venerdì 31 marzo 2023

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Bakhmut sta diventando la Verdun ucraina: la Russia si prepara a mobilitare altre centinaia di migliaia di coscritti, gli USA-NATO stanziano miliardi e inviano armi perché il massacro continui. Per quanto riguarda i media, la cosiddetta legge di Godwin sembra essere il vero obiettivo delle due tifoserie in campo. Per quanto riguarda Putin, non è vedendo Satana ovunque che riusciremo a farci un’idea dell’inferno. Per quanto riguarda l’invio dei carri armati tedeschi il parallelismo con la Germania di Hitler non rende più intelligibile quanto sta avvenendo.

Sta diventando sempre più chiaro che la “nuova epoca” in politica estera proclamata da Scholz e dalla sua coalizione semaforica non è diretta solo contro la Russia. La Germania si sta riarmando come non accadeva dagli anni Trenta. La classe dirigente tedesca sta usando l’invasione russa dell’Ucraina provocata dalla NATO per riarmare la Germania, militarizzare tutta l’Europa sotto la guida di Berlino e ristabilirsi come prima potenza bellica. Martedì si sono svolte le quarte consultazioni del governo tedesco-olandese, tutte incentrate su questa politica. L’obiettivo è l’integrazione dell’esercito olandese nella Bundeswehr.

Cento miliardi di euro, questa è la dotazione eccezionale annunciata nel 2022 dal cancelliere tedesco Scholz per la Bundeswehr. Crediti eccezionali destinati al riarmo si aggiungono alla promessa di un consistente aumento del budget annuale della difesa, tanto che fonti militari parlano della necessità di triplicare tale impegno.

Questo annuncio e altri simili di altri Paesi europei sono la conseguenza del ritorno di una guerra su larga scala nel continente europeo.

Der Spiegel ha accusato Scholz e il governo tedesco di non essersi resi indipendenti dal “potere protettivo degli Stati Uniti” abbastanza velocemente e di “formare una potenza nucleare dalla Repubblica Federale”. Solo qualche anno fa un simile riarmo tedesco e un simile discorso sul nucleare sarebbero apparsi fuori dalla realtà del mondo.

Stiamo trattando tutta la questione della guerra in Ucraina, del generale riarmo e della preparazione della guerra con la Cina in modo metafisico, come se la cosa riguardasse gli “altri”. Stiamo sottovalutando, irresponsabilmente, quanto sta avvenendo e ciò che si sta preparando. Se non ci sarà una forte opposizione al riarmo e alla guerra ora, poi sarà troppo tardi.

giovedì 30 marzo 2023

Tornare a contare qualcosa

 

Eccoci, tre anni dopo il covid, completamente sfiniti, con la sanità pubblica allo stremo e tutto il resto sull’orlo del precipizio. Depressi dall’orrore della guerra in Ucraina, cui nessuno intende mettere fine, dalla poca vita che ci viene imposta, dalla povertà dei sogni. Senza speranza e solo la voglia di sputare in faccia a coloro che si presentano come nostri rappresentanti politici, il cui ruolo dovrebbe essere quello di assicurarci una vita migliore, e non di ridurci sempre più alla mera e stentata sopravvivenza.

Che cosa rimane del progetto politico? Le vuote diatribe attorno a Ernest Renan, di cui si dimenticano in particolare le turpi osservazioni sulla naturale superiorità della razza bianca. Nessuno, nemmeno i fascisti avrebbero potuto immaginare che sul proscenio del discorso politico un giorno si arrivasse a tanto. E gli altri, chi di loro si prende il tempo di pensare a qualcosa di serio? Che cosa rimane dei loro discorsi, oltre alla vanità mediatica di un piccolo genere umano?

Presi nel loro ego e dai loro miserabili calcoli politici, non solo non ci ascoltano, ma si organizzano contro di noi, ci attaccano. Da decenni siamo governati da chi dovrebbe difendere l’interesse generale e invece gestisce la cosa pubblica come le società quotate in borsa. Siamo consegnati in mano a gente che sembra essere stata formata da Amazon, ed effettivamente molti di loro si sono formati presso le grandi banche internazionali. Il risultato è che il personale competente sta fuggendo dagli ospedali, dalle università, dai laboratori di ricerca, da dove non c’è prospettiva e si pagano stipendi ridicoli.

È ragionevole continuare a dar fiducia a degli infami manipolatori che hanno l’ignominia di rimproverarci di non essere democratici perché non andiamo a votare? Che nessuno voti più, che l’assenza generale di voto diventi il primo grande atto politico con cui crolla finalmente questo ignobile sistema. A cominciare dalle prossime elezioni europee, un vasto e massiccio movimento di protesta continentale che rifiuta il voto a chi tradisce il patto politico con leggi canaglia a favore dei mercati finanziari.

Decidere che non acconsentiamo più a una simile mascherata. Le elezioni non sono, come ancora molti, sempre troppi, sono portati a credere, gli unici momenti in cui ci viene riconosciuta la nostra libertà di decidere. Si può rovesciare tutto facendo uno sciopero elettorale generale. Sarebbe l’inizio di un nuovo modo di vivere politicamente e, per ognuno di noi, un risveglio, un tornare a contare qualcosa.

mercoledì 29 marzo 2023

La talassocrazia americana si prepara alla guerra

 

«Abbiamo 56 navi in costruzione e altre 76 sotto contratto», ha dichiarato ieri l’ammiraglio Michael M. Gilday, capo delle operazioni della Marina degli Stati Uniti, in un’audizione della sottocommissione per la difesa degli stanziamenti del Senato.

L’USS Nevada, sottomarino a propulsione nucleare di classe Ohio che trasporta 20 missili balistici Trident e dozzine di testate nucleari.

La politica internazionale degli Stati Uniti, dal dopoguerra fino ad anni recenti, ha perseguito l’obiettivo di rendere gli altri Stati o simili, facendoli adottare un regime modellato a immagine e somiglianza di quello statunitense, oppure inoffensivi, cioè meramente allineati con la loro egemonia o quantomeno neutrali rispetto ai suoi interessi strategici.

Si cominciò con la democratizzazione dall’alto di Germania e Giappone (1945-51); il sostegno al governo greco nella guerra civile (1946-49); ingerenze in favore della Democrazia cristiana in Italia (1948); i golpe in Perù e Venezuela (1948), quindi il sostegno all’ingresso della Nato di Portogallo (1949) e Turchia (1952).

Sovvertimento dei governi eletti in Iran (1953) e Guatemala (1954); sostegno a Diệm in Vietnam del sud (1954-61); intervento in Libano 1958; organizzazione e sostegno all’invasione di Cuba (1961); collaborazione con le dittature anticomuniste del sud-est asiatico (1961-63); sostegno al golpe militare contro Diệm (1963).

Operazione Power Pack nella Repubblica domenicana (1965-66); collaborazione con le dittature anticomuniste del sud-est asiatico (1963-69); supporto all’instaurazione del regime dei Gorillaz in Brasile (1964); golpe in Argentina (1966); sostegno al golpe in Cile (1973); patrocinio della CIA all’operazione Condor (1973); riconoscimento del governo argentino di Videla (1976); sostegno alla giunta militare di El Salvador (1979-80); operazione Urgent Fury a Grenada (1983); sostegno al Contras in Nicaragua (1981-89).

Il seguito è abbastanza noto.

Veniamo all’oggi: la Cina non è assimilabile agli Stati satellite di Washington, né alle potenze che possono essere rese inoffensive. La RPC è un competitore a tutto campo, un nemico mortale. La strada è obbligata: la guerra.

Il massiccio riarmo di cui ho dato conto in apertura fa parte di un piano della marina statunitense per avere un totale di 373 navi con equipaggio (347.000 marinai) e 150 senza equipaggio, rispetto alle 296 attuali.

La Marina militare è la componente più importante nello scacchiere del Pacifico, non da oggi.

La Cina ha attualmente due portaerei operative, entrambe alimentate a diesel: la Liaoning e la Shandong, e una terza, la Fujian, che forse ha completato la fase di allestimento; una quarta portaerei è in fase di costruzione nel cantiere di Jiangnan (dodici anni fa ho scritto un post sulla flotta subacquea cinese che può ancora offrire un’idea di questa forza navale).

Gli Stati Uniti hanno una flotta che conta, tra l’altro, 11 portaerei a propulsione nucleare, che possono trasportare più di 1.000 aerei d’attacco, superando il numero complessivo di aerei d’attacco trasportati dalle marine di tutte le altre nazioni, più di 70 sottomarini, cui s’aggiungono 300 elicotteri, il corpo dei Marines (204.000 unità), una fitta rete di basi e punti di appoggio, alleati e partner in tutto il pianeta blu.

