domenica 31 dicembre 2023

Potrebbe accadere anche domani

 

Avete presente l’evento Carriton? Quello del 1859, perché pare che ce ne furono anche altri. Ebbene, vi sto per raccontare, in anticipo come sempre, che cosa potrebbe accadere nel 2024, oppure nel 2025 o 2026, non troppo oltre. Tenetevi forte, oppure “toccatevi”, se credete.

Il Sole è una stella e, come molte stelle, è costituito essenzialmente da idrogeno. Questo elemento è molto semplice: un nucleo elettricamente carico, chiamato protone. E una particella elementare, anch’essa carica elettricamente, un elettrone, 1.836 volte più leggero del protone. Ma il Sole è così caldo che i due sono dissociati: una zuppa di protoni e una nuvola di elettroni.

Come una zuppa che bolle, il Sole sperimenta l’evaporazione. Si chiama “vento solare”. La sua velocità media a livello terrestre è di 1,3 milioni di chilometri orari, ma la variabilità è grande. Questo vento solare è fatto ovviamente di protoni ed elettroni, cioè di elettricità che si muove.

Non serve essere delle massaie provette per sapere che la bollitura della zuppa genera dei getti, particelle di liquidi, espulsi violentemente dal calore. Per il Sole il meccanismo è diverso, ma l’effetto è lo stesso. Quando questi materiali sono espulsi vicino alla superficie, vengono chiamati brillamenti solari, diretti verso la Terra. Così come si può leggere su Wikipedia, nel 1859, un’eruzione solare causò interruzioni nelle reti telegrafiche: gli operatori del codice Morse videro le loro macchine prendere fuoco spontaneamente.

Questo evento fu il primo ad essere stato documentato da due osservatori inglesi, Richard Carrington e Richard Hodgson. Ma porta solo il nome del primo. Diciassette ore dopo, il campo magnetico terrestre (ne ho già accennato in altro post a proposito del cambiamento climatico) è diminuito del 4% e l’aurora boreale è apparsa a Roma, a Cuba, alle Hawaii, in Messico. Come tutti sappiamo, l’aurora boreale è una conseguenza dell’attività solare che impatta con il campo magnetico terrestre (*).

Un’eruzione sulla superficie solare può essere così violenta che il suo vento diventa relativistico. Entrando nell’atmosfera, i suoi protoni generano per collisione una serie di particelle, in particolare carbonio 14 e berillio 10. Scienziati giapponesi hanno trovato tracce di questi radionuclidi risalenti all’anno 775, e poi al 993.

Una tempesta solare 1.000 volte più energetica dell’evento Carrington può verificarsi ogni cinquemila anni circa; una tempesta solare “solo” 100 volte più energetica ogni ottocento anni. Per un evento di Carrington abbiamo diverse stime: centocinquanta anni secondo i Lloyd’s, uno di quei mostri internazionali che sono allo stesso tempo banchieri, assicuratori e riassicuratori.

Fatti due conti, sono già passati 164 anni, dunque siamo nel periodo statistico di un nuovo evento Carrington. Il 2024 potrebbe essere candidato all’evento. E anche nel periodo statistico di un Carrington moltiplicato per 100. Lo so, questa non ci voleva, proprio quest’anno che avete prenotato lunghi viaggi esotici.

E allora? Dato che il pianeta ha già attraversato tali eventi senza soffrire tipo nel novembre scorso), perché preoccuparsene? Nella migliore delle ipotesi vedremo le luci polari da Napoli ... . Non è così semplice. Le nostre società tecnologiche utilizzano ormai gli stessi vettori del Sole: elettricità e radiazioni. Non sorprende quindi che siano diventate sensibili ai capricci della meteorologia spaziale. Dipende dall’intensità di queste tempeste geomagnetiche.

Immaginiamo il peggio. Ci tengo a precisare che l’ipotesi è molto seria, ed è oggetto di molte ricerche. Se si verificasse un nuovo evento Carrington, e fosse della potenza di 100 Carrington, il lampo di radiazione solare raggiungerebbe la Terra in otto minuti, espandendo l’atmosfera superiore. Cosa troviamo a quell’altezza? Ebbene, 8.800 tonnellate di oggetti spaziali, ovvero 34.000 frammenti più grandi di 10 cm, che viaggiano a circa 8 km al secondo. Sono 10 volte più grandi e 10 volte più veloci di un proiettile di fucile di grosso calibro.

