Scriveva Cicerone:
Illiberales autem et sordidi quaestus
mercennariorum omnium, quorum operae, non quorum artes emuntur; est enim in
illis ipsa merces auctoramentum servitutis. […] Opificesque omnes in sordida
arte versantur; nec enim quicquam ingenuum habere potest officina (De
officiis, I, CL).
Indegni
di un uomo libero e sordidi sono anche i guadagni di tutti i mercenari, dei
quali si compra il lavoro manuale, e non l’abilità; poiché in essi
la mercede è per se stessa il prezzo della loro servitù. […] Anche
gli artigiani tutti esercitano un mestiere volgare; una bottega infatti non può
avere nulla di degno di un uomo.
Insomma, il lavoro manuale nell’antica Roma
era considerato degno di schiavi, ed infatti, in genere, erano gli schiavi,
numerosissimi, a sobbarcarsi delle fatiche del lavoro manuale e dei più diversi
servizi, domestici e commerciali.
È un fatto che l’uomo moderno in generale
non s’avveda di ciò che invece era palese per qualsiasi uomo antico, ossia che
un uomo che lavora per un altro uomo è il suo schiavo. Ciò vale sia nel caso il
lavoratore venda il proprio lavoro a un padrone individuale sia che la
proprietà si configuri come capitalista collettivo.
Questo atteggiamento dipende dal fatto che la coscienza individuale diventa coscienza
soltanto realizzandosi nelle forme ideologiche dell'ambiente che gli sono date,
e dunque nelle forme che sono il prodotto dell'ordine economico e sociale dominante.
In un sistema nel quale domini una forma meno diretta di schiavitù, dove cioè
il lavoratore è formalmente libero, prevalgono forme mistificate della sottomissione
come costrizione effettiva, tanto più se tale apparenza costituisce il motivo
ideologico e giuridico fondamentale sul quale poggia e si giustifica l’intero
ordinamento sociale.
* * *
E le plebi, ossia gli uomini liberi non dotati
di mezzi propri, di cosa vivevano? Provvedeva l’annona, ossia lo Stato con
distribuzioni anzitutto di granaglie (frumentationes
publicas) e gratifiche di carne di maiale (caro porcina). Scrive Carcopino che al tempo di Cesare e di Augusto
l’annona aveva a suo carico 150mila bocche da sfamare; al principio del regno
di Settimio Severo, ossia all’epoca del congiarium
del 203, il numero degli assistiti arrivava a 175mila con un aumento del 16,6%. Ma Santo Mazzarino, nonché gli uffici della prefettura urbana che con grande diligenza eseguivano
i rilievi demografici, ci danno cifre diverse, ossia 250mila cittadini maschi
assistiti in epoca cesariana e oltre 300mila già in epoca augustea, essendo
stata estesa la frumentazione gratuita ai fanciulli.
Una cifra non dissimile l’abbiamo
nel 367 per i soli gratificati di caro
porcina, laddove la popolazione di Roma tardo imperiale non fu
sensibilmente inferiore a quella del primo principato, tanto da poter escludere,
nonostante la peste antonina e la denatalità delle classi alte, la vulgata
opinione della Entvolkerung, il
regresso demografico in Roma e nelle città capitali, essendosi compiuto quel
processo di alta tendenza all’urbanesimo (diverso sarà l’andamento demografico
nel Tardo Antico nelle campagne, per motivi fiscali).
Anche
nell’antica Roma fu assai grave il problema – specie nel periodo tardo – della
presenza dei “peregrina”, ovvero degli extracomunitari ante-litteram, molto
numerosi essai provocavano un aumento della domanda derrate alimentari con
conseguente carenza degli stessi in commercio e salita dei prezzi.
