Se
la classe operaia cedesse per viltà
nel
suo conflitto quotidiano con il capitale,
si
priverebbe essa stessa della capacità
d’intraprendere
un qualsiasi movimento più grande (*).
Le prime due parti del post sono un po’ tecniche,
ma la loro comprensione per chi è appassionato a decifrare questioni di ben
altra natura e momento – per esempio d’ingegneria idraulica e navale – dovrebbe
essere uno scherzo.
*
Il salario è regolato da una legge naturale: il suo limite minimo è dato dal minimo fisico di
mezzi di sussistenza che l’operaio deve ricevere per conservare e riprodurre la
sua forza-lavoro; nulla importa se questo limite minimo di mezzi di sussistenza
è dato da una ciotola di farina o da caviale e champagne, poiché ciò non dipende esclusivamente dai meri bisogni fisici, ma anche dai bisogni
sociali storicamente sviluppati, che diventano una seconda natura, ossia dal
grado dello sviluppo sociale raggiunto.
Il valore di questi mezzi di sussistenza è determinato dal tempo di lavoro
richiesto per la loro riproduzione; ossia da una certa aliquota di lavoro aggiunto ex
novo ai mezzi di produzione, o, in altri termini, da quella parte della
giornata lavorativa di cui l’operaio ha bisogno per produrre o riprodurre un
equivalente del valore di tali mezzi di sussistenza necessari. Pertanto, per ciò che è stato detto in premessa, il valore
reale dei mezzi di sussistenza differisce secondo
il grado di sviluppo sociale raggiunto. In parole semplici, il valore di una ciotola di farina non è ovviamente uguale a caviale
e champagne, ovvero il valore degli elementi costitutivi dei mezzi di
sussistenza, cioè delle merci, non è sempre lo stesso in ogni epoca e
situazione (attenzione però al fatto che a ogni livello di sviluppo, gli uomini
entrano in determinati rapporti sociali fra loro, perciò non basta per
caratterizzare una società tenere le pupille puntate sulle “tecniche”
produttive, vizio del pensiero meccanicista e riduzionista).
Pertanto, posto che il salario medio regolatore è una
grandezza data, ne deriva che la parte di valore prodotto dalla forza-lavoro che
costituisce il plusvalore (determinato
dall’eccedenza della parte non pagata della giornata lavorativa su
quella pagata) e che si risolve in
profitto e rendita fondiaria (ossia il valore di tutti gli altri redditi), ha un limite
il quale è sempre uguale al valore in cui prende corpo la giornata lavorativa complessiva.
Astrazione fatta dalla
rendita fondiaria (qui non interessa) e considerando il profitto in
rapporto al capitale complessivo anticipato (capitale costante e salari), tale
profitto, considerato secondo la sua grandezza assoluta, è uguale al
plusvalore, quindi i suoi limiti sono determinati da leggi così come i limiti
del plusvalore.
In altri termini, grandezza assoluta del profitto e plusvalore si equivalgono. Il saggio del profitto, ossia il rapporto
tra plusvalore e capitale complessivo anticipato, è determinato dal valore
delle merci prodotte. Secondo questa legge, la distribuzione del profitto
sociale in conformità a questo saggio fra i capitali investiti nelle diverse
sfere di produzione, crea prezzi di produzione, che differiscono dai valori
delle merci, e che sono i prezzi medi
di mercato effettivamente regolati.
Scrive Marx a tale proposito:
«Questo scostamento, tuttavia, non sopprime né la
determinazione dei prezzi per mezzo dei valori, né i limiti del profitto,
regolati da leggi. Mentre il valore di una merce era uguale al capitale in essa
consumato più il plusvalore in essa contenuto, il suo prezzo di produzione è
ora uguale al capitale c in essa consumato, più il plusvalore che ad essa tocca
in virtù del saggio generale del profitto, per esempio, il 20% sul capitale
anticipato per la sua produzione, sia esso consumato o semplicemente impiegato.