Questi frammenti possono facilmente far esplodere un pannello solare, strappare un’antenna, perforare una cabina, perché nessuna delle loro schermature resisterebbe a quei frammenti lanciati a tali velocità e con una sezione effettiva superiore a 2 cm. Pare siano stati identificati e tracciati 22.300 di questi oggetti. Ma che dire dei 900.000 frammenti da 1 a 10 cm e dei 128 milioni di oggetti più piccoli? Circolano a casaccio come tanta polvere pericolosa sopra le nostre teste.

Bene, ok, il cielo è una discarica. Ma questi rifiuti sono in orbita, sotto controllo, possiamo stare relativamente tranquilli. Forse per l’ultimo dell’anno, ma per l’anno nuovo? Sotto l’effetto dell’espansione atmosferica causata dal vento solare perdiamo il controllo di quegli oggetti.

Attraverso una reazione a catena chiamata “sindrome di Kessler” – come nel film Gravity – questi detriti spaziali si scontrano tra loro e si moltiplicano in frammenti più piccoli. La maggior parte dei nanosatelliti, tipo quelli di Elon Musk, vengono spazzati via come coriandoli. Le loro dimensioni e massa impediscono che siano dotati di motori ausiliari: sono perduti, e alla fine colpiranno la Terra dopo essersi incendiati al rientro nell’atmosfera.

L’aumento della radiazione moltiplica il contenuto elettronico totale della ionosfera (lo strato superiore dell’atmosfera). Le onde GPS vengono interrotte e anche i sistemi a doppia frequenza iniziano a funzionare male. Il sistema non sa più dove localizzarti. Stai guidando e pensi che tutto sommato è poca roba, stai ascoltando My way cantata da Sid Vicious e hai sempre la vecchia carta stradale da qualche parte. Ahi no, l’hai gettata nel cesso. Per le dighe idroelettriche il cui movimento è monitorato con GPS, è ancora meno divertente. Qui da noi non sarà un nuovo Vajont, ma altrove?

Allo stesso tempo, il lampo di luce acceca diversi radar aeroportuali, come è successo in Svezia nel 2005. I controllori non sono in grado di guidare gli aerei, creando enormi ingorghi nel traffico aereo. A quel punto non sappiamo ancora se la nube di plasma dell’eruzione raggiungerà l’orbita terrestre: la prima si muove ormai a 5 milioni di chilometri orari, la seconda a 107.000 km/h attorno al Sole.

Ma non è finita. Se la nube di plasma proveniente dal Sole raggiunge l’orbita terrestre, l’elettronica di bordo dei satelliti, qualunque sia la loro orbita, potrebbe subire danni se vengono privati di pannelli solari ed elettronica. Molti di loro diventano dei girovaghi spaziali: si perdono. Le comunicazioni si interrompono, Internet è in tilt a livello mondiale, con tutte le conseguenze che vi lascio immaginare. Tipo: non potrete più collegarvi a questo blog. Gli sfortunati astronauti della Stazione Spaziale Internazionale ricevono dosi letali di protoni. Moriranno più o meno rapidamente come con un cancro accelerato.

Al suolo le correnti indotte dalla corrente elettrica del vento solare si amplificano. Le centrali elettriche sul loro percorso si surriscaldano, i trasformatori di alcune si sciolgono, come è avvenuto in Canada nel 1989. È imperativo ridurre la tensione, ma questo non è possibile con le centrali nucleari. Oh cazzo, le centrali nucleari, non ci avevamo pensato, tremo quando penso alle mini centrali nucleari progettate dal governo sul nostro territorio. Ma anche le altre non sono lontane.

In caso di problemi di questo tipo non puoi rivolgerti ai promotori delle centrali nucleari per escogitare una “soluzione realistica”. L’energia prodotta dal reattore deve essere “evacuata” a tutti i costi. Tuttavia, la tempesta geomagnetica può benissimo sciogliere le bobine elettromagnetiche che consentono ... . Avviene lo stesso se l’elettronica dei robot addetti al monitoraggio della radioattività negli spazi ristretti delle centrali elettriche non è protetta da campi elettrici intensi.