Il budget della sola Marina militare per l’anno fiscale 2024 supera i 250 miliardi di dollari, con un aumento di 11 miliardi di dollari rispetto all’anno precedente, con 32,8 miliardi di dollari nel solo anno fiscale 2024 per l’acquisizione di 9 mezzi navali, incluso un sottomarino con missili balistici classe Columbia, due sottomarini d’attacco di classe Virginia, due cacciatorpediniere di classe Arleigh Burke, due fregate di classe Constellation.

Nell’anno fiscale 2025, la Marina prevede di acquistare altre sette navi, tra cui due sottomarini, due cacciatorpediniere, una fregata, una nave di sorveglianza oceanica e una super nave da sbarco.

L’ammiraglio Samuel J. Paparo, comandante della flotta del Pacifico, ha affermato che «La Marina sta radunando in questo momento circa 300 navi, e ci sono circa 100 navi in mare in questo momento in tutto il mondo».

Tanto per chi avesse ancora dei dubbi a riguardo delle intenzioni degli Stati Uniti.

martedì 28 marzo 2023

L'euro spiegato sgranocchiando un panino al salame

 

Ieri, siamo entrati in un negozio alimentari, abbiamo chiesto se fanno dei panini. Ne abbiamo acquistati tre con il salame (cinque fette tagliate con l’affettatrice per ogni panino). Mi hanno chiesto 18 euro, sei euro a panino. Se 23 anni fa mi avessero detto che per tre panini del genere avrei pagato fra vent’anni il corrispondente di quasi 36 mila lire, la prima domanda che avrei posto sarebbe stata questa: come potrà reggere l’economia italiana se si pagheranno salari medi corrispondenti a 10 milioni di lire il mese? Peccavo d’ingenuità.

La valuta è stata svincolata dalla deliberazione collettiva a favore di una Banca centrale europea indipendente dai governi eletti: i tecnocrati di Francoforte non sono responsabili se non in termini di tassi di inflazione e aggregati economici, che sono più docili dei vecchi popoli sovrani.

L’euro è parte integrante della storia della sinistra convertita al culto monetario (i social- liberali, come amano definirsi), che cercava di convincere che con la moneta unica europea si potesse garantire la prosperità, la pace e la giustizia sociale, quindi sostituire le ormai odiate “ideologie” e la proposta politica con l’automatismo economico. Anche il grande capitale fu molto contento di questa creazione di un grande vuoto di sovranità, dell’assenza di un potere pubblico che potesse opporsi ai poteri privati.

La costruzione europea diventa fine a sé stessa, i partiti che si proclamano di sinistra corrono davanti ai liberali, e anche le marginali forze più radicali in definitive si sono adeguate. Nel Trattato di Maastricht, che prevedeva la creazione dell’euro e della Banca centrale europea, e nei successivi s’insisterà ossessivamente per neutralizzare qualunque discrezionalità sovrana.

In Italia non fu indetto alcun referendum, e pochissimi alzarono paglia. Il potere sa quanto sia davvero pericoloso sottoporre le persone a cose di cui comunque non capiscono nulla: la politica monetaria, la politica di bilancio, eccetera. Meglio tenerle lontane dalle questioni che riguardano le conseguenze: come il calcolo dei punti di crescita, dell’inflazione, della percentuale di svalutazione dei salari, dei guadagni delle nostre esportazioni, eccetera. E sarà dura recuperare il diritto di discutere senza filtri e con rigore analitico di tutto ciò di cui ci è proibito discutere.

Il 1° gennaio 2002 l’euro entrò in circolazione in 11 paesi europei. L’iconografia delle banconote rivela il vuoto di una comunità monetaria senza identità politica: archi, portefinestre e ponti. Simboli astratti, disincarnati, senza sapore, senza storia o empatia. L’Unione europea, con la feticizzazione della sua moneta, si è dichiarata autosufficiente come potere di per sé. Iniziò così un periodo di letargo critico sulla questione della moneta unica e una lunga litania di “ce lo chiede l’Europa”.

La Germania ottenne uno stretto controllo dell’inflazione e una valuta forte per le sue esportazioni di fascia alta. Oggi, inflazione e crisi finanziaria stanno mandando tutto all’aria, con i tassi debitori italiani, greci, spagnoli, irlandesi e portoghesi che stanno aumentando vertiginosamente.

L’inflazione, con la svalutazione della moneta, significa taglio dei salari e della spesa pubblica. Ed eccoci ai miei tre panini con salame a 36 mila lire espressi in euro.

Una rivoluzione di portata epocale

 

Chissà che reazione avrebbe avuto Karl Marx se gli avessero detto che senza packaging non ci sarebbe stato lo sviluppo del capitalismo quale l’abbiamo conosciuto in poco più di un secolo (il cartone arriva solo alla fine dell’800, la plastica molto dopo). Il packaging protegge le merci dal punto di vista sanitario, logistico e normativo, ha sostenuto lo sviluppo delle grandi aziende, fatto nascere i marchi e permesso la tracciabilità (offre uno spazio per informazioni e comunicazioni).

La vendita dei prodotti sfusi non esiste più, salvo pane, frutta, verdura e pesce, ma l’imballaggio industriale è sempre più “avvolgente” anche per questi alimenti. Il cibo rappresenta oltre il 60% del mercato degli imballaggi flessibili, tipo il polietilene, che viene utilizzato principalmente per gli imballaggi in film plastico (è una resina termoplastica semicristallina leggera con forte resistenza chimica e basso assorbimento di umidità).

Il mercato globale degli imballaggi è stato valutato a 1.002 miliardi di dollari nel 2021, e si prevede che raggiungerà 1.275 miliardi di dollari entro il 2027. E però il packaging è una delle principali fonti di inquinamento avendo tanta parte nella produzione dei rifiuti, che sono un altro punto cieco della modernità. Qualcosa rispetto a questo problema s’è fatto, ma siamo ben lontani da soluzioni adeguate. L’UE ha applicato una tassa sui contenitori monouso, tassa che poi inevitabilmente ricade sui consumatori (*).

Quella del riciclo dei rifiuti è un’economia come le altre. Vetro e alluminio sono rincarati tantissimo e questo è uno dei motivi (l’altro è che la Cina non è più disposta a fare da discarica) per cui i grandi marchi del beverage stanno puntando su contenitori come le bottiglie di “carta” (poliaccoppiato, tipo il Tetra Pak) o gusci di cellulosa e plastica come la Coca Cola.

Quando sento parlare di “economia circolare”, di “sviluppo sostenibile incentrato sulla necessità di una maggiore sobrietà nell’uso delle risorse naturali”, e altri concetti del genere, il primo pensiero che mi viene è questo: questi sono discorsi in malafede. La logica economica insita nel capitalismo è, in larga misura, antagonista alla logica specifica dello sviluppo sostenibile.

Mentre lo sviluppo sostenibile pone la questione dei bisogni al centro delle preoccupazioni e degli obiettivi, il capitalismo si basa inevitabilmente sulla ricerca della valorizzazione del capitale. Non può cambiare la sua natura, procedere contra legem. In secondo luogo, il rapporto con il tempo non è lo stesso. Il capitale privilegia il breve termine mentre lo sviluppo sostenibile è particolarmente interessato al lungo termine (la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni).

Le determinazioni più fondamentali del capitalismo, che agiscono come leggi di natura, sopravanzano sempre le determinazioni della politica, ossia la legislazione, che deve giocoforza inseguire. Il riformismo può ottenere dei risultati, ossia mitigare certi effetti del mercato, ma poiché non può superare l’esistenza di un antagonismo sistemico, ossia venire a capo della contraddizione tra la logica della sostenibilità e la logica sottostante al sistema economico dominante. Sono possibili compromessi per far coesistere le due logiche, ma essi resistono fino a un certo punto.

Il capitalismo non riguarda i bisogni umani (è indifferente produrre carri armati o siringhe), il suo scopo è la valorizzazione del capitale, la quale nei cicli più favorevoli determina un aumento dei salari e di redditi indiretti, che ha portato a un aumento senza precedenti dei consumi. Questo periodo segna l’ascesa dei beni domestici, dell’auto e anche di alcuni beni pubblici: reti di approvvigionamento idrico ed elettrico, altre infrastrutture civili e, naturalmente, sanità e istruzione.

