mercoledì 18 settembre 2013

Se cedesse per viltà


Se la classe operaia cedesse per viltà
nel suo conflitto quotidiano con il capitale,
si priverebbe essa stessa della capacità
d’intraprendere un qualsiasi movimento più grande (*).


Le prime due parti del post sono un po’ tecniche, ma la loro comprensione per chi è appassionato a decifrare questioni di ben altra natura e momento – per esempio d’ingegneria idraulica e navale – dovrebbe essere uno scherzo.

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Il salario è regolato da una legge naturale: il suo limite minimo è dato dal minimo fisico di mezzi di sussistenza che l’operaio deve ricevere per conservare e riprodurre la sua forza-lavoro; nulla importa se questo limite minimo di mezzi di sussistenza è dato da una ciotola di farina o da caviale e champagne, poiché ciò non dipende esclusivamente dai meri bisogni fisici, ma anche dai bisogni sociali storicamente sviluppati, che diventano una seconda natura, ossia dal grado dello sviluppo sociale raggiunto.

Il valore di questi mezzi di sussistenza è determinato dal tempo di lavoro richiesto per la loro riproduzione; ossia da una certa aliquota di lavoro aggiunto ex novo ai mezzi di produzione, o, in altri termini, da quella parte della giornata lavorativa di cui l’operaio ha bisogno per produrre o riprodurre un equivalente del valore di tali mezzi di sussistenza necessari. Pertanto, per ciò che è stato detto in premessa, il valore reale dei mezzi di sussistenza differisce secondo il grado di sviluppo sociale raggiunto. In parole semplici, il valore di una ciotola di farina non è ovviamente uguale a caviale e champagne, ovvero il valore degli elementi costitutivi dei mezzi di sussistenza, cioè delle merci, non è sempre lo stesso in ogni epoca e situazione (attenzione però al fatto che a ogni livello di sviluppo, gli uomini entrano in determinati rapporti sociali fra loro, perciò non basta per caratterizzare una società tenere le pupille puntate sulle “tecniche” produttive, vizio del pensiero meccanicista e riduzionista).

Pertanto, posto che il salario medio regolatore è una grandezza data, ne deriva che la parte di valore prodotto dalla forza-lavoro che costituisce il plusvalore (determinato dall’eccedenza della parte non pagata della giornata lavorativa su quella pagata) e che si risolve in profitto e rendita fondiaria (ossia il valore di tutti gli altri redditi), ha un limite il quale è sempre uguale al valore in cui prende corpo la giornata lavorativa complessiva.

Astrazione fatta dalla rendita fondiaria (qui non interessa) e considerando il profitto in rapporto al capitale complessivo anticipato (capitale costante e salari), tale profitto, considerato secondo la sua grandezza assoluta, è uguale al plusvalore, quindi i suoi limiti sono determinati da leggi così come i limiti del plusvalore.

In altri termini, grandezza assoluta del profitto e plusvalore si equivalgono. Il saggio del profitto, ossia il rapporto tra plusvalore e capitale complessivo anticipato, è determinato dal valore delle merci prodotte. Secondo questa legge, la distribuzione del profitto sociale in conformità a questo saggio fra i capitali investiti nelle diverse sfere di produzione, crea prezzi di produzione, che differiscono dai valori delle merci, e che sono i prezzi medi di mercato effettivamente regolati.

Scrive Marx a tale proposito:
«Questo scostamento, tuttavia, non sopprime né la determinazione dei prezzi per mezzo dei valori, né i limiti del profitto, regolati da leggi. Mentre il valore di una merce era uguale al capitale in essa consumato più il plusvalore in essa contenuto, il suo prezzo di produzione è ora uguale al capitale c in essa consumato, più il plusvalore che ad essa tocca in virtù del saggio generale del profitto, per esempio, il 20% sul capitale anticipato per la sua produzione, sia esso consumato o semplicemente impiegato. Ma questa aggiunta del 20% è essa stessa determinata dal plusvalore creato dal capitale complessivo sociale e dal rapporto in cui il plusvalore sta con il valore del capitale. E’ per questo motivo che l’aggiunta è del 20% e non del 10 oppure del 100.
La trasformazione dei valori in prezzi di produzione non sopprime quindi i limiti del profitto, ma modifica semplicemente la sua ripartizione fra i diversi capitali particolari che compongono il capitale sociale, lo distribuisce uniformemente fra di essi, in ragione della quota che essi costituiscono nel capitale complessivo. I prezzi di mercato aumentano o cadono rispetto a questi prezzi di produzione regolatori, ma queste oscillazioni si compensano reciprocamente (*).»
La faccenda della cosiddetta trasformazione dei valori in prezzi, qui appena sfiorata, è chiarissima e variamente e abbondantemente declinata da Marx in diversi luoghi de Il Capitale e nel Teorie del plusvalore (nel III). E tuttavia ciò non è bastato e ha fatto la fortuna – dato il tipo di pubblico di riferimento – di perfetti mistificatori come Sraffa e di molti dei suoi epigoni (per una critica premonitrice a Sraffa, nell’ediz. Einaudi de Il Capitale vedi in partic. pag. 1157 e sgg.; attenzione all’ediz. internet poiché contiene errori di trascrizione: i libri servono ancora a qualcosa!).