In generale tutta l’elettronica di bordo non può che soffrirne. Come in Germania all’inizio degli anni 2000, i treni si fermarono. Gli aerei non sono da meno. Gran parte della flotta aerea è a terra. Le comunicazioni sono tutte interrotte, soprattutto le comunicazioni HF che vengono ancora utilizzate negli aeroporti, ma soprattutto in ambito militare.

In tale disastro ci sono però anche delle buone notizie: le operazioni militari sul campo sarebbero ferme perché gli eserciti sarebbero finalmente diventati sordi e muti. Infine, un grande affronto: le società più resilienti, quelle che riuscirebbero a resistere a questa tempesta, sono quelle meno avanzate tecnologicamente.

Oltre a ciò, immaginiamo lo scenario finanziario: le compagnie di assicurazione non riescono più a far fronte ai rimborsi per centinaia di satelliti danneggiati e migliaia di voli sospesi. Vanno in bancarotta. I loro azionisti, le maggiori banche mondiali, vengono trascinati giù con loro: l’intero sistema finanziario globale sta crollando come un castello di carte spazzato via dal vento solare. Ecco perché l’OCSE, a seguito di un rapporto pubblicato nel 2011, ha classificato le tempeste geomagnetiche tra i cinque rischi planetari, accanto ai rischi finanziari sistemici, ai rischi informatici, ai disordini sociali e alle pandemie.

Che cosa possiamo fare a fronte ad un evento che, prima o poi, accadrà?

Non molto. Dobbiamo ovviamente interrompere tutti i lanci di certi satelliti. Tranne quelli di quell’idiota di Elon Musk, che ha già perso 40 satelliti dalla sua flotta privata nel febbraio 2022 per questo motivo perché pensa di essere più forte e scaltro del Sole (una tempesta geomagnetica di classe G-1, ma la scala arriva a G-5).

Axa, il terzo assicuratore spaziale al mondo, ha incluso la meteorologia spaziale tra i rischi emergenti. Il loro obiettivo: definire gli standard spaziali che proteggano da una simile tempesta e garantire solo i satelliti che siano conformi, anche se pesano il doppio.

L’esercito americano ha un battaglione meteorologico spaziale. Non c’è dubbio che altre potenze abbiano i loro. Ma è top secret. L’Agenzia spaziale europea (ESA) prende molto sul serio la meteorologia spaziale. Spendono molti soldi in vari studi, codici di previsione e osservazioni terrestri o spaziali. Le compagnie petrolifere, i grandi gruppi industriali, le compagnie spaziali private non comunicano, oppure nascondono la testa sotto la sabbia (ad esempio i data center), con un argomento forte: gli scienziati non sono in grado di dirci quando accadrà. Perché dovrebbero spendere grandi cifre per un pericolo che si verificherà tra cinquanta, cento o mille anni? Certamente, ma ciò potrebbe accadere anche domani.

(*) La Terra, a differenza di Marte, presenta un buon campo magnetico terrestre che devia il vento solare. A differenza di 50 anni fa, lo spostamento del polo nord magnetico è oggi maggiore di circa quattro volte e ciò corrisponde ad una diminuzione di intensità del campo magnetico terrestre, con tutte le conseguenze del caso. La butto lì come mera ipotesi, come semplice domanda: i quasi 2.500 test nucleari c’entrano nulla con tutto ciò? E, più in generale, quali effetti a medio-lungo termine possono aver avuto, direttamente o indirettamente, tali test sul cambiamento climatico?

venerdì 29 dicembre 2023

Un libro per chi ha voglia d'imparare qualcosa


Segnalo l’uscita di un libro che non è destinato a quel “popolo” di tifosi al quale alludevo nel post precedente, cioè a coloro che sanno già tutto e possiedono una granitica opinione su qualunque argomento. È un libro molto documentato e decentemente equilibrato, cosa rara, davvero rara, per il tema trattato: L’invenzione del Medio Oriente, Neri Pozza, 20,00.