Questi incrementi significativi di produttività hanno consentito allo Stato di prendersi la sua quota di crescita, attraverso la tassazione, e quindi di garantire la fornitura dei beni pubblici in questione, favorendo a sua volta la crescita economica. Ciò tuttavia non elimina la contraddizione tra “valore di scambio” delle merci e il “valore d’uso” dei beni prodotti, tra produzione sociale della ricchezza e appropriazione privata del surplus, che è poi all’origine delle crisi economiche.

I tentativi di superare questa contraddizione, messi in opera nel corso del XX secolo, al massimo hanno consentito di realizzare in paesi economicamente arretrati un capitalismo spurio, di consentire il costituirsi di un’accumulazione originaria, di una forte industria di base, ma in definitiva hanno tradito l’obiettivo, mancando di offrire una adeguata strutturazione dei bisogni sociali. In altri termini, la formalizzazione burocratica dei bisogni, in un ambiente economico arretrato e volto principalmente all’incremento dell’industria di base e degli armamenti, non poteva tradursi in una vera risposta alla domanda sociale di beni di consumo.

L’esempio forse più virtuoso e se vogliamo “romantico” (o meno brutale) dell’esperimento “socialista” è stato quello di Cuba. Anche in tal caso, per una complessa serie di motivi, non si è eliminata una diffusa penuria e non si è superato un certo stato di sottosviluppo materiale. Oggi, invece, con lo sviluppo tecnologico e il livello inedito raggiunto dalla produttività del lavoro, è possibile guardare con occhi nuovi al superamento delle storiche antinomie indotte da motivi di competitività e di valorizzazione del capitale privato, garantendo al contempo alte condizioni per la solvibilità della domanda e superando le forti disuguaglianze di reddito e il consumo di beni privati da parte di una frazione privilegiata della popolazione.

Tutte cose che non sono realmente all’ordine del giorno dell’agenda politica, che ad ogni modo non sono realizzazioni da affidare al breve periodo e possono essere affrontate solo sotto l’incalzare di particolari condizioni economico-sociali che stanno maturando. Per chiarezza: nulla a che vedere con il richiamo all’immoralità del capitalismo e dei suoi attori, insensibili alle disgrazie dei poveri e alle sfide dello sviluppo sostenibile. Le intenzioni individuali non sono in discussione, sono in questione le caratteristiche strutturali del sistema e una rivoluzione di portata epocale.

(*) I rifiuti non sono sempre esistiti, o almeno non in queste gigantesche proporzioni. Prima del XIX secolo, vigeva un’economia di vero riciclo dei rifiuti, che peraltro erano in rapporto a consumi mediamente scarsi e i materiali di scarto venivano usati per fare altro: gli stracci per fare la carta, i rifiuti organici nei campi, l’urina per la fabbricazione dei tessuti, eccetera. Anche i vestiti venivano riciclati in famiglia, e per quanto riguarda gli utensili non più in uso, in Veneto è noto l’adagio: roba de canton, non perde mai de stajon, che tradotto significa non si butta nulla.

Napoli fu un esempio luminoso del riutilizzo dei rifiuti a scopi agricoli! È molto nota la descrizione che ne diede Goethe, ma vale la pena ricordarne alcuni passi:

Moltissimi sono coloro – parte di mezza età, parte ancora ragazzi e per lo più vestiti poveramente – che trovano lavoro trasportando le immondizie fuori città a dorso d’asino. Tutta la campagna che circonda Napoli è un solo giardino d’ortaggi, ed è un godimento vedere le quantità incredibili di legumi che affluiscono nei giorni di mercato, e come gli uomini si dian da fare a riportare subito nei campi l’eccedenza respinta dai cuochi, accelerando in tal modo il circolo produttivo. Lo spettacoloso consumo di verdura fa si che gran parte dei rifiuti cittadini consista di torsoli e foglie di cavolfiori, broccoli, carciofi, verze, insalate e aglio, e sono rifiuti straordinariamente ricercati. [...] E con quanta cura raccattano lo sterco di cavalli e di muli! (Viaggio in Italia: Napoli, 27 maggio; Oscar Mondadori, p. 371).

Quando sciopera la nettezza urbana, o non funziona come a Roma e simili, ci rendiamo conto del volume di spazzatura che produciamo ogni giorno e che di solito scompare come per magia.

I netturbini sono l’ingranaggio essenziale del sistema di consumo: i rifiuti devono essere rimossi per mantenere l’ordine, per continuare a produrre e a consumare. I netturbini sono destinati a non farsi vedere, perché intervengono la mattina all’alba o anche prima, e dunque il loro lavoro resta invisibile: la strada è spazzata e la monnezza raccolta. Li vediamo solo quando il loro camion blocca una strada e interrompe la fluidità del traffico. Il loro lavoro è fondamentale, ma nessuno vuole che i propri figli facciano i netturbini, e ciò non è legato alla difficoltà delle condizioni di lavoro o al salario.

Nel pensiero igienista che ci accompagna dal secolo scorso, c’è tutta un’immaginazione spaventosa intorno alla monnezza: abbiamo paura delle epidemie, dei topi, dei cadaveri di animali e perfino umani, di siringhe infette e di altro ancora che potrebbero sopraffarci. Ci sono certamente reali problemi di salute pubblica, ma la fantasia esagera la portata di questi rischi poiché queste cose in fondo accadono raramente, salvo per coloro che ai margini di favelas e simili scavano il sudicio filone della spazzatura.

Eppure nessuno sceglie il mestiere di netturbino come prima scelta. Prevalentemente sono persone senza qualifiche e migranti che non sono riusciti a trovare un altro lavoro. Spesso hanno vissuto uno, anche due o tre licenziamenti, e sono pronti a tutto pur di trovare un’occupazione stabile e un salario sicuro.

Il vero problema sono le rappresentazioni comuni che ci facciamo dei netturbini, tanto che molti di loro evitano di dire qual è il loro lavoro per evitare lo stigma. 


lunedì 27 marzo 2023

L'eugenetica del XXI secolo

 

M.S. sta studiando anche il lineare b, pazientate ancora un poco.

«Per antipasto prendiamo entrambi del foie gras, accompagnato da verdure e da petali di fiori e servito con toast caldi. Inoltre, è portato del burro che si può spalmare su del pan brioche delicatissimo. La fisica del cibo ricorda la fisica del potere».

È un estratto dell’intervista a Manfredi Lefebvre d’Ovidio a firma di Paolo Bricco. La solita paginata di merda calda domenicale offerta dal Sole 24Ore ai suoi lettori. Prosegue così: «Mio padre Antonio aveva, tra i tanti amici intimi e duraturi, un democristiano di grande caratura come Giovanni Leone, presidente della Repubblica, e il leader socialista Francesco De Martino. Nella nostra casa ai Parioli e poi nella nostra villa sulla Cassia, erano spesso ospiti Mariano Rumour, Arnaldo Forlani e Giulio Andreotti. Paolo Leone, il figlio del presidente, era mio compagno di scuola. Suo papà era il padrino di battesimo di mio fratello Francesco. Noi ragazzi facevamo le feste di compleanno nei giardini e nel palazzo del Quirinale».

Questa descrizione mi ha fatto venire in mente le scuole per i bambini con alto potenziale intellettuale (HPI). Molti anni fa, in modo del tutto fortuito, ho avuto per un’ora contatto con una classe di questi bambini. Parlavano tra loro solo in inglese e francese, così sciolti e fluenti che si faticava a stargli dietro. Chiacchierando con alcuni di loro, certamente dei bambini/bambine molto svegli, inframmezzavo delle domandine per valutarne la cultura generale. Il mio antico maestro delle elementari non ne sarebbe rimasto soddisfatto. Insomma, eccellente l’insegnamento delle lingue, ma il resto lasciava a desiderare.

Esistono predisposizioni genetiche all’intelligenza di questi alunni e quasi sempre è in rapporto col reddito della loro famiglia. Ignoro quale sia il metodo di misurazione del loro potenziale cognitivo, ma avere genitori che possiedono abbastanza denaro per pagare sostanziose rette accresce automaticamente il punteggio del test di QI (*).

Ad alunni e genitori con alto potenziale intellettuale, la crème de la crème, deve corrispondere una scuola con personale di capacità straordinarie, tutti intrinsecamente superiori, dal preside al bidello, ma soprattutto di psicologi che su queste faccende lucrano assai.

Del resto, come rimanere insensibili alla patologizzazione dell’intelligenza, che nelle comuni classi della scuola pubblica porterebbe alla noia, all’isolamento, alla depressione di questi bambini “precoci”? È un rischio reale, che però va affrontato con la socializzazione e non con la creazione di recinti di allevamento di esemplari rari.

