Sul
Sole 24 ore di ieri, in prima e poi a
pagina 18, si leggeva un articolo di Bill e Melinda Gates, due noti filantropi
della omonima fondazione. Ciò che descrivono, per quanto riguarda la situazione
reale, è per l’anima borghese assai coinvolgente:
«Viviamo in tempi
straordinari. Ogni giorno sembra delinearsi una nuova crisi, che si tratti di
immigrazione, di volatilità economica, di sicurezza o di cambiamento climatico.
Un fattore comune è la povertà: eliminarla aiuterebbe a superare le altre sfide
in modo molto più semplice. Ci sono buone ragioni per essere ottimisti. Sin
dalla fine del secolo sono stati fatti passi verso un mondo in cui ogni
individuo ha la possibilità di condurre una vita sana e prospera. La mortalità
materna, quella infantile e i decessi per malaria sono dimezzati così come la
povertà estrema. Il target degli obiettivi che i 193 Paesi dell’Onu hanno
sottoscritto a settembre è quello di eliminare la povertà in tutte le forme e
ovunque entro il 2030. Questo è possibile e vedremo importanti svolte lungo il
percorso con opportunità per chi vive nei Paesi poveri. Le vite dei più poveri
miglioreranno in tempi più rapidi nei prossimi 15 anni. Il progresso non solo è
possibile, ma anche inevitabile.»
Gli
autori dell’articolo sostengono che la povertà è un fattore comune che
accompagna la crisi economica, il problema dell’immigrazione, la sicurezza e il
cambiamento climatico. Tuttavia essi esprimono ottimismo sul futuro sulla
scorta degli indubbi progressi registrati nella riduzione delle povertà più estreme, donde deriva la speranza
che in un prossimo futuro le più gravi forme di miseria e sottosviluppo possano
essere superate.
Siamo
dunque grati per quanto stanno facendo questi e altri filantropi
multimiliardari, come Mark Zuckerberg e sua moglie Priscilla Chan, nonché grati
a tutte le organizzazioni dedite a tale nobile impegno. E tuttavia se grazie a
tale impegno congiunto si potranno forse rimuovere le forme di miseria più
estrema, resta il problema della “normale” povertà, la quale nel XXI secolo non
può essere certo valutata solo in calorie pro capite. Queste forme di povertà e
di disuguaglianza sociale, anziché ridursi, si stanno espandendo e
approfondendo, in particolar modo proprio nei paesi di più antica
industrializzazione, tanto da essere chiamate ormai comunemente “nuove povertà”.
*
Esistono
altre povertà, magari meno drammatiche di quelle della fascia dei Tropici, ma non
per questo da trascurare. Vi sono per esempio le povertà presenti a poca
distanza dalle residenze sorvegliate dei filatropocapitalisti dell’articolo. Quel
15% di statunitensi che campano grazie al Supplemental Nutrition Assistance Program, tra i quali circa 16 milioni di bambini e
adolescenti, pari alla popolazione di New York City, Los Angeles, Chicago e
Houston insieme. Oppure quelle situazioni descritte in questo articolo,
certamente non di un paranoico marxista.
In
generale, la carità pelosa ha sempre avuto lo scopo di degradare e
demoralizzare i suoi destinatari e assolvere la coscienza dei ricchi mecenati
che direttamente o indirettamente sfruttano e saccheggiano il pianeta
accumulando denaro, evadendo ed eludendo il fisco. Una società in cui sono i ricchi a decidere autonomamente quando e quanto
pagare le tasse, non solo non è una società democratica ma nemmeno civilizzata.
Pertanto
non saranno le nuove tecnologie, di per sé, a togliere le castagne dal fuoco al
capitalismo, per quanto se ne possano magnificare le indubbie meraviglie. I
signori Gates e Zuckerberg possono star sicuri che internet e facebook non
potranno obliterare la società di classe e con essa le vecchie e nuove forme di
povertà e disuguaglianza che tanto debbono alla crescita impressionante del
parassitismo finanziario dal quale anche il filantrocapitalismo trae cospicui
benefici.
Con
le loro donazioni i miliardari restituiscono forse la centesima parte di ciò
che appartiene alle vittime, e, come notava il New Yorker, a proposito e Zuckerberg, “se incerta è la dimensione e
la tempistica dei benefici fiscali, tuttavia essi sono suscettibili di essere
di grandi dimensioni” (*).
*
Vediamo
dunque di trattare su una base un po’ più scientifica, sia pure per sommi capi e
per quei pochi ai quali interessa la questione, la natura del processo
economico che sta alla base della “volatilità
economica” e di tutte le altre brutte cose elencate ma anche taciute
nell’articolo dei filantropi. Per prima cosa è necessario rilevare che:
1) lo scopo della
produzione capitalistica non è
l’esistenza dei produttori, ma la produzione di plusvalore, cioè di
capitale;
2)
la condizione
essenziale per la riproduzione del rapporto tra capitale e lavoro è la permanenza dei lavoratori nelle condizioni
di bisogno;
3)
gli stessi fattori che rendono il lavoro più produttivo ne diminuiscono la domanda.
Per
quanto riguarda il processo lavorativo, in ogni epoca la concentrazione e
l’efficacia tecnica dei mezzi di produzione diminuisce progressivamente il
grado in cui essi sono mezzi per impiegare lavoratori; tuttavia solo nel modo
di produzione capitalistico la continua riconfigurazione tecnica e tecnologica
diviene una necessità allo scopo d’impiegare una parte sempre minore di
forza-lavoro in rapporto ai mezzi di produzione, e ciò deve essere considerato
un indubbio progresso se non fosse per una contraddizione di base che nel
capitalismo pienamente sviluppato crea, per usare un eufemismo, irresolubili
criticità.
In
altre fasi storiche del capitalismo, terminata la crisi e ripreso il ciclo
accumulativo su scala allargata, la popolazione salariata disoccupata veniva
gradualmente riassorbita nel processo produttivo. Non è così nell’attuale fase
di crisi storica del modo di
produzione capitalistico. Ciò ha per conseguenza che una porzione sempre più
considerevole di lavoratori salariati, avendo cessato di essere necessari per
la valorizzazione del capitale, perdono la loro ragion d’essere (tra l’altro
con tutti gli squilibri sociologici e psicologici del caso), diventano
superflui, in soprannumero. Il costituirsi di una disoccupazione stagnante e in
aumento diviene un risultato regolare e permanente. Pertanto ad accrescere povertà e anomia sociale è per sua stessa natura
il capitalismo del quale i filantropi suddetti sono gli alfieri per
antonomasia.
(*)
«The size and timing of the tax benefits
to Zuckerberg and Chan are uncertain, but they are likely to be large». Inoltre:
«By transferring almost all of their
fortunes to philanthropic organizations, billionaires like Zuckerberg and Gates
are placing some very large chunks of wealth permanently outside the reaches of
the Internal Revenue Service. That means
the country's tax base shrinks».
L' ho già detto altre volte ma val la pena di ricordarlo che siamo davanti ancora al "metodo dialettico" con cui la " superclasse" governa il mondo, cioè qui abbiamo:
RispondiEliminaTesi ( o Azione) = capitalismo
Antitesi( o Reazione) = socialismo
Sintesi ( o Soluzione) = capitalismo per "padroni" e socialismo per i " servi" , che appunto saranno tutti uguali nella LORO povertà.
Daltronde pensiamoci bene , che cosa c'e' nella storia di piu' " comunista" della schiavitù ? :-)
credo, anzi ho certezza, che Umberto Eco nel suo articolo di ieri sul Domenicale pensasse a quelli come lei che straparlano di dialettica
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