La storia del Medio Oriente è stata rimodellata fino ad assumere la configurazione che conosciamo oggi. Questa storia ruota attorno a tre promesse, in parte contraddittorie, che la Gran Bretagna fece nel corso delle ostilità della prima guerra mondiale.

Agli arabi, più precisamente ad al-usayn ibn ʿAl, dell’antica dinastia hashemita, a capo della penisola arabica dove si trovano la Mecca e Medina (ma il resto del territorio era sotto controllo delle dinastie avversarie), i britannici, tramite l’Alto commissario per l’Egitto, Sir Henry McMahon, promisero, in caso di vittoria degli alleati e in cambio della sollevazione araba e la rivolta armata contro gli ottomani, una “indipendenza” e uno Stato esteso su quasi tutti i territori di lingua araba dell’impero ottomano.

Tra parentesi: dopo la guerra, gli arabi sostennero che la promessa di McMahon aveva incluso anche la Palestina nell’area destinata alla sovranità araba; i sionisti, appoggiati dal Foreign Office, affermavano invece che McMahon, pur essendosi espresso in modo contorto, l’avevo esclusa (*).

Alla Francia, con l’accordo Sykes-Picot (un cinico atto di avidità imperiale), i britannici promisero il governo diretto sulla costa del levante da Tiro (Libano) ad Alessandretta e Mersin (Turchia meridionale) passando per Latakia (Siria) e il controllo indiretto su un’area che abbracciava l’odierna Siria e la regione di Mosul (Iraq settentrionale), oltre all’amministrazione congiunta, assieme alla Gran Bretagna, sul cuore della Palestina (in base a questo stesso accordo, i britannici avrebbero ottenuto il governo diretto sulle aree di Baghdad e Bassora e il controllo indiretto sulla Transgiordania, l’Iraq occidentale e l’area di Kirkuk); infine e come terza promessa, i britannici s’impegnarono col movimento sionista per la creazione di una “casa nazionale” ebraica in Palestina (**).

Il famoso Thomas Edward Lawrence venne a conoscenza dell’accordo segreto Sykes-Picot solo dopo aver mobilitato le tribù beduine per combattere gli ottomani in nome del nazionalismo arabo. La promessa deliberatamente vaga di indipendenza della Gran Bretagna agli arabi una volta sconfitti turchi e tedeschi puntava in realtà a spartirsi con la Francia e molto limitatamente con la Russia zarista l’ex impero ottomano. Nonostante una lunga serie di negoziati e intrighi, nonché la creazione di uno stato arabo indipendente di breve durata sotto l’emiro Faisal usayn, l’accordo Sykes-Picot fu mantenuto.

In verità va rilevato che la rivolta delle tribù beduine non diede un contributo decisivo alla vittoria degli alleati nello scacchiere del Vicino Oriente, poiché tale successo fu dovuto principalmente all’avanzata verso nord del generale Edmond Allenby alla testa delle truppe regolari alleate, dal Sinai attraverso Gaza e Gerusalemme negli ultimi mesi del 1917 e attraverso la Galilea e Damasco fino ad Aleppo nel settembre-ottobre 1918. Le truppe beduine cammellate, una realtà totalmente tribale (il nazionalismo panarabo è un mito, tanto è vero che come forza di coagulo prevale l’islamismo), marciarono verso nord da Yenbu ad Aqaba fino a Damasco, dove Allenby aveva permesso a Faisal, figlio di al-usayn, di entrare prima di lui.

La Conferenza di pace di Parigi del 1919, fu in gran parte dedicata a far quadrare il cerchio delle promesse britanniche (come si ricorderà anche all’Italia per quanto riguarda la questione adriatica e più marginalmente anche a riguardo della spartizione della “carcassa del turco”). Scrive Faught: « [...] la Conferenza di pace di Parigi continuò a riunirsi per altri tre mesi, fino a concludersi in giugno, ma non arrivò mai a risolvere la situazione geopolitica del Medio Oriente e men che meno la richiesta degli arabi.»

Dopo la conferenza di Sanremo nell’aprile del 1920, che tenne impegnati sul tema dei “mandati”, così come era stato stabilito a Parigi l’anno precedente, la conferenza che disegnò il Medio Oriente dopo la caduta dell’impero ottomano e quale noi oggi conosciamo, si tenne al Cairo nel 1921, ed è appunto di tale conferenza che parla prevalentemente il libro di C. Brad Faught.