Ma questa aggiunta del 20% è essa stessa determinata dal plusvalore creato dal
capitale complessivo sociale e dal rapporto in cui il plusvalore sta con il
valore del capitale. E’ per questo motivo che l’aggiunta è del 20% e non del 10
oppure del 100.
La trasformazione dei valori in prezzi
di produzione non sopprime quindi i limiti del profitto, ma modifica
semplicemente la sua ripartizione fra i diversi capitali particolari che
compongono il capitale sociale, lo distribuisce uniformemente fra di essi, in
ragione della quota che essi costituiscono nel capitale complessivo. I prezzi
di mercato aumentano o cadono rispetto a questi prezzi di produzione
regolatori, ma queste oscillazioni si compensano reciprocamente (*).»
La faccenda
della cosiddetta trasformazione dei valori in prezzi, qui appena sfiorata, è
chiarissima e variamente e abbondantemente declinata da Marx in diversi luoghi
de Il Capitale e nel Teorie del plusvalore (nel III). E
tuttavia ciò non è bastato e ha fatto la fortuna – dato il tipo di pubblico di
riferimento – di perfetti mistificatori come Sraffa e di molti dei suoi epigoni
(per una critica premonitrice a Sraffa, nell’ediz. Einaudi de Il Capitale vedi in partic. pag. 1157 e
sgg.; attenzione all’ediz. internet poiché contiene errori di trascrizione: i
libri servono ancora a qualcosa!).
* * *
Come s’è
visto sopra la massa del plusvalore è determinata dall’eccedenza della
parte non pagata della giornata
lavorativa su quella pagata, ed essa ha un limite il quale è sempre uguale al valore in cui prende corpo la
giornata lavorativa complessiva, in altri termini dal grado di sfruttamento
della forza-lavoro.
Ciò che invece può modificarsi è il prezzo del salario, posto
che esso ha un limite oltre il quale non può scendere, dato dal minimo fisico di mezzi di sussistenza che
l’operaio deve ricevere per conservare e riprodurre la sua forza-lavoro. Per determinare il prezzo del salario è dunque necessario partire
– essendo la forza-lavoro una merce – dalla domanda e dall’offerta. Ma di quale
domanda di forza-lavoro si tratta? Della domanda del capitale. La domanda di
lavoro corrisponde quindi all’offerta di capitale, ma per parlare dell’offerta
di capitale, dobbiamo prima di tutto sapere che cosa sia il capitale.
Il suo aspetto più semplice consiste in denaro e merci. Ma
il denaro è semplicemente una forma di merce e quindi, il capitale si compone
di merci. E qui viene il bello: il valore delle merci è innanzitutto
determinato dal prezzo del lavoro che le produce, dal salario. Ma il salario in
questo caso è il presupposto ed è considerato come elemento costitutivo del
prezzo delle merci. Questo prezzo deve ora esser determinato dal rapporto fra
il lavoro offerto e il capitale. Il prezzo del capitale stesso è uguale al
prezzo delle merci di cui si compone. La domanda di lavoro da parte del
capitale è uguale all’offerta del capitale e l’offerta del capitale è uguale
all’offerta di una somma di merci di un prezzo dato e questo prezzo è,
innanzitutto, regolato dal prezzo del lavoro e il prezzo del lavoro è a sua
volta uguale alla parte del prezzo delle merci, di cui si compone il capitale
variabile, che è trasferita all’operaio in cambio del suo lavoro e il prezzo
delle merci, di cui si compone questo capitale variabile, è a sua volta in
primo luogo determinato dal prezzo del lavoro; poiché esso è determinato dai
prezzi del salario, del profitto e della rendita.
Sembra un gioco di parole, ma in realtà si tratta
dell’effettivo rapporto che si viene a stabilire tra capitale e lavoro entro
tale aspetto. Resta dunque un fatto:
«Al fine di determinare il salario – scrive Marx – , non possiamo
partire dal capitale poiché il valore del capitale è esso stesso determinato in
parte da salario».