Secondo il quotidiano britannico Financial Times, il Regno Unito ha lanciato un programma di visti per i diplomati/laureati delle 50 migliori scuole/università di tutto il mondo. Il suo nome? HPI, ovviamente. Il costo di questo visto dovrebbe essere di 715 sterline (circa 840 euro). Da tener presente, però, che la vita quotidiana in questo paese è la più costosa del continente europeo. Fino a tempi recenti avevano l’Highly Skilled Migrant Program consentiva alle aziende britanniche di assumere persone “con i migliori profili globali” (**).

In Francia le scuole ad haut potentiel intellectuel sono molto diffuse e se ne fa carico anche l’istruzione pubblica. A Parigi quest’anno ha aperto i battenti a studenti con QI elevati il liceo pubblico Émile-Dubois, nel XIV arrondissement. Anche da noi basterà copiare quanto avviene nel settore dell’istruzione francese e finalmente avremo una élite più intelligente. Da far giocare tra Montecitorio e il Quirinale.

L’intelligenza è un mosaico, è polimorfa, non la si rileva semplicemente con un test (possono aiutare per valutare predisposizioni per l’orientamento). Così come il talento, che è certamente legato all’intelligenza, ma non necessariamente a HQI o HPI. Anche le normali persone, motivate, laboriose e determinate possono avere buone possibilità di successo, così come coloro che beneficiano di importanti reti di influenza o sono eredi di imperi industriali e fortune economiche. L’HPI, qualunque cosa s’intenda per esso, è una probabilità. Come in tutte le cose, il passaggio dallo stato di probabilità a quello di realtà è impossibile da determinare a priori. L’HPI è una superfetazione ideologica, che ricorda da vicino le teorie razziste.

Se è possibile, mandate i vostri figli a giocare in cortile, evitando quindi i luoghi conclusi, i “giardini quirinalizi”, dove è altissima la potenzialità di diventare degli stronzi (HPA).

(*) Sono considerate HPI, le persone il cui QI è superiore a 130. Pare rappresentino il 2,3% della popolazione. Il 50% della popolazione ha un QI compreso tra 90 e 110. Il mio questa mattina è 75/112, battito 59.

(**) Questo programma HPI britannico pubblica una classifica delle “università globali 2022” i cui studenti e laureati possono richiedere il visto. Molte università sono statunitensi, ovviamente, un paio di cinesi e svizzere, una sola francese. Per cuochi e camerieri italiani è previsto un diverso tipo di accesso.

domenica 26 marzo 2023

Non è necessario che esistano


Si sostiene che la causa principale dell’attuale malessere (eufemismo) del settore finanziario, che per lunghi anni ha beneficiato di un regime eccezionale di tassi d’interesse molto bassi e anche nulli, sia il veloce e sostenuto aumento dei tassi stessi deciso recentemente dalle banche centrali americana ed europea. C’è del vero, ma è solo una parte della verità (e del problema).

È buona cosa ricordare, a titolo d’esempio, che la Bce guidata da Mario Draghi decise, a partire da marzo 2016, il taglio di tutti e tre i principali tassi d’interesse: il tasso di riferimento (refinancing rate) dallo 0,05% a zero, quello sui depositi da -0,30 a -0,40% e la marginal lending facility dallo 0,30 allo 0,25. Inoltre incrementò gli acquisti mensili di titoli di Stato da 60 a 80 miliardi a partire da aprile.

Ottanta miliardi di euro al mese sono circa il costo mensile di 30 milioni di posti di lavoro (compresi i contributi), ossia molto più di quanto sarebbe necessario per sradicare istantaneamente la disoccupazione in Europa (circa 13 milioni) attraverso la creazione di posti di lavoro nel settore pubblico (potrà sembrare strano, ma in termini di addetti la P.A. in Italia può vantare un record negativo in EU).

Mario Draghi, opponeva a chi criticava questi interventi un argomento che sembrava forte: «Supponiamo che non abbiamo agito affatto. Supponiamo di aver adottato quella che io chiamo la strategia nein zu allem [no a tutto], di non fare nulla. Cosa sarebbe successo? Siamo convinti che ciò avrebbe portato a una deflazione disastrosa» [avete letto bene].

Tutti concordarono sul fatto che, inondando il sistema finanziario di liquidità, la Bce (e la Fed) riuscissero a contenere la deflazione. Che cosa è successo? Le economie sono diventate sempre più dipendenti dal credito a buon mercato, la finanza ha sguazzato. A causa dell’abitudine ai bassi tassi di interesse, il debito non è stato ridotto; al contrario, dai boom ai crash, ha continuato a crescere. Insomma, i tassi troppo bassi di ieri spiegano perché oggi i tassi sono così alti.

L’immagine è quella dell’eroinomane: devi sempre aumentare la dose, e, in caso di astinenza, alzando cioè i tassi rapidamente, scoppiano le bolle speculative, da cui deriva contrazione del credito e corteo di danni all’economia reale.

La causa reale dei disequilibri (eufemismo) capitalistici non sono i tassi alti o bassi, e in senso stretto nemmeno la speculazione. Quei disequilibri sono gli effetti, mentre la causa principale delle crisi va cercata altrove, in radice. 

Ad ogni modo quel denaro a costo zero o quasi creava nuove fragilità finanziarie spingendo artificialmente verso l’alto il valore dei titoli. Gli istituti finanziari europei (e quelli americani) più che prestare soldi all’economia reale, favorirono la remunerazione dei loro azionisti. Tra il 2007 e il 2014, 90 banche della zona euro hanno distribuito 196 miliardi di euro di dividendi, trattenendo solo 261 miliardi per ricostituire il proprio capitale. Negli anni seguenti le cose non andarono molto diversamente.

Nei giorni scorsi, rilanciando una generosa politica di distribuzione agli azionisti, le maggiori banche europee hanno annunciato 17,7 miliardi di dividendi agli azionisti e riacquisti di azioni proprie per 12,8 miliardi. Questo per quanto riguarda le banche, oggi in sofferenza, ma diamo una sbirciata all’insieme.

Un esempio, in tempi di protesta sociale in Francia: secondo i calcoli della finanziaria Vernimmen.net, che ha raccolto i dati del 2022, le società CAC 40 (cioè le 40 maggiori società quotate alla Borsa francese) lo scorso anno hanno ridistribuito, esclusi i riacquisti di azioni proprie pari a 23,7 miliardi, dividendi per 56,5 miliardi di euro, rispetto ai 45,6 miliardi del 2021 e ai 28,6 miliardi del 2020, durante la pandemia.

L’importo dei dividendi pagati in tutto il mondo nel 2022 ha raggiunto il livello record di 1.560 miliardi di dollari nel 2022, secondo un rapporto del gestore patrimoniale Janus Henderson. I pagamenti delle società europee rappresentano circa un quarto dei dividendi globali (cioè quasi 400 miliardi).

L’incremento è stato dell’8,4% rispetto al 2021, che era già stato un anno record, alla faccia della pandemia e di chi perdeva lavoro e reddito. Stiamo parlando di dividendi agli azionisti, non già di profitti tout court.

In Europa, il derelitto Regno Unito ha il livello più alto di dividendi pagati nel 2022, con 89,1 miliardi di dollari. Quasi tutte le società britanniche hanno aumentato o mantenuto i propri dividendi rispetto all’anno precedente.

La Francia arriva seconda, registrando 63,2 miliardi di dollari di dividendi nel 2022. Le società tedesche hanno pagato dividendi per 46,2 miliardi di dollari. La Svizzera, quella dei dissesti bancari, ha pagato dividenti per 44,2 miliardi di dollari (+6,2% in un anno).

Per quanto riguarda l’Italia ecco cosa si prospetta per l’inizio del 2023: «A livello medio, le blue chip quotate sulla Piazza Milanese pagano un dividendo che è pari al 4,6% del prezzo di borsa (per avere un metro di paragone, il decennale emesso dal Tesoro rende il 4,2%) per un totale di circa 25 miliardi di euro che finiranno nelle tasche degli azionisti nell’arco dei prossimi 3 mesi. Posizioni di tutto rispetto per l’accoppiata formata da Eni ed Enel, i cui dati rispettivamente si attestano al 7,5 ed al 7,3 per cento». Date un’occhiata alla vostre bollette domestiche.

I dividendi totali della Norvegia nel 2022 sono aumentati del 70,7% (avete letto bene), trainati in gran parte dal gruppo petrolifero Equinor che ha più che triplicato il suo utile netto, raggiungendo i 28,7 miliardi di dollari. Finché c’è guerra c’è speranza, diceva quello.