Scrive Faught: «A complicare le cose in una situazione che nel Medio Oriente era già difficile si aggiungeva poi la costante pressione esercitata da Chaim Weizmann e dai suoi sodali sionisti sui britannici, perché tenessero fede alla promessa contenuta nella Dichiarazione di Balfour. Allenby [comandante dell’Egyptian Expeditionary Force] ammetteva che le loro pretese si sarebbero scontrate in modo irreversibile con circa 600.000 arabi che risiedevano stabilmente in Palestina, anche perché la popolazione ebraica era di gran lunga inferiore e si posizionava attorno alle 60.000 persone soltanto. In dicembre scrisse al ministero della Guerra che “bisogna prendere atto che le aspirazioni a una nazionalità araba contano poco in Palestina, dove la popolazione non ebraica si preoccupa in primo luogo di mantenervi una posizione che ritiene minacciata dal sionismo”. In altre parole, nel loro tentativo di far rispettare la dichiarazione Balfour, la maggior parte dei sionisti non si preoccupava poi troppo di nazionalismo arabo degli abitanti della Palestina. Allenby non si faceva quindi troppe illusioni su quanto attendeva i partecipanti alla ormai prossima conferenza di pace a Parigi.»

La celebre arabista, viaggiatrice e agente segreto britannico Gertrude Bell, secondo quanto riporta Brad Faught, «fu di un’assoluta coerenza, perché si disse parimenti contraria alle aspirazioni sioniste in Palestina e riteneva che l’applicazione da parte dei britannici della Dichiarazione Balfour si sarebbe tradotta in un sicuro disastro per il mondo arabo.» È bene tener presente, anche dal punto di vista storico, che il sionismo non è altro che la metamorfosi imperialista dell’antisemitismo occidentale.

Come si fosse giunti alla Dichiarazione di Balfour (richiesta da Lord Rothschild) l’autore del saggio storico lo racconta a modo suo, sostenendo che il premier David Lloyd George fu un deciso sostenitore della causa sionista: «Cresciuto nel cristianesimo evangelico battista del suo natio Galles, condivideva con il sionismo la visione di un imminente fine del mondo, un punto sul quale convenivano anche molti cristiani millenaristi. Tutti consideravano il ritorno degli ebrei in Palestina un segnale anticipatore dell’apocalisse e quindi della seconda venuta di Cristo in terra. Questa ferma convinzione, tuttavia, si scontrava con la determinazione di Weizmann di rifiutare per la patria sionista qualsiasi altra offerta territoriale britannica che fosse diversa dalla Palestina.»

Non ho elementi per mettere in dubbio questa versione dell’autore, tuttavia ho già raccontato come tra il governo britannico e il professore di chimica Chaim Weizmann fosse intervenuto, durante il conflitto mondiale, uno scambio assai più concreto che non di semplici premonizioni millenaristiche e apocalittiche (vedi il post: Che c’entra l’acetone con la questione palestinese?).

Inoltre, c’erano altre ragioni convincenti per la lettera di Balfour a Lord Rothschild, in particolare la speranza britannica che gli ebrei americani influenzassero gli Stati Uniti a favore dello sforzo bellico alleato. 

I meccanismi ideologici generali che condizionano le concezioni correnti accettano assai difficilmente una prospettiva secondo la quale un insieme umano qualsiasi, al quale venga attribuito complessivamente un segno – per esempio quello della vittima – possa essere, in altre circostanze, come stiamo vedendo ancora oggi, caratterizzato anche parzialmente con il segno opposto. Per esempio, quello di dominatore ingiusto e anche di boia. In merito a questo atteggiamento ideologico, non mi riferisco solo alle plebi, chiamate dai media a spasimare pro o contro, ma anche a spiriti solidi e generalmente indipendenti, i quali non sono capaci di andare oltre quest’ottica ideologica semplificatrice e riduttiva.

P.S.: quello che manca in genere in queste storie, ben documentate e raccontate, è il punto di vista dei turchi ...