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Come s’è visto sopra la massa del plusvalore è determinata dall’eccedenza della parte non pagata della giornata lavorativa su quella pagata, ed essa ha un limite il quale è sempre uguale al valore in cui prende corpo la giornata lavorativa complessiva, in altri termini dal grado di sfruttamento della forza-lavoro.

Ciò che invece può modificarsi è il prezzo del salario, posto che esso ha un limite oltre il quale non può scendere, dato dal minimo fisico di mezzi di sussistenza che l’operaio deve ricevere per conservare e riprodurre la sua forza-lavoro. Per determinare il prezzo del salario è dunque necessario partire – essendo la forza-lavoro una merce – dalla domanda e dall’offerta. Ma di quale domanda di forza-lavoro si tratta? Della domanda del capitale. La domanda di lavoro corrisponde quindi all’offerta di capitale, ma per parlare dell’offerta di capitale, dobbiamo prima di tutto sapere che cosa sia il capitale.

Il suo aspetto più semplice consiste in denaro e merci. Ma il denaro è semplicemente una forma di merce e quindi, il capitale si compone di merci. E qui viene il bello: il valore delle merci è innanzitutto determinato dal prezzo del lavoro che le produce, dal salario. Ma il salario in questo caso è il presupposto ed è considerato come elemento costitutivo del prezzo delle merci. Questo prezzo deve ora esser determinato dal rapporto fra il lavoro offerto e il capitale. Il prezzo del capitale stesso è uguale al prezzo delle merci di cui si compone. La domanda di lavoro da parte del capitale è uguale all’offerta del capitale e l’offerta del capitale è uguale all’offerta di una somma di merci di un prezzo dato e questo prezzo è, innanzitutto, regolato dal prezzo del lavoro e il prezzo del lavoro è a sua volta uguale alla parte del prezzo delle merci, di cui si compone il capitale variabile, che è trasferita all’operaio in cambio del suo lavoro e il prezzo delle merci, di cui si compone questo capitale variabile, è a sua volta in primo luogo determinato dal prezzo del lavoro; poiché esso è determinato dai prezzi del salario, del profitto e della rendita.

Sembra un gioco di parole, ma in realtà si tratta dell’effettivo rapporto che si viene a stabilire tra capitale e lavoro entro tale aspetto. Resta dunque un fatto:

«Al fine di determinare il salario – scrive Marx – , non possiamo partire dal capitale poiché il valore del capitale è esso stesso determinato in parte da salario».

Astraendo dalla concorrenza, che introdotta in questo ragionamento complicherebbe e basta (la cosa è esaminata da Marx nel dettaglio), dunque supponendo che l’offerta e la domanda di lavoro si equilibrino, ciò che vogliamo trovare, è precisamente il prezzo naturale del salario, in altre parole il prezzo del lavoro che non viene regolato dalla concorrenza, ma, al contrario, la regola.

Non rimane dunque che determinare il prezzo necessario del lavoro con i mezzi di sussistenza necessari dell’operaio. Ma questi mezzi di sussistenza sono merci che hanno un prezzo. Il prezzo del lavoro viene dunque determinato dal prezzo dei mezzi di sussistenza necessari e il prezzo dei mezzi di sussistenza, come quello di tutte le altre merci, è determinato in primo luogo dal prezzo del lavoro. Quindi il prezzo del lavoro, determinato dal prezzo dei mezzi di sussistenza, è determinato dal prezzo del lavoro. Il prezzo del lavoro è determinato da se stesso. In altre parole, non sappiamo da che cosa sia determinato il prezzo del lavoro!

Il lavoro, prosegue Marx, in questo caso, ha un prezzo, perché esso è considerato come una merce. Per poter parlare quindi del prezzo del lavoro, bisogna sapere che cosa significhi prezzo in generale. Ma che cosa significhi prezzo in generale, per questa via non riusciamo a saperlo, a motivo del fatto, soggiungo, che gli economisti borghesi allorquando pretendono di spiegare i fatti economici partono dalla circolazione delle merci e non dalla produzione.

Per quale motivo fanno questo? Per mistificare, per imbrogliare, soprattutto. In tal modo, salario, profitto e rendita diventano indipendenti dal valore della merce, sono dati ciascuno per sé, in modo autonomo, ed è solo dalla somma di queste grandezze che risulta la grandezza di valore della merce stessa come risultato dell’addizione di queste tre parti costitutive che formano il suo valore.