La società francese TotalEnergies non è da meno, con utili raddoppiati rispetto al 2021, a 36,2 miliardi di dollari. È stata la quattordicesima più grande pagatrice di dividendi al mondo nel 2022 e la prima in Europa. Nessun’altra azienda del Vecchio Continente compare nella top 20 dei principali pagatori mondiali, classifica dominata dalle multinazionali americane.

La politica ultra accomodante delle autorità monetarie, il monopolio delle multinazionali (sì, proprio quelle, sempre loro), la guerra e lo strapotere di una cricca di criminali ha avuto degli effetti che noi possiamo oggi osservare nei nostri bilanci domestici. Poi arriva un Macron oppure un altro schifoso (a scelta) a spiegarci perché i nostri (non i loro) redditi si sciolgono come neve al sole e il welfare non è più sostenibile.

Personalmente non ho nulla contro i singoli investitori, i quali fanno il loro mestiere ed è chiaro che per loro questo sistema è il paradiso. Penso però sia più chiaro, sulla base di questi numeri, perché venerdì scrivevo che non esiste una via “democratica” per uscire da questa situazione in cui si socializzano sistematicamente le perdite e si privatizzano i profitti.

E chiare sono state anche le parole di Bertolt Brecht a tale riguardo: “I nostri avversari sono gli avversari dell’umanità. Non è vero che abbiano ragione dal loro punto di vista: il torto sta nel loro punto di vista. Forse è inevitabile che siano così, ma non è necessario che esistano. È comprensibile che si difendano, ma essi difendono preda e privilegi, e comprendere in questo caso non deve significare perdonare”. 

venerdì 24 marzo 2023

Non c’è una via “democratica”


È nei numeri il fatto che l’attuale protesta sociale in Francia è la più imponente dopo il maggio 1968 (che tra l’altro interessò prevalentemente Parigi e non, come ora, l’intero Paese). Repubblica non ha visto i milioni di manifestanti di ieri, ha visto solo l’azione dei blak bloc, mentre il Partito democratico, anche in tal caso, si astiene.

È una pseudo sinistra la “sinistra moderna”, che con la scusa del patto tra gli strati popolari e borghesia democratica difende il bottino dei milionari, si sottomette al capitalismo finanziarizzato, si fa rappresentare da una casta mediatica di narcisisti che propalano l’illusione democratica e progressista. Una sinistra borghese come tante volte s’è vista in Italia, in Francia e ovunque, che non smette di ingannare il popolo usando il “voto utile” contro Le Pen, Meloni, Bolsonaro, Trump, eccetera. Accaparrato il voto e presa la stanza dei bottoni, deride chi l’ha votata attuando una politica più liberale anche di quella della destra.

Una sinistra che è tragicamente ripiegata sull’unico obiettivo di gestire con zelo il capitalismo, fino a partorire essa stessa nuove maschere di questa messinscena (Blair, Macron, Renzi o Calenda non erano forse di sinistra?).

La lotta dei lavoratori francesi, che evidentemente non è solo per le pensioni ma è il prodotto di un malessere generale, non interessa. Anzi, dà fastidio che qualcuno si ribelli all’ordine neoliberista. Succedesse a Hong Kong, a Tbilisi, per non parlare di Mosca, allora sì che ... . Non interessano nemmeno gli scioperi del settore pubblico in Germania e altri scioperi ancora in Europa (*).

Ci sono state proteste record a Marsiglia (245.000), Tolosa (120.000), Bordeaux e Lille (entrambe 100.000) e Lione (50.000), secondo fonti sindacali. Anche città più piccole hanno registrato una partecipazione record, come Brest, Caen e Nizza (40.000), Saint-Etienne (35.000), Rouen (23.000) o Laval (9.600). A Parigi, i sindacati hanno stimato 800.000 persone in diversi raduni.

Anche il numero di questi manifestanti fosse stato solo della metà, di questi tempi è tanta roba. In Italia in tal caso si parlerebbe di “pericolo per l’ordine democratico”. Non perché i fascisti sono al governo, ovvio. Non c’è una via “democratica” nel quadro dello stato capitalista, e non c’è nessun accordo da fare. Prima o poi questo concetto dovrà apparire chiaro e dunque anche le azioni da intraprendere.

Macron, consapevole che la sua imposizione dei tagli avrebbe prodotto un’esplosione di rabbia, ha mobilitato il più grande dispiegamento di polizia dal 1968. Con 5.000 poliziotti antisommossa armati fino ai denti dispiegati nella sola Parigi. Polizia che ha sistematicamente bloccato il movimento dei cortei e caricato, provocando scontri che si sono intensificati nel corso della serata. Ieri sera il ministero dell’Interno ha riferito di 177 arresti.

A Rennes, la polizia ha sparato con cannoni ad acqua e gas lacrimogeni nelle strade e nelle piazze della città. A Rouen una granata stordente della polizia sparata contro un gruppo di insegnanti in sciopero ha strappato parte della mano di una donna.

A Bordeaux, la polizia ha sparato gas lacrimogeni e caricato il corteo all’inizio della manifestazione, e gli scontri si sono diffusi nel centro della città. In serata, un gruppo di manifestanti ha marciato sul municipio e ne ha bruciato solo l’ingresso principale. L’essere timidi non paga.

È inutile e controproducente giocare secondo le regole di un gioco dominato dalla borghesia. È necessario e sempre più urgente un confronto diretto con lo stato capitalista.

(*) Lunedì in Sassonia c’è stato uno sciopero, martedì in Baviera e nella Renania settentrionale-Vestfalia. Altre tre manifestazioni a Gelsenkirchen, Mönchengladbach e Colonia. Mercoledì altri scioperi di nel Baden-Württemberg, e oggi è prevista una grande manifestazione a Lipsia. Mercoledì a Francoforte hanno preso parte diverse migliaia di lavoratori dei servizi pubblici della città, asili nido, case di cura AWO, Mainova (fornitore di elettricità e gas) e l'azienda di trasporti municipale. La città appariva molto tranquilla, poiché non circolavano né tram né metropolitane e gli uffici comunali erano chiusi.

Amburgo, il porto più grande della Germania, è rimasto chiuso alle grandi navi mercoledì mattina, e i piloti restano in sciopero fino a oggi, quando anche i lavoratori del Canale di Kiel (NOK) alle chiuse di Kiel e Brunsbüttel scioperano per la prima volta. Il 27 prossimo si fermano autisti e i ferrovieri EVG, anch’essi coinvolti in una controversia salariale.

giovedì 23 marzo 2023

La trappola di Tucidide

 

Il presidente cinese Xi Jinping ha concluso la sua visita di due giorni a Mosca e gli incontri con il presidente russo Vladimir Putin. I due leader hanno dichiarato che la loro cooperazione ha “raggiunto il livello più alto della storia” e, in opposizione agli Stati Uniti, dichiararono la loro determinazione a “salvaguardare il sistema internazionale” basato sulle Nazioni Unite. Chi vuol capire, capisca.

Il vertice sino-russo di Mosca segna la fine della strategia geopolitica americana sperimentata dal presidente degli Stati Uniti Richard Nixon e dal suo consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger, che progettarono un riavvicinamento con la Cina e un’alleanza de facto contro l’Unione Sovietica. L’accordo fu siglato dalla visita di Nixon a Pechino e dall’incontro con Mao Zedong nel febbraio 1972.

Oggi Russia e Cina mantengono un grado di indipendenza dall’ordine mondiale dominato dagli Stati Uniti, che però è intollerabile per Washington. Questo è la causa di tutto, ed è particolarmente vero con la Cina, che da potenza regionale è diventata, grazie al massiccio afflusso di investimenti e tecnologia da parte di società americane (il “benevolent power” americano) e internazionali desiderose di ottenere super profitti dalla manodopera cinese a basso costo, un leader in grado di competere con la maggiore superpotenza del dopo Guerra Fredda.

Come sempre più spesso accade, le diatribe appassionate sui media e sui social ruotano intorno alle percezioni più che alla realtà di questa rivalità, dove prevale l’ideologia a dispetto di affermazioni mai comprovate. In questi ambiti, forse non a caso, si è ritornati alle posizioni della vecchia guerra fredda (intravedo una certa nostalgia). In realtà, questa rivalità non contrappone ideologie molto distanti tra loro, come ai vecchi tempi tra Mosca e Washington, poiché prevale in entrambi i Paesi il capitalismo, e, specie la Cina, è lontana dai meccanismi del vecchio bipolarismo perché non vi ha interesse.