(*) Chi volesse prendersi la briga di leggere la traduzione italiana della corrispondenza tra Henry McMahon e lo Sceriffo della Mecca al-usayn, la può trovare in Ernesto Rossi: Documenti sull’origine e gli sviluppi della questione araba, pubblicazione dell’Istituto per l’Oriente Roma, 1944, pp. 168-171. 

(**) Nel corso dei secoli, i francesi avevano stabilito un protettorato sulle comunità cristiane nell’impero ottomano. Inoltre, i loro interessi commerciali includevano grandi investimenti in strade, ferrovie, porti e compagnie di navigazione ottomane, nonché in servizi pubblici e banche. Alla vigilia della guerra, circa 90.000 bambini ottomani provenienti da famiglie d’élite imparavano il francese e assorbivano le idee francesi nelle scuole francesi. In Libano il patriarca maronita era una figura centrale nella rete clientelare francese. Per molti francesi influenti, la Siria e il Libano costituivano un’estensione levantina della stessa Francia. Portare questi territori sotto il dominio francese sembrava un legittimo bottino di guerra, che i nativi fossero d'accordo o meno.

Quanto agli interessi britannici: in primo luogo, controllare la produzione e lo smaltimento del petrolio iraniano e mesopotamico (in qualità di Primo Lord dell’Ammiragliato, nel 1912 Winston Churchill aveva preso la decisione di convertire la flotta dal carbone al petrolio); controllare la Palestina come cuscinetto per la difesa del Canale di Suez e dell’Egitto, quindi controllare le rotte terrestri e marittime verso l’India, attraverso il Canale di Suez fino al Mar Rosso e lungo il Golfo Persico fino all’Oceano Indiano.

giovedì 28 dicembre 2023

I pilastri segreti dell’universo

 

Nel 1967 ci fu la Guerra dei Sei Giorni e Jorge Luis Borges nel suo Libro degli Esseri Immaginari scrisse: «Ci sono sulla terra, e ci sono sempre stati, trentasei uomini giusti la cui missione è di giustificare il mondo davanti a Dio. Sono i Lamed Wufnik.»

Un’antica mistica ebraica (anche gli islamici ne hanno una analoga). Questi Giusti sono generalmente chiamati Tzadikim Nistarim. In yiddish significa “il Giusto nascosto”. Nascosto per quale motivo? “Non si conoscono”, ricorda Borges, “e sono molto poveri. Se un uomo si accorge di essere un Lamed Wufnik, muore immediatamente e qualcun altro, in qualche altra parte del mondo, prende il suo posto. I Lamed Wufnik sono, senza saperlo, i pilastri segreti del mondo. Senza di loro, Dio distruggerebbe l’intera umanità. Ignari, sono i nostri salvatori.»

La proliferazione dei social network e degli spazi mediatici dedicati a forum e commenti produce l’opposto dei 36 Giusti: una folla di persone che credono o fingono di credersi giusti. Sempre dalla parte dei buoni, qualunque essa sia, gridano costantemente in faccia al mondo, se non a Dio, ciò che è giusto e quello che non lo è affatto.

Miscela inquinante di campioni con la virtù a tracolla, di giornalisti e sedicenti intellettuali, che interviene ovunque e su tutto. Infine ci sono gli altri, tutti gli altri, “il popolo”, quelli che non possono mostrare la punta del naso senza avere opinioni. Anche loro hanno un’opinione su tutto, quella giusta ovviamente. Spesso con violenza, per fortuna solo verbale, la fanno conoscere sui social, alla radio, in tv, sui giornali, ovunque. Non solo le opinioni, spesso mostrano anche ciò che mangiano (mi viene in mente una celebre frase di Ludwig Feuerbach). Naturalmente i cibi sono presentati come leccornie di un geniale dilettante sui fornelli.