È così che si pensa di poter nascondere che è pur vero che il valore della forza-lavoro è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua conservazione o riproduzione, ma l'uso di questa forza-lavoro trova un limite soltanto nella giornata lavorativa complessiva. Scrive Marx:

«Il valore giornaliero o settimanale della forza-lavoro è una cosa completamente diversa dall'esercizio giornaliero o settimanale di essa, allo stesso modo che sono due cose del tutto diverse il foraggio di cui un cavallo ha bisogno e il tempo per cui esso può portare il cavaliere. La quantità di lavoro da cui è limitato il valore della forza-lavoro dell'operaio, non costituisce in nessun caso un limite per la quantità di lavoro che la sua forza-lavoro può eseguire».
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Gli appassionati d’ingegneria idraulica e navale di cui sopra, avranno lasciato il blog da un pezzo, perciò chi legge a questo punto sono solo quei pochi che vogliono imparare qualcosa che i primi ritengono “inutile” (che è pur sempre meglio di non imparare nulla!).

Dunque s’è visto che il salario è il prezzo della forza-lavoro, il quale cambia incessantemente adeguandosi allo stadio di sviluppo economico e alla cultura dei diversi paesi. Tuttavia la tendenza necessaria allo sviluppo capitalistico è quella di abbassare i salari, anche se per periodi limitati di tempo, legati perlopiù alle diverse fasi di espansione del ciclo capitalistico, essi possono aumentare.

È un fatto, per esempio, che in seguito alla meccanizzazione e all’aumento incessante della produttività del lavoro, ovvero riducendosi sempre più il lavoro necessario per produrre i mezzi di sussistenza dell’operaio, il salario relativo (ossia il salario confrontato con il profitto del capitalista) tenda a ridursi in rapporto al tempo di pluslavoro che produce plusvalore, cioè profitto.

E ciò è tanto più vero se si tiene conto del fatto che il salario relativo diminuisce non solo quando diminuisce il salario reale (cioè il salario monetario), ma anche quando esso resta costante o anche quando sale. Tra i fattori economici che spingono verso la riduzione dei salari reali c’è l’inflazione e l’aggravio continuo dei prelievi fiscali. Ecco perché molti capitalisti sono favorevoli all’uscita dall’euro, per poter rendere le loro merci più competitive sul mercato. Per fare ciò ci sono due modi: svalutare i salari o tagliare i profitti. Gli operai e i salariati dei servizi sono presi in una tenaglia, da un lato i capitalisti che puntano su una moneta nazionale in modo da poter svalutare i salari monetari, e dall’altro una politica monetaria degli eurocrati (a dominanza tedesca) che provocando recessione aumentano la disoccupazione e la sotto-occupazione, con ciò provocando l’aumento dell’offerta di lavoro rispetto alla domanda, intensificando con ciò la concorrenza fra gli operai e i salariati.

Al resto pensano i trombettieri alla Eugenio Scalfari, i quali diffondono le più grandi menzogne, come quella che diminuendo i salari e aumentando lo sfruttamento, ossia diminuendo i costi di produzione e aumentando i profitti, prima o poi ciò si tradurrà in un riequilibrio dei fattori (l’esempio dei vasi comunicanti). Con ciò sorvolando sul fatto che tali squilibri sono stati creati ad arte per favorire i maggiori profitti del capitale.

Nella crisi, diventa evidente che la lotta per la ripartizione dei profitti e dei salari non è soltanto una lotta per il mantenimento di condizioni di vita decenti, ma diventa una lotta politica il potere totalitario della borghesia.

(*) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, cap. 14.
(**) Il Capitale, III, cap. 50. Marx prosegue con un’osservazione molto interessante e che forse incuriosirà un qualche lettore: “Se esaminiamo le tabelle dei prezzi relativi a un periodo di una certa durata, e se trascuriamo i casi in cui il valore reale delle merci cambia in seguito ad una modificazione nella forza produttiva del lavoro [cosa che nel modello matematico sraffiano manco viene concepita], e ancora i casi in cui il processo di produzione è stato disturbato da calamità naturali o sociali, rimarremo sorpresi, innanzi tutto, dei limiti relativamente ristretti entro cui si muovono le fluttuazioni, e, in secondo luogo, della regolarità della loro reciproca compensazione. Troveremo qui dominanti le medie regolatrici di cui Quételet ha dimostrato l’esistenza nei fenomeni sociali.

Pertanto, gli scambi individuali, pur casuali, e potendo i prezzi di vendita scostarsi (in regime di concorrenza) dai prezzi di produzione fra i diversi capitali particolari che compongono il capitale sociale, nell’insieme queste oscillazioni si compensano reciprocamente secondo medie regolatrici – in ragione della quota che i diversi capitali particolari costituiscono nel capitale complessivo – ossia secondo legge generale.

Uno dei molti esempi concreti della dialettica caso-necessità in Marx!

2 commenti:


  1. Grazie!

    Dopo questa fatica ti (ci) meriti(amo) un po' di svago.

    Se vuoi(volete) rilassarti (vi) e ridere con un film del filone utopico:

    "Il pianeta verde" su Youtube.

    Un po' lento all'inizio ma abbastanza esilarante dopo. Basta che non ci si voglia vedere solo un inno alla decrescita.

    Ma un pezzettino di blog con scambi e segnalazioni di film che proseguano su altro suppporto i temi del blog? Per molti sarebbe un sollievo evitare di cadere nei tanti pacchi monnezza che girano sotto i più differenti travestimenti. Il solito g

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