Il
capitalista ha necessità di diminuire la parte variabile del capitale (salari) in
rapporto al capitale costante in modo da ottenere un più alto saggio di
sfruttamento del lavoro (plusvalore). Aumentando la parte del capitale costante
e diminuendo quella variabile il rapporto tra capitale complessivo e
saggio del profitto tende a cadere. Il saggio del profitto aumenta in senso assoluto (*), e però tende a diminuire in senso progressivo in rapporto al capitale
investito.
In
altri termini, il capitalista s’accorge che man mano che aumentano i suoi
investimenti, il suo profitto aumenta ma non
in rapporto diretto con l’investimento stesso, e anzi il saggio del
profitto tende a calare. Qui di
seguito un esempio che chiunque è in grado di comprendere senza prendersi la
briga di leggere la terza sezione del terzo Libro de Il Capitale, un'opera notoriamente ostica e poco pasquale:
Poniamo un capitale variabile (v) di 100, il quale rappresenta un determinato numero di operai
messi in movimento; monetariamente supponiamo
che 24.000 € rappresentino il salario di una settimana per questi operai.
Se
essi eseguono un lavoro necessario uguale al pluslavoro, cioè se essi svolgono ogni giorno per se stessi, per
riprodurre il proprio salario, un lavoro la
cui durata sia identica a quella del lavoro eseguito per il capitalista,
ossia per la produzione del plusvalore
(pv),
il valore totale del loro prodotto sarà di 48.000 € e il plusvalore generato da
essi sarà quindi di 24.000 €.
Il
saggio del plusvalore (pv’) sarebbe:
pv’
= pv : v = 100%
Questo
saggio del plusvalore si
esprimerebbe tuttavia in saggi del
profitto assai diversi a seconda della differente grandezza del capitale
costante (c) e quindi del capitale complessivo C (capitale costante + capitale variabile), dato che il saggio di
profitto (p’) è:
p’
= pv : C = pv : (c + v)
Se
il saggio del plusvalore è del 100%, si avrà:
se
c = 50, v = 100,
quindi p’ = 100/150 = 66.6 %
se
c = 100, v = 100, quindi p’ =
100/200 = 50 %
se
c = 200, v = 100, quindi p’ =
100/300 = 33.3 %
se
c = 300, v = 100, quindi p’ =
100/400 = 25 %
se
c = 400, v = 100, quindi p’ =
100/500 = 20 %
Come
si vede, il valore prodotto totale, cioè la sua entità materiale, aumenta, ma il
saggio del profitto tende a diminuire progressivamente in rapporto al capitale
complessivo (C), qualora il grado di sfruttamento del lavoro resti costante oppure, come vedremo subito in un secondo esempio, aumenti.
Per
far fronte alla diminuzione del saggio del profitto, il capitalista
adotta la strategia di sempre: aumentare
lo sfruttamento del lavoro. Tende cioè a diminuire il tempo di lavoro
necessario alla riproduzione della forza lavoro (salario) di modo da aumentare
la quota di pluslavoro, quindi di plusvalore estorto; ma ciò non fa che
aggravare il rapporto fra plusvalore prodotto dalla forza-lavoro ed il capitale
complessivo messo in opera. E siamo punto e daccapo.
Poniamo
gli stessi rapporti dell’esempio precedente, aumentando però da 100 a 150 il
saggio di sfruttamento, cioè del plusvalore (p'):
se
c = 50, v = 100, quindi
p’ = 150/150 = 100 %
se
c = 100, v = 100, quindi p’ = 150/200 = 75 %
se
c = 200, v = 100, quindi p’ = 150/300 = 50 %
se
c = 300, v = 100, quindi p’ = 150/400 = 37.5 %
se
c = 400, v = 100, quindi p’ = 150/500 = 30 %
Come
si vede, dopo un primo momento in cui il saggio del profitto aumenta dal 66%
(esempio precedente) al 100%, ma mano che si accresce il capitale costante e
dunque il capitale complessivo, il rapporto con il saggio del profitto comincia
a decrescere proporzionalmente. Questo fenomeno, nella totalità sociale, rileva
che la tendenza alla caduta del saggio del profitto è generale.
Detto
in termini più spicci, l’aumentata produttività sociale del lavoro comporta che la stessa
quantità di lavoro, per es. otto ore di un operaio, metta in moto una quantità
di mezzi di produzione molto più elevata rispetto al passato. Ciò significa che
se diminuisce la massa del lavoro retribuito contenuto nelle merci, allo stesso
tempo diminuisce anche la massa del lavoro non retribuito e il valore che lo
rappresenta in rapporto alla massa di valore (capitale) investito nella produzione.