Astraendo
dalla concorrenza, che introdotta in questo ragionamento complicherebbe e basta
(la cosa è esaminata da Marx nel dettaglio), dunque supponendo che l’offerta e
la domanda di lavoro si equilibrino, ciò che vogliamo trovare, è precisamente
il prezzo naturale del salario, in altre parole il prezzo del lavoro che non
viene regolato dalla concorrenza, ma, al contrario, la regola.
Non rimane
dunque che determinare il prezzo necessario del lavoro con i mezzi di
sussistenza necessari dell’operaio. Ma questi mezzi di sussistenza sono merci
che hanno un prezzo. Il prezzo del lavoro viene dunque determinato dal prezzo
dei mezzi di sussistenza necessari e il prezzo dei mezzi di sussistenza, come
quello di tutte le altre merci, è determinato in primo luogo dal prezzo del
lavoro. Quindi il prezzo del lavoro, determinato dal prezzo dei mezzi di
sussistenza, è determinato dal prezzo del lavoro. Il prezzo del lavoro è
determinato da se stesso. In altre parole, non sappiamo da che cosa sia determinato
il prezzo del lavoro!
Il lavoro, prosegue
Marx, in questo caso, ha un prezzo, perché esso è considerato come una merce.
Per poter parlare quindi del prezzo del lavoro, bisogna sapere che cosa significhi
prezzo in generale. Ma che cosa significhi prezzo in generale, per questa via non riusciamo a saperlo,
a motivo del fatto, soggiungo, che gli economisti borghesi allorquando
pretendono di spiegare i fatti economici partono dalla circolazione delle merci e non dalla produzione.
Per quale
motivo fanno questo? Per mistificare, per imbrogliare, soprattutto. In tal
modo, salario, profitto e rendita diventano indipendenti dal valore della
merce, sono dati ciascuno per sé, in modo autonomo, ed è solo dalla somma di
queste grandezze che risulta la grandezza di valore della merce stessa come risultato
dell’addizione di queste tre parti costitutive che formano il suo valore.
È così che si pensa di poter nascondere
che è pur vero che il valore della forza-lavoro è determinato dalla
quantità di lavoro necessaria per la sua conservazione o riproduzione, ma l'uso di
questa forza-lavoro trova un limite soltanto nella giornata lavorativa complessiva. Scrive Marx:
«Il valore giornaliero
o settimanale della forza-lavoro è una cosa completamente diversa dall'esercizio giornaliero
o settimanale di essa, allo stesso modo che sono due cose del tutto diverse il
foraggio di cui un cavallo ha bisogno e il tempo per cui esso può portare il
cavaliere. La quantità di lavoro da cui è limitato il valore della
forza-lavoro dell'operaio, non costituisce in nessun caso un limite per la
quantità di lavoro che la sua forza-lavoro può eseguire».
* * *
Gli appassionati
d’ingegneria idraulica e navale di cui sopra, avranno lasciato il blog da un
pezzo, perciò chi legge a questo punto sono solo quei pochi che vogliono imparare
qualcosa che i primi ritengono “inutile” (che è pur sempre meglio di non
imparare nulla!).
Dunque s’è visto che il salario è il prezzo della
forza-lavoro, il quale cambia incessantemente adeguandosi allo stadio di
sviluppo economico e alla cultura dei diversi paesi. Tuttavia la tendenza
necessaria allo sviluppo capitalistico è quella di abbassare i salari, anche se
per periodi limitati di tempo, legati perlopiù alle diverse fasi di espansione
del ciclo capitalistico, essi possono aumentare.
È un fatto, per esempio, che in seguito alla
meccanizzazione e all’aumento incessante della produttività del lavoro, ovvero
riducendosi sempre più il lavoro necessario per produrre i mezzi di sussistenza
dell’operaio, il salario relativo (ossia il salario confrontato con il profitto
del capitalista) tenda a ridursi in rapporto al tempo di pluslavoro che produce
plusvalore, cioè profitto.