Per Borges, almeno per lui, i 36 Giusti non esistono, appartengono agli Esseri Immaginari. Dunque, esistono solo nell’immaginazione. Chi non vorrebbe credere o creare persone simili? Chi non vorrebbe credere che la salvezza dell’umanità poggia sulle spalle di poche persone sconosciute, discrete, efficienti, che fanno il bene e diffondono la giustizia senza farlo sapere, senza nemmeno sospettarlo? Che questi Giusti esistano, che restino segreti, che siano segreti prima di tutto a sé stessi, e per sempre, vorrei crederci tanto quanto ancora credo a Babbo Natale. Per questo motivo ho chiesto al Grande Vecchio di portarmeli come dono, sotto forma di 36 piccoli pacchetti. Il giorno di Natale, non ho resistito, li ho aperti ancora prima dell’alba, come si fa quando si è bambini sgattaiolando furtivi dal letto. I pacchetti erano vuoti. Ho giocato con il packaging.

mercoledì 27 dicembre 2023

Come la Francia ha ottenuto la sua atomica

 

Nel post precedente racconto di come alla fine degli anni Trenta la comunità scientifica stabilì la possibilità delle reazioni nucleari a catena e della produzione di energia nucleare. Racconto anche di come il banchiere Jacques Allier fosse riuscito a farsi consegnare dalla ditta norvegese Norsk Hydro un ingente quantitativo di acqua pesante da far giungere in Francia, materiale da utilizzare nella realizzazione di un reattore nucleare.

Nel marzo 1940, la Francia era già in guerra con la Germania, perciò allo scopo di evitare i sottomarini tedeschi sì penso di trasportare le 26 latte contenenti l’acqua pesante con due aerei: uno senza il prezioso materiale avrebbe seguito la via di Amsterdam per distogliere l’attenzione tedesca, l’altro, con il carico, sarebbe andato a Perh, in Scozia (da dove poi furono trasportate in Francia).

Allier predispose il suo rientro in Francia come se volesse imbarcarsi per Amsterdam, ma in realtà all’ultimo minuto s’imbarcò sull’aereo per la Scozia assieme a un agente segreto e 10 delle 26 lattine. Le altre 16 seguirono la stessa rotta due giorni dopo, accompagnate da altri due agenti segreti francesi. Gli aerei tedeschi forzarono l’aereo diretto ad Amsterdam ad atterrare ad Amburgo, ma restarono a mani vuote.

Fu così che la Francia entrò in possesso di un certo quantitativo di acqua pesante per mettere a punto un reattore nucleare, sottraendola di fatto alla disponibilità dei tedeschi. Per quanto invece riguarda l’uranio necessario alla fissione, il 9 maggio 1940, nell’eminenza dell’invasione tedesca, il governo di Parigi decise di inviarlo in Marocco, dove resterà al sicuro sino alla fine della guerra.

Restava la preoccupazione di mettere al sicuro l’acqua pesante, che, come già detto nel post precedente, aveva trovato collocazione nel laboratorio di fisica nucleare del Collège de France. Raoul Dautry, ministro francese degli Armamenti, ordinò a Joliot-Curie di porre al sicuro l’acqua pesante. Il luogo dove nascondere i 26 preziosi contenitori fu individuato nella filiale della Banca di Francia a Clermont Ferrand, più di 300 km a sud di Parigi.

Il 17 maggio, per le preoccupazioni del direttore della banca, riluttante di assumersi responsabilità, si decise di trasferire l’acqua pesante nella prigione della vicina Riom, allocandole nelle celle dei condannati a morte, dunque dov’erano detenute delle persone che di li a poco non avrebbero più potuto raccontare della presenza delle lattine ad alcuno.

Gli eserciti francese e britannico erano in piena ritirata, il collasso era imminente. Il 4 giugno terminò l’evacuazione da Dunkerque. Il giorno 10, Joliot-Curie, con le truppe tedesche ormai alle porte della capitale, bruciò tutti i documenti sulle sue ricerche atomiche. Il giorno dopo, l’attrezzatura scientifica fu trasportata a Clermont Ferrand a bordo di una Peugeot 402, portando con sé qualche gioiello d’oro e di platino, ma anche quel grammo di radio che Marie Curie aveva ottenuto come regalo dalle “Woman of America”.

Il 12 giugno, le truppe tedesche attraversarono la Marna, e due giorni dopo entrarono trionfanti a Parigi (*). A Clermont Ferrand, Joliot-Curie si unì ai suoi assistenti Lew Kowarski (personaggio strepitoso) e Hans Heinrich von Halban (fisico francese, di origine askenazita polacco-austriaca), arrivati in città il 6 di giugno. Il 16 giugno arrivò in città anche Allier. Il governo aveva ordinato che l’acqua pesante fosse portata a bordo e da qui in Inghilterra.