Poi c’erano le frequenti distribuzioni di
denaro al popolo (cittadini). Nella Res
Gestæ di Augusto si può leggere: «Questi
miei congiari non pervennero mai a meno di 250mila uomini. Quando rivestivo la
potestà tribunizia per la diciottesima volta ed ero console per la dodicesima
volta diedi sessanta denari a testa a 320mila appartenenti alla plebe urbana». Ad ogni elezione o conquista gli imperatori
distribuivano denaro, imbandivano centinaia e anche migliaia di mense,
organizzavano giochi di ogni tipo per intrattenere gente di ogni condizione
sociale. Venivano adottati anche provvedimenti amministrativi o
fiscali per la sovvenzione per ragazzi e ragazze bisognosi dell'Italia romana,
come nel caso di Traiano.
Se
gli schiavi avevano dei padroni, i liberti non erano da meno poiché
continuavano a dipendere da dei patroni, così come la numerosa clientela fatta
di uomini liberi: tutti, dal parassita al gran signore, ogni romano si
considerava legato al più potente di lui dagli stessi obblighi di rispetto, di obsequium, per usare un termine tecnico.
Dunque
un sistema esteso e collaudato di misure di assistenza statale, di welfare si
direbbe oggi, e di clientele. Il caso di Roma non era isolato, tutte le città
per i loro approvvigionamenti dipendevano più o meno regolarmente dall’importazione
di commestibili dai territori circostanti e dal commercio. Tale tipo di mercato
nelle città delle province non era regolato dal governo centrale che anzi
frapponeva non pochi ostacoli al libero svolgimento dei traffici di generi
alimentari, poiché per gli imperatori e i loro agenti era urgente salvaguardare
l’approvvigionamento della città dominante, dalla quale dipendeva il loro
potere.
Tuttavia,
nonostante il gran numero di disoccupati cronici, ossia di mantenuti e di
assistiti, e di rentiers, il carattere
stesso di metropoli di Roma ne faceva una città di fittissimi traffici e di
intensa attività manifatturiera, con decine di migliaia di addetti. Non solo
schiavi e liberti, dunque, ma anche cittadini. Il giudizio di Cicerone sulla categoria
dei commercianti non fu per nulla lusinghiero: “Sordidi etiam putandi,
qui mercantur a mercatoribus, quod statim vendant; nihil enim proficiant, nisi
admodum mentiantur; nec vero est quicquam turpius vanitate”. Magliari.
Tutta
questa manna imperiale di spesa pubblica poteva durare e durò fino a quando ci
furono da spartire entrate tributarie e le province inviarono i loro carichi di
merci e provviste, finché poi le conquiste garantirono manodopera a basso
prezzo. Per mantenere la sussistenza, gli ozi e i vizi dei romani, fossero essi
nobili o plebei, “il bifolco arabo si
privava del pane e i numidi tessean preziose lane”, ebbe a scrivere
Petronio.
Le città antiche di quell’epoca non dovevano solo far fronte alle
spese dell’annona, dei giochi e delle terme, dell’oneroso mantenimento delle
strade, a quelle per l’educazione pubblica e per l’addestramento fisico dei
giovani e dei vecchi, ma soprattutto dovevano far fronte alle spese per
mantenere l’esercito. Ed erano ormai lontani i tempi del rigorismo tiberiano in
cui l’imperatore preferiva dare cibaria
piuttosto che salaria ai suoi comites.
Sintomatico il fatto che Giuliano augusto prometta ai soldati cento denari d’argento
a cranio come premio per il buon esito di un’impresa militare ed essi sdegnino
l’esiguo donativo (Ammiano. XXIV, III, 3).
Insomma,
per tagliar corto, l’impero si trovò a dover fronteggiare non solo le minacce
ai suoi confini, ma una crisi economica e fiscale che infine ne avrebbe deciso
le sorti molto più che altre contingenze infauste. A nulla valsero i tentativi
di affermare il corso forzoso dell’argenteus,
cioè di una moneta di rame bagnata d’argento, da parte di Diocleziano.
Sarà
quello che prima o poi capiterà al sistema monetario attuale misurato sul dollaro inconvertibile.
Dopo la tetrarchia ci pensò Costantino ad ancorare il sistema monetario
all’oro, ossia a un valore reale, ma data la situazione ciò infine favorirà le
grandi ricchezze del latifondo senatorio ed ecclesiastico, e quelle dei grandi
commercianti.