Il duello Washington-Pechino, la “nuova guerra fredda”, è una rivalità globale, ci riguarda tutti, poiché ci trascina in un bipolarismo tanto ingiustificato quanto pericoloso. Ingiustificato perché non è, a differenza della vecchia guerra fredda, ideologico e sistemico; pericoloso perché porta non solo a maggiori incertezze ma a un conflitto aperto che ormai sembra difficile scongiurare (siamo ormai prigionieri della “trappola di Tucidide”).

Le tecnologie d’avanguardia sono diventate il terreno di gioco di questa rivalità, e gli sviluppi in tale settore sono così rapidi che l’equilibrio di potere non è mai fisso. Entrambi i contendenti cercano di anticipare e trarre un proprio vantaggio significativo, ampliando il divario rispetto alla concorrenza, europea e giapponese in particolare. Ma a noi europei che importa, abbiamo una grande storia alle spalle che ci sorregge.

Pechino si sta dando i mezzi commisurati alle proprie ambizioni, sia affidandosi alla forza d’urto della sua industria di punta – Huawei e Tencent in particolare – sia puntando sul monopolio dei metalli rari indispensabili per la componentistica dei computer. La Cina è così passata, in pochi anni, da fabbrica globale a centro di sviluppo di nuove tecnologie in grado di rivaleggiare con la Silicon Valley.

Di fronte a questo aumento del potere tecnologico cinese, dapprima gli stati occidentali avanzavano in (dis)ordine sparso. Poi da un po’ d’anni a questa parte a Washington ci si è svegliati. Lo testimoniano le misure adottate in risposta al 5G e ad Huawei, nonché la pressione esercitata su TikTok dalla Casa Bianca. Più che una questione tecnologica, ciò è diventato inevitabilmente un affare politico, con accuse al governo cinese di aver orchestrato una massiccia raccolta di dati attraverso questa innovazione.

Ciò che penso ormai sia chiaro è il fatto che la più grande trasformazione della storia non riguarda solo il risultato di innovazioni capaci di trasformare le società, ma le scelte strategiche delle grandi potenze per consentire loro di creare un vantaggio decisivo sulla concorrenza e dominare il mondo. Pertanto la competizione è aperta.

Possiamo scegliere da che parte stare, naturalmente e in ogni caso molto in subordine. C’è un fatto però che non va sottaciuto, e cioè che le nostre scelte collettive possono ancora influenzare gli avvenimenti. Vale a dire: vogliamo che questo confronto-scontro storico, di cui la guerra per procura in Ucraina (che sta dilaniando economicamente l’UE) è solo un passaggio, trovi una qualche composizione sul piano delle intese pacifiche (sfruttando magari i limiti del potere cinese e le battute d’arresto del potere americano, anche alla luce delle crisi finanziarie), oppure accettiamo il processo intrapreso che sta portando il mondo intero dritto a un conflitto armato in cui l’impiego delle armi nucleari è una possibilità tutt’altro che remota? 

Come scegliere tra peste e colera


Il governo degli Stati Uniti, temendo da parte di Pechino l’utilizzo a scopo di propaganda dei dati archiviati su server situati in Cina, a fine febbraio ha vietato agli agenti federali di utilizzare il social network TikTok sul posto di lavoro.

Ora si preparano, per lo stesso motivo, a vietare l’uso di TikTok sul proprio territorio. Lo fanno perché di queste pratiche sono maestri insuperati: da decenni le multinazionali Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft (GAFAM) e lo spionaggio statunitense hanno raccolto a strascico dati personali in tutto il mondo.

Certo, fa ridere sentire i funzionari cinesi di TikTok, grandi paladini della libertà di espressione, deplorare la “censura” che sta cadendo su centinaia di milioni di utenti americani. Non meno comico, però, lo spettacolo al di là dell’Atlantico, nel paradiso di GAFAM, colossi digitali che da anni sgraffignano impuniti le nostre informazioni personali per scopi economici, geopolitici e chissà che altro.

È noto che gli Stati Uniti sono primatisti mondiali d’ipocrisia, e anche in questo campo sono i primi a ignorare apertamente regole basilari in tema di gestione e protezione dei dati. Per anni sono stati impegnati in una battaglia legale con l’Unione Europea, per meglio dire con la Corte di giustizia europea, che sta cercando faticosamente di imporre i requisiti sanciti dal suo Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR). Entrato in vigore nel 2018, questo testo mira a proteggere i cittadini europei dagli avvoltoi che scavano in profondità per l’oro immateriale rappresentato dalle nostre semplici identità individuali.

Qualunque sia l’obiettivo e il paese interessato, il recupero dei dati digitali risponde agli stessi principi guidati dal famoso adagio “se è gratis, il prodotto sei tu”. Ieri sera, cercando un libro dato per esaurito, ho dovuto, obtorto collo, “consentire” per accedere a delle banali informazioni di vendita di quel libro sul mercato dell’usato. Altro esempio: c’è un sito toscano di vendita di libri che da anni segue pedissequamente non solo i miei acquisti di libri in rete, ma è al corrente di ogni nuovo tema delle mie ricerche su internet. E sto parlando di libri e non di aspetti più delicati della vita personale. Se non è violazione della privacy questa, che cos’altro lo è?

Dietro l’utilizzo gratuito degli strumenti offerti da tutte queste piattaforme online c’è il nostro consenso più o meno informato (e più o meno obbligato) a cedere informazioni personali – nome, sesso, età, numero di telefono, indirizzo IP, livello di istruzione – e dati di utilizzo – cronologia di navigazione, posizione in tempo reale, contenuto di e-mail o sms, ecc. – che possono effettivamente essere convertiti in denaro o altro. Questi dati possono essere raccolti direttamente dalle piattaforme per “migliorare l’esperienza sul cliente” e per il targeting pubblicitario online.

Apparsi più di recente, i data broker sono una nuova specie parassitaria responsabile della raccolta e del raggruppamento delle nostre informazioni personali in categorie di consumatori, che poi rivendono ad altre società interessate a questo tipo di profilazione particolarmente redditizio. I broker acquistano i dati direttamente dalle piattaforme online o raccolgono da internet, spesso subdolamente, informazioni che vengono volontariamente pubblicate sui social network o su qualsiasi altra fonte aperta. Modalità di raccolta dati che spesso flirtano con l’illegalità, ad esempio quando riguardano informazioni sensibili, come precedenti penali, reddito, salute, ecc., o quando vengono condivise senza il consenso esplicito degli interessati.

Penso si ricordi che nel 2018 il quotidiano britannico The Guardian rivelò la trasmissione da parte di Facebook dei dati di 87 milioni di account, all’insaputa dei loro proprietari, al broker britannico Cambridge Analytica. Tra l’altro, nel 2016, finanziata da un caro amico di Donald Trump, la società aveva realizzato tecniche di profiling politico al servizio del candidato alle presidenziali Usa. Cambridge Analytica da allora ha chiuso, e Facebook è stato multato per cinque miliardi di dollari, ma le cose sono cambiate?

La vicenda ha lasciato il segno. Secondo un sondaggio condotto dal Washington Post nel dicembre 2021, il 72% degli statunitensi non si fida di Facebook per la gestione delle proprie informazioni personali e dei dati di navigazione, ma ciò non ha in alcun modo intaccato questo settore in forte espansione. Il suo mercato è colossale, stimato in oltre 250 miliardi di dollari nel 2021, e continua a crescere, con una previsione di 365 miliardi di dollari entro il 2029, secondo un rapporto del Global Intelligent Traffic Management System Market.

Se l’intermediazione di dati sia lecita o meno dipende naturalmente dal quadro legislativo del paese in cui operano queste società. I cittadini europei sarebbero teoricamente ben protetti dalle pratiche abusive grazie al GDPR. In concreto, qualsiasi dato raccolto da una società deve rispondere a uno scopo preciso – la raccolta di un indirizzo mail sarà utilizzato, ad esempio, espressamente per attività di recapito o pubblicitarie – ed essere oggetto di consenso informato da parte dell’utente, al quale viene chiesto in particolare di accettare o meno i famosi cookies (se installi adblockplus e simili, ad esempio, non entri più da nessuna parte).

Teoricamente, ognuno ha il diritto di sapere dove, quando e come vengono utilizzati i propri dati, e di opporsi a posteriori. I dati sensibili devono essere soggetti a una maggiore protezione della crittografia ed essere eliminati il prima possibile. Infine, è possibile il trasferimento dei dati su server ubicati al di fuori dell’Unione Europea, a condizione che sia assicurato un livello di protezione sufficiente ed adeguato. Tuttavia, come detto a riguardo degli Usa, tale livello di protezione e il rispetto delle stesse regole non esiste.

