico e produttivo – e non
le particolari forme d’impiego da parte del capitale – rappresenterebbe l’origine
di tutte le contraddizioni. Gli uomini, la società (concetti astratti se non
precisati) dovrebbero “ritornare alla natura” o, secondo l’ultima versione, a
un’economia controllata e selettiva, a una riduzione volontaria della
produzione economica e dei consumi, pur sempre sotto l’egida del modo di
produzione capitalistico, che in tal modo resterebbe intangibile nei suoi
fondamenti. Ci vuole molta pazienza con questi poverelli, troppa anche per chi
la vive come vocazione.
(***) “Le funzioni
che il capitalista esercita sono solo le funzioni del capitale stesso
esercitate con coscienza e volontà – del valore che si valorizza succhiando
lavoro vivo. Il capitalista funziona solo come capitale personificato, il capitale quale persona, allo stesso modo in cui
il lavoratore funziona solo quale lavoro
personificato che per lui è tormento, sforzo, che però appartiene al
capitalista quale sostanza che crea e aumenta di ricchezza.” (Il Capitale, Libro I, capitolo VI, MEOC,
vol. XXXI, tomo II).
Questi ultimi post contengono una grande tensione maieutica, perché stanno indicando delle linee guida per tentare di superare il fatalismo capitalista.
RispondiEliminagrazie. sempre generoso.
Eliminanon si tratta solo di fatalismo o di rassegnazione, ma anche del fatto che noi tutti ci troviamo comodi malgrado tutto. e però nulla è per sempre come dovrebbe insegnarci anche la storia recente, cioè quella della prima metà del XX secolo.
(ho corretto un paio di errori di battuta dovuti a tutt'altra tensione, come sai)
Grazie, ben spiegata la differenza tra Essere o Avere.
RispondiEliminaStay Human. Solidarietà&Cooperazione vs Individualismo&Divisione.
Affetti vs Passioni. Appagamento vs Godimento.
bè la socializzazione del lavoro è così spinta che potrebbe davvero a uno scatto più che un salto, il vedere che la combinazione di carte è già tutta sul tavolo
RispondiEliminal’essenziale si presenta sempre in forma specifica:
un ottima osservazione alla faccia delle vecchie ontologie