A
questo punto il capitalista trova altre forme d’investimento in cui la
remunerazione del capitale ottenga performance migliori. Ecco che dalla sfera
della produzione gli investimenti si trasferiscono alla sfera della
circolazione (nella quale, come si sa, non viene prodotto valore, ma si spartisce il profitto sotto forma di redditi, in tal caso redditi finanziari), ossia in quella della speculazione finanziaria. La sempre più
massiccia concentrazione di capitali in cerca di remunerazione provoca
necessariamente delle bolle speculative. Esse sono dunque l’effetto e non la
causa propria delle crisi, per quanto tali esplosioni sui mercati finanziari costituiscono
un campanello d’allarme sulla situazione più generale e si riflettano nell’economia
reale con fallimenti e depressione.
Pertanto,
una maggiore tassazione del capitale speculativo, se da un lato aiuterebbe gli
Stati nell’affannoso tentativo di riequilibrare la bilancia tra entrate e spese,
dall’altro non può far nulla sul fronte della cosiddetta “crescita”, laddove il
capitale tenderà sempre più a fuggire verso quei paesi che possono garantire
livelli di maggior sfruttamento della forza lavoro; né simili legislazioni
impediranno che il capitale industriale lasci la sfera produttiva per cercare
maggiore redditività nella speculazione, posto che è la stessa natura della
produzione capitalistica, come necessità logica del suo sviluppo, a portare il
saggio generale medio del plusvalore ad esprimersi in un calo del saggio generale del profitto.
(*)
Scrive quel bel tomo di Anselm Jappe: «Lo
sviluppo della tecnologia riduce i profitti nella loro totalità» (Credito a morte, in Contro il denaro, Mimesis, Milano-Udine 2013). Jappe si ostina a
scrivere libri che riguardano Marx e la critica marxiana dell’economia politica,
e però ignora in modo assoluto che “le
stesse leggi producono per il capitale sociale un aumento della massa assoluta del profitto e una diminuzione del
saggio del profitto”. Lo sviluppo tecnologico aumenta la forza produttiva
del lavoro, quindi la massa del plusvalore e quindi la massa assoluta del profitto, malgrado diminuisca in via relativa il
capitale variabile nei confronti di quello costante. Si chiede Marx: “In quale forma deve ora esprimersi questa
legge a doppio taglio della diminuzione del saggio del profitto e del
corrispondente aumento della massa assoluta del profitto, dato che entrambi i
fenomeni hanno le stesse cause?”.
Grazie.
RispondiEliminaE, comunque sia, buona Pasqua.
Mi unisco al grazie.
RispondiEliminaUn piccolo rilievo: le uova di cioccolato buono artigianale sono sempre più care :-(
i lavori di mano fatti ad arte hanno tutt'altro prezzo, come ben sai
EliminaPer ottenere una sempre maggiore produttività nel lavoro, vi è la necessità nell’economia capitalistica di introdurre nuovi e più efficienti metodi e strumenti di lavoro. Proprio l’aumento di produttività genera il fenomeno delle crisi cicliche di sovrapproduzione. Essa porta anche alla distruzione dei beni e alla disoccupazione. Genera altresì la caduta tendenziale del saggio di profitto. Con tale termine Marx intende quella legge per cui aumentando smisuratamente il capitale costante (macchine e materie prime) diminuisce il saggio di profitto cioè il guadagno del capitalista. La legge equivale ad un andamento decrescente ed essa è il "tallone d’Achille" del sistema capitalistico; infatti essa, mettendo in difficoltà la borghesia, finisce per produrre la scissione della società in sole due classi antagonistiche: un giorno vi saranno solo più pochi capitalisti da una parte e molti salariati sfruttati dall’altra. Ma ciò porterà, come accennato più sopra, all’inevitabile rovesciamento del capitalismo e alla rivoluzione proletaria con la vittoria finale del comunismo.
RispondiEliminaCiao Olympe, buona pasqua.
Ciao,
RispondiEliminasenza nulla togliere all'ottima spiegazione, le percentuali del caso con 150 come saggio di sfruttamento sono sballate.
molte grazie, correggo. poi mi metto per una mezz'oretta dietro la lavagna. non di più (devo cucinare il risotto asparagi e pere!). ciao
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