Il 16 luglio 2020, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha pronunciato un’importante sentenza, nota come Schrems II, che invalida il regime di trasferimento dei dati tra l’Unione europea e gli Stati Uniti. La Corte ha ritenuto che il quadro normativo americano non tuteli da “ingerenze nei diritti fondamentali delle persone i cui dati sono trasferiti”. La Corte ha concluso in particolare che la raccolta di dati da parte dei servizi d’intelligence americani è “sproporzionata e che i rimedi sono insufficienti”.

In termini assoluti, gli Stati Uniti stanno quindi per mettere in atto lo stesso principio di divieto di trasferimento dei dati alla Cina imposto dall’Unione Europea al loro posto. Risultato: sono passati due anni da quando migliaia di aziende americane – tra cui le multinazionali GAFAM – ed europee, per le quali lo scambio di dati è vitale, procedono al di fuori di ogni quadro normativo, quindi nell’illegalità più totale. Quanto alle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea, per quanto riguarda il loro rispetto da parte degli Usa, sono scritte sulla sabbia.

Scegliere tra GAFAM americane e TikTok cinese è come scegliere tra peste e colera. 

mercoledì 22 marzo 2023

Mai in Italia

 

La Fed ha alzato i tassi dello 0,25%, o 25 punti, come avevo (facilmente) previsto giorni addietro. Intanto la bilancia commerciale italiana è andata in rosso nel 2022, causa sanzioni alla Russia. Crisi idrica, rincaro bollette e investimenti infrastrutturali zero. Che altro? Il Pd in parlamento si astiene. È un partito di astenuti. Per anni ha ridotto le tasse alle imprese e ai redditi più alti. Ora lo rinfaccia ai fascisti. Dal 2013 è stata abolita l’Imu sulla prima casa, molti miliardi in meno di entrate. Personalmente posso anche ringraziare, ma soprattutto ringraziano i miei vicini, una farmacista, un orefice e un “imprenditore” con varie auto tra cui un carrarmato che quando passa occupa tre quarti della carreggiata. Io con la mia utilitaria devo accostare, lui passa, sorride e manda bacini.

Troppa gente, compresa quella che incontro al supermercato o nelle associazioni, ha un rapporto sempre più personale con la realtà. È facile mandare in fiamme un mondo abitato da ebeti: “tutto sulla fidanzata di Elly Schlein”. Hanno fatto un lavoro coscienzioso, hanno ucciso la politica e ora abbiamo solo i suoi rifiuti. Se in politica non si fa niente, prima o poi succede qualcosa. Mai in un paese come l’Italia.

Sto ultimando il libro di Guido Leto, OVRA, Cappelli editore, 1952. Scrivendo della caduta del fascismo, l’ex capo dell’OVRA dice tra l’altro: «La percezione dell’attimo favorevole per l’azione risolutiva innegabilmente fu giusta e l’evento che, in altre circostanze e con attori di altra tempra, avrebbe potuto determinare gravissime reazioni e sarebbe stato d’incerto esito, si svolse quasi dappertutto fra la generale indifferenza e con qualche manifestazione, financo, di sapore carnevalesco» (p. 253).

Gli eletti

 

Quelli di destra e di sinistra, anche se non li abbiamo votati (per più motivi o anche solo per linsostenibile schifo) sono lì a rappresentarci. Forse non ce ne rendiamo conto, ma quello che sono, quello che fanno e non fanno, quello che dicono, è sempre conseguenza dello stato della società che li ha designati.

Sono “legittimi”? Diffidare di questa parola: Hitler, per fare il solito caso estremo, è salito al potere “legittimamente”: la società tedesca aveva, per la maggior parte, preparato il suo ingresso sulla scena. L’artista fallito non è stato un incidente della storia; ne era il prodotto. Non solo la cecità e stupidità di Versailles, non solo la crisi economica dei Trenta, che pure vi ebbero tanta parte, dal lato ideologico e da quello pratico.

Gli ectoplasmi del Pd e dintorni, i tanti fascisti variamente rozzi e stupidi, perfino Renzi, non sono lì per caso. Basta sentirli aprire bocca: sono i nostri vizi, egoismi, l’ignoranza (tanta), le nostre paure paranoidi, le speranze, le illusioni e le delusioni di chi li ha votati. La malafede di chi ha interesse a farli sostenere sui media.

Parliamo di molte cose, troppe, ma non tutte, sicuramente non di quelle realmente importanti. Per esempio, non si parla più del lavoro, salvo e distrattamente dei numeri degli occupati e dei disoccupati. Al massimo si arriva a distinguerlo in due grandi categorie: quello “precario” e quello a tempo indeterminato, che passa come un privilegio. A questo s’è arrivati.

Cos’è un privilegio? Tante definizioni quante sono le categorie sociali, economiche, sessuali, culturali, familiari, quanti sono gli individui. In una società in crisi, queste definizioni si moltiplicano. Tutti tendono a vedere, o fantasticare, i privilegi degli altri.

Privilegiato è l’essere umano che fa il lavoro che si è scelto, che gli permette d’imparare e capire ciò che lo circonda, di farlo con un compenso che gli permetta di vivere decorosamente e con dignità coloro che ama e che dipendono da lui. Sarebbe dunque questo nel XXI secolo un privilegio? Abbastanza raro, bisogna ammetterlo.

Per contro, in generale manca sempre qualcosa, se non quasi tutto. Molti hanno un lavoro che in realtà non hanno scelto. Questo lavoro è spesso noioso, doloroso, ripetitivo, angosciante, deprimente, estenuante, incompreso, umiliante, frustrante, a volte pericoloso, e persino vergognoso. Porta poco o niente a chi lo fa, se non lo stretto necessario per vivere (e anche in tal caso, non sempre). E succede che li svilisce.

Ecco, invece di riempire le nostre giornate con la fiera di parole tipo “maternità surrogata”, “ponte sullo stretto”, “nazione”, parliamo di cose concrete, per esempio di contratti e dell’organizzazione giuridica dei rapporti di lavoro, la maschera di un rapporto egualitario tra soggetti (il diritto del capitale a sfruttare il lavoro), che però dal punto di vista economico è un rapporto ineguale tra classi sociali.

Ci viene spiegato che, a differenza dei regimi totalitari, la libertà e l’uguaglianza costituiscono l’essenza dei nostri sistemi democratici. Chi oserebbe mettere in discussione la bontà della democrazia elettiva e l’innocenza del diritto umanista nelle nostre società egualitarie? Certo, la libertà di criticare l’eccessivo e scandaloso arricchimento di una minoranza, ma l’evidenza dello sfruttamento, anche solo dell’ordinario stato dello sfruttamento, non è all’ordine del giorno della discussione.

E se non viene messo in evidenza questo rapporto sociale reale, quello dell’ordinario sfruttamento, che cosa mai resta della “sinistra”? I segretari del Pd che si succedono hanno paura di perdere i voti dei Parioli, preferiscono essere un partito senza popolo piuttosto che tradire la borghesia ricca e benestante di cui sono i reali referenti (è diventata una identificazione antropologica). Tanto che quel popolo orfano e negletto, non sapendo più a che santo votarsi, vota fascista.

Il re è nudo, ma non importa, dal cilindro spunta una nuova maschera per nuove illusioni. Qualche slogan “sociale” e poi si ripiega sui diritti civili e umani, cui l’ideologia giuridica darà un supplemento d’anima, diventando il terreno di scontro con la reazione neofascista e cibo per gli intrattenitori televisivi. Insomma, spettacolo. Il fantasma dei “diritti” che nasconde il movimento delle cose concrete, il fantasma che agisce alle spalle degli individui reali.

Dove abbiamo mai visto una società del genere, questa enfasi feticizzata e spettacolarizzata delle relazioni sociali? Comprendo bene la silenziosa rassegnazione di molti di noi, che non vogliono stare al gioco, ma temo che il silenzio abbia infine i tratti di un autoinganno.

martedì 21 marzo 2023

La raccolta migliore

 


Può darsi che non sia più connesso
con quello che il mondo insiste a offrire
e spesso
mi nasconda fino a sparire
come se tutto non accadesse
o sembrasse un frutto
dipinto da Giorgio Morandi
che ti sta lì davanti
morto senza morire.

Come è la prima, tardiva, vendemmia di poesie di Luca, come scrive lui stesso al termine della raccolta. Aggiungo: le vendemmie tardive producono il vino migliore.

Di che cosa stiamo parlando?