Il 17 giugno, Allier e von Halban si presentarono alla prigione di Riom. Racconta lo stesso von Halban: «... il direttore del carcere, probabilmente per paura dei “nuovi padroni”, si rifiutò di consegnarci gli oggetti “depositati”. Alla fine l’incaricato speciale di Dautry lo dovette costringere con la rivoltella puntata. Il viaggio poté proseguire.» (Robert Jungk, Gli apprendisti stregoni, 1959).

Possiamo immaginarci in quel frangente storico il caos che regnava nel porto di Bordeaux, più di mezzo milione di rifugiati, truppe e veicoli militari e civili abbandonati. Un bel film su questi avvenimenti non è mai stato fatto e non vedo chi potrebbe realizzarlo senza scadere nella volgarità della spettacolarità odierna. Ad attendere i fisici francesi, le loro famiglie e l’acqua pesante c’era Charles Hnery George Howard, 33 anni, laureato in chimica e farmacologia, XIX conte di Suffolk e XIII conte di Berkshire, nipote di Mary Curzon e dell’imprenditore americano Levi Leiter. Evidentemente Londra sapeva di che cosa si trattava e dell’importanza del “trasporto” (**).

Howard riuscì a far imbarcare e l’acqua pesante nella carbonera inglese SS Broompark. Il caso volle che contemporaneamente un’altra nave partita da Bordeaux urtasse contro una mina e affondasse. Questo evento servì in seguito a Joliot-Curie quando venne interrogato dalle autorità tedesche su dove fosse l’acqua pesante, per sostenere che era andata perduta perché caricata su quella nave.

La SS Broompark giunse invece a Falmouth, il 21 giugno: a bordo c’erano i 26 contenitori di acqua pesante, 4 milioni di sterline di diamanti industriali e macchine utensili, oltre a Kowarski e von Halban. I due si unirono ai fisici inglesi del Cavendish Laboratory, dove formarono un gruppo di ricerca per sviluppare un reattore nucleare ad acqua pesante. In seguito si trasferirono in Canada per partecipare al progetto nucleare anglo-canadese.

Nel marzo 1945, Dautry suggerì a De Gaulle di riaprire i negoziati sulle forniture di acqua pesante dalla Norvegia, ricevendone l’approvazione immediata e decise di mandare Allier in missione a Londra per incontrare i rappresentanti del governo provvisorio norvegese in esilio. Il 18 ottobre 1945, venne creato il commissariato dell’energia atomica (CEA) e Joliot- Curie venne nominato alto commissario responsabile di tutto il lavoro scientifico e tecnico, con Dautry amministratore generale.

Nel novembre 1945, Stati Uniti, Inghilterra e Canada tennero un meeting a Washington dedicato interamente alla questione atomiche. Si accordarono per impedire agli altri paesi di avere propri programmi nucleari, privandoli del know-how e dell’uranio. Non fu considerata l’acqua pesante e ciò permise alla Francia di sfuggire al tentativo anglo- americano di mantenere il monopolio sulle armi nucleari.

Il governo francese chiese alla Norvegia il rispetto degli accordi del 1940 con Norsk Hydro e, nel marzo del 1946, un primo contratto per la fornitura di 5 t di acqua operante venne concluso tra la Norsk Hydro e CEA. Dal 1940 al 1970 oltre 100 t di acqua pesante furono fornite dalla Norvegia alla Francia.

Joliot-Curie ebbe un ruolo attivo nella resistenza al nazismo, aderì al Partito comunista francese e non esitò a mettere in gioco la propria vita per scelte che riteneva giuste. Nella tradizione di Pierre e Marie Curie, egli credeva nella responsabilità politica e morale degli scienziati, i quali dovrebbero considerare le conseguenze nella società del proprio lavoro scientifico. Nella sua responsabilità verso il mondo, immaginava la Francia come esempio mondiale nell’utilizzo non militare dell’energia nucleare.

Nel marzo del 1950, in quanto presidente dei “Partigiani della pace”, di cui faceva parte anche Albert Einstein, lanciò l’appello di Stoccolma per l’