E ciò è tanto più vero se si tiene conto del fatto
che il salario relativo diminuisce non solo quando diminuisce il salario reale (cioè il
salario monetario), ma anche quando esso resta costante o anche quando sale. Tra i
fattori economici che spingono verso la riduzione dei salari reali c’è
l’inflazione e l’aggravio continuo dei prelievi fiscali. Ecco perché molti
capitalisti sono favorevoli all’uscita dall’euro, per poter rendere le loro
merci più competitive sul mercato. Per fare ciò ci sono due modi: svalutare i
salari o tagliare i profitti. Gli operai e i salariati dei servizi sono presi
in una tenaglia, da un lato i capitalisti che puntano su una moneta nazionale
in modo da poter svalutare i salari monetari, e dall’altro una politica
monetaria degli eurocrati (a dominanza tedesca) che provocando recessione
aumentano la disoccupazione e la sotto-occupazione, con ciò provocando
l’aumento dell’offerta di lavoro rispetto alla domanda, intensificando con ciò
la concorrenza fra gli operai e i salariati.
Al resto pensano i trombettieri alla
Eugenio Scalfari, i quali diffondono le più grandi menzogne, come quella che
diminuendo i salari e aumentando lo sfruttamento, ossia diminuendo i costi di
produzione e aumentando i profitti, prima o poi ciò si tradurrà in un
riequilibrio dei fattori (l’esempio dei vasi comunicanti). Con ciò sorvolando
sul fatto che tali squilibri sono stati creati ad arte per favorire i maggiori
profitti del capitale.
Nella crisi, diventa evidente che la lotta
per la ripartizione dei profitti e dei salari non è soltanto una lotta per il
mantenimento di condizioni di vita decenti, ma diventa una lotta politica il potere totalitario della borghesia.
(*) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, cap. 14.
(**) Il
Capitale, III, cap. 50. Marx
prosegue con un’osservazione molto interessante e che forse incuriosirà un
qualche lettore: “Se esaminiamo le
tabelle dei prezzi relativi a un periodo di una certa durata, e se trascuriamo
i casi in cui il valore reale delle merci cambia in seguito ad una modificazione
nella forza produttiva del lavoro [cosa che nel modello matematico
sraffiano manco viene concepita], e
ancora i casi in cui il processo di produzione è stato disturbato da calamità
naturali o sociali, rimarremo sorpresi, innanzi tutto, dei limiti relativamente
ristretti entro cui si muovono le fluttuazioni, e, in secondo luogo, della
regolarità della loro reciproca compensazione. Troveremo qui dominanti le medie regolatrici di cui Quételet ha
dimostrato l’esistenza nei fenomeni sociali”.
Pertanto, gli scambi individuali, pur casuali, e potendo i prezzi di vendita scostarsi (in regime di
concorrenza) dai prezzi di produzione fra i diversi capitali particolari che compongono il capitale sociale, nell’insieme queste oscillazioni si compensano reciprocamente secondo medie
regolatrici – in ragione della quota che i
diversi capitali particolari costituiscono nel capitale complessivo – ossia secondo legge generale.
Uno dei molti esempi concreti della dialettica caso-necessità in Marx!
RispondiEliminaGrazie!
Dopo questa fatica ti (ci) meriti(amo) un po' di svago.
Se vuoi(volete) rilassarti (vi) e ridere con un film del filone utopico:
"Il pianeta verde" su Youtube.
Un po' lento all'inizio ma abbastanza esilarante dopo. Basta che non ci si voglia vedere solo un inno alla decrescita.
Ma un pezzettino di blog con scambi e segnalazioni di film che proseguano su altro suppporto i temi del blog? Per molti sarebbe un sollievo evitare di cadere nei tanti pacchi monnezza che girano sotto i più differenti travestimenti. Il solito g
averne di lettori come te. ciao
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