Ai poveri penseranno personaggi come Ambrogio, già alto
funzionario imperiale, secondo la geniale intuizione costantiniana che
trasformerà i clerici dell’ecclesia
catholica in funzionari dello Stato romano. Porre poi la questione se si
sia trattato di vera conversione di Costantino o di un puro politicismo, è
questione del tutto sterile quando si ha a che fare con il costruttore di un
organismo statuale unitario destinato a sopravvivere per molti secoli. Ovvio
che una simile rivoluzione doveva avere una sua nuova forma che, non potendo
essere in quel frangente storico solo politica o solo religiosa, fu politica e
religiosa insieme.
Non posso valutare le tue conclusioni perché credo siano fondate su un assunto sbagliato (poi magari risulteranno ancora giuste benché fondate su un altro). Tu apri dicendo: "È un fatto che l’uomo moderno in generale non s’avveda di ciò che invece era palese per qualsiasi uomo antico, ossia che un uomo che lavora per un altro uomo è il suo schiavo". Bè, questo paragone, seppur linguisticamente corretto e accattivante, non è storicamente vero. I due tipi di schiavitù sono differenti. Quella romana fu una schiavitù nella quale solo la concessione superiore poteva liberare, quella contemporanea (e non moderna) empiricamente metaforica è semmai legata al "denaro che, cinicamente, libera" più che all'uomo, o la collettività, per cui si lavora.
RispondiEliminaovvio che vi siano delle differenze, non per nulla parlo di forma meno diretta di schiavitù, dove cioè il lavoratore è formalmente libero. tale apparenza – scrivo – costituisce il motivo ideologico e GIURIDICO fondamentale sul quale poggia e si giustifica l’intero ordinamento sociale.
Eliminaed è proprio il nostro punto di vista ideologico, determinato così come spiego, che ci rende faticoso superare le apparenze.
il denaro, poi, anche anticamente serviva per il riscatto.
in ultima analisi la sostanza del rapporto che si stabilisce non è molto diversa. due pareri autorevoli, oltre a quello citato di cicerone. uno di un economista borghese e l'altro di un personaggio un po' diverso.
«Allorché un individuo è costretto a pagare e a lavorare per altri, questo individuo è lo schiavo degli altri» (Maffeo Pantaleoni, La caduta della Società Generale di Credito mobiliare Italiano, UTET, 1988).
«Lo schiavo romano era legato al suo proprietario da catene; l’operaio salariato lo è al suo da invisibili fili. L’apparenza della sua autonomia è mantenuta dal continuo mutare dei padroni individuali e dalla fictio juris del contratto» (Il Capitale, I, cap. XXI).
grazie del commento
Noterella a margine di questo bellissimo post.
RispondiEliminaUna buona parte, forse la maggior parte, delle elargizioni di carne alla plebe urbana veniva dai sacrifici animali compiuti regolarmente e in quantità enorme dai sacerdoti (i quali come è noto formavano un "clero" piuttosto diverso dall'attuale, molto meno teocratico e assai più laico). Dopo il sacrificio la carne che non veniva offerta agli dèi, la maggior parte, era destinata al pasto rituale dei fedeli e poi alla distribuzione pubblica. Non si buttava via niente, come era giusto. Esistono studi in proposito. Non è facile fare stime e statistiche, ma è possibile sostenere che per secoli molta gente abbia mangiato, e non malissimo, tutti i giorni anche grazie a quelle elargizioni sacre, oltre che alle frumentationes e ai donativi. L'idea del sacrificio animale oggi ci fa (giustamente) orrore, ma va dato atto agli antichi che la loro fede aveva anche risvolti di politica sociale nient'affatto disprezzabili. Oltretutto non risulta che i collegi sacerdotali avessero lo IOR. Ed è vero che i templi potevano essere esenti dalle imposte, così come la Chiesa non paga l'IMU, ma almeno molti templi erano belle o almeno dignitose architetture. Non come le orribili chiese-capannone che ammorbano i nostri squallidi paesaggi urbani.
gli architetti moderni non hanno letto vitruvio. ciao
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