 

Né il parlamento né i cittadini, che hanno un ampio diritto di organizzare referendum in Svizzera per qualsiasi motivo, sono stati coinvolti, e anche gli azionisti delle due banche sono stati tagliati fuori. La decisione di fondere UBS e Credit Swiss, dimostra che è il grande capitale a determinare la politica e che le famose “regole” valgono finché fa comodo a chi detiene il potere reale.

L’acquisizione del suo concorrente fallito (questa è la verità) promette di essere un affare redditizio per UBS. Ha pagato circa 3 miliardi di franchi in azioni per Credit Swiss che aveva un totale di bilancio di 531 miliardi di franchi, e che al momento dell’operazione valeva ancora 7,4 miliardi di franchi. Agli effetti pratici 22,5 azioni CS sono state scambiate con 1 azione UBS.

Tuttavia, la Banca nazionale svizzera (BNS) e il governo federale hanno coperto i rischi della fusione con oltre 200 miliardi di franchi di fondi pubblici. A titolo di confronto, nel 2023 il budget federale svizzero ammonterà a circa 80 miliardi di franchi. Sono stati inoltre forniti ulteriori 9 miliardi di franchi fideiussori a favore di UBS per eventuali perdite derivanti dall’acquisizione di alcuni rami d’azienda di CS.

La fusione crea una banca mostruosa con un totale di bilancio di 1600 miliardi di dollari (1,5 trilioni di CHF), quasi il doppio del prodotto interno lordo della Svizzera, che nel 2022 ammontava a 771 miliardi di CHF.

Se questo istituto mostruoso si mettesse nei guai, prenderebbe in ostaggio (il governo elvetico è già in ostaggio) non solo la Svizzera e la sua popolazione ma l'intera finanza internazionale. Mentre i rappresentanti del governo, della banca centrale e dell’autorità di regolamentazione finanziaria hanno costantemente cercato di rassicurare i mercati parlando di rischi “gestibili”, in realtà si tratta di rischi enormi.

Non è ancora del tutto chiaro se la fusione sia il punto finale di una breve corsa sulle montagne russe dei mercati o l’inizio di una corsa infernale che farà precipitare nell’abisso altre banche. Ieri, il prezzo delle azioni di Credit Swiss è sceso del 63%, sotto il prezzo di acquisto concordato. La stessa UBS ha perso il 13%, mentre Deutsche Bank e Commerzbank hanno perso tra il 5 e il 9%. Anche altre Banche come Intesa, UniCredit e BNP Paribas avevano aperto in forte ribasso.

Non c’è stata una parola sulle cause di questa crisi devastante. Non una parola su chi è responsabile. Non una parola sul perché, 15 anni dopo la crisi finanziaria del 2008, dopo le solite promesso di regolamentare il settore finanziario e ridurre le attività speculative delle banche “troppo grandi per fallire”, sia successo l’esatto contrario.

Dopo lustri in cui governi e banche centrali hanno regalato denaro al famoso “mercato” (la sacralizzazione del mercato), l’aumento dei tassi di riferimento da parte delle banche centrali sta ora provocando lo scoppio della bolla finanziaria. A dimostrazione che la crisi è un’espressione dell’impasse del sistema capitalista.

Tra i clienti della banca fallita (di liquidazione si tratta) c’era il peggio della finanza corsara e della vera e propria criminalità internazionale. In 20 anni, la direzione ha approvato 42 miliardi di franchi di bonus. Di recente, come scriveva Bloomberg l’8 febbraio scorso, Credit Suisse Group AG prevedeva di concedere ai suoi top manager 350 milioni di franchi svizzeri (380 milioni di dollari) di premi, se la sua ristrutturazione avesse avuto successo. Un anno fa, aveva “assegnato ai migliori collaboratori 497 milioni di franchi in premi una tantum legati a obiettivi strategici per un periodo di tre anni”.

Ma di che cosa stiamo parlando?

lunedì 20 marzo 2023

De Gasperi e Molotov


Parigi, 1946. De Gasperi e Molotov s’incontrano per la prima volta. De Gasperi era sempre nervoso quando doveva incontrare qualche grosso personaggio straniero. In quel caso anche di più: la posizione russa sulla questione di Trieste si era già rivelata più che intransigente, e la Francia, con Georges Bidault a capo del governo provvisorio francese, non era da meno.

De Gasperi cercò di addomesticare il ministro sovietico parlandogli di quello che era stato fatto per la democrazia in Italia e delle sue concezioni sociali: gli accennò della riforma agraria, gli parlò di 200.000 ha da distribuire e che sperava di potere, fra non molto, raddoppiare. De Gasperi era sprofondato in una poltrona; Molotov, come al solito, sedeva preciso sull’orlo della seggiola.

«Duecentomila ettari», gli fece Molotov guardandolo dritto ed imperioso attraverso gli occhiali, «e lei chiama questo una riforma agraria? Riforma agraria significa togliere tutta la terra a chi non lavora».

Il comunismo è stabilire che nessuno ha il diritto di possedere i mezzi di esistenza a titolo privato, né di escludere altri dall’accesso a questi mezzi. Non è tanto l’equità che deve essere stabilita sulla base dei principi di giustizia, ma l’uguaglianza reale tra gli individui, sia economicamente che socialmente.

Qui però si è aperto un problema. I vecchi marxisti, utilizzando Marx in una prospettiva riduzionista, avevano costruito la propria strategia in due fasi: prima prendere il potere statale, poi cambiare la società. Per una lunga serie di motivi non hanno mantenuto le loro promesse, e nemmeno potevano. La critica delle contraddizioni di una società sfruttatrice sono diventate, nella traduzione dei principi del bolscevismo prima e dello stalinismo poi, una copertura per pratiche oppressive, un modo per “cancellare la durezza del presente sotto la foschia di un futuro fittizio”.

La soluzione di questo problema non si trova nei libri, nelle dottrine, tuttavia non si può neppure risolvere la questione come se la storia non ci avesse detto nulla, specie a proposito dell’onnipotenza del “Partito” che ci insegna la verità della storia e agisce sulla base di una “verità oggettiva” operante nel movimento delle cose. Su questo punto sarebbe necessario aprire un lungo discorso che qui non può avere luogo.

L’esperienza fortemente negativa di quei regimi fu sufficiente per rigettare tout court l’idea stessa di comunismo, identificandolo con un motivo filosofico obsoleto, e per rintracciare in Marx alcune origini che portano a quegli “eccessi”. L’ex sinistra comunista si trasformava in liberalsocialista (un ossimoro). Un socialismo liberale che preserva un sistema polarizzato e diseguale, che utilizza tutti gli slogan tipici: un egualitarismo formale, un mondo “verde”, un’utopia multiculturale, la difesa dei diritti civili. Da Carlo Marx a Carlo Rosselli, se va bene, altrimenti Carlo Calenda.

Per Rosselli il socialismo era inteso “in primo luogo come una rivoluzione morale”, che “come tale, possa realizzarsi oggi nella mente dei migliori, senza dover attendere il sole del futuro”; “il socialismo non si decreta dall’alto, ma si costruisce quotidianamente dal basso, nelle coscienze delle persone, nei sindacati, nella cultura, attraverso le innumerevoli, libere e autonome esperienze del movimento operaio”. Puntualizzava ancora Rosselli: “Che la libertà, presupposto della vita morale sia dell’individuo che delle comunità, è il mezzo più efficace e il fine ultimo del socialismo”.

L’Inghilterra della seconda metà del XIX non era forse la società più progredita e più libera del pianeta? Gli Stati Uniti d’America non passano forse di essere il paese delle libertà? Lo vediamo bene, i principi di per sé possono essere mistificazione di un’oppressione materiale.

Quello delineato da Rosselli è un tipo di socialismo umanitario, filantropico, democratico, che diventa semplice figura retorica. Auspica miglioramenti amministrativi senza alterare i rapporti di produzione borghesi, e tali rapporti non possono cambiare col beneplacito della borghesia, né del resto per semplice volontà dei benintenzionati. Dunque non resta che tenerceli ben stretti e puntare sui diritti civili.

I diritti civili e politici non sono garanzie sufficienti per una vita libera e decorosa (quanto valgono i diritti se non abbiamo il potere di farli rispettare?). Tra le libertà borghesi vi è quella, per eccellenza, del “diritto di proprietà”; ed è la più ingannevole delle libertà, poiché in realtà nasconde la consacrazione della sottomissione, della dipendenza, della disuguaglianza sostanziale di classe. La partecipazione del popolo alla sovranità, come recita la Costituzione, è condizionata proprio dai rapporti di proprietà, da cui dipende in gran parte il livello di ricchezza e d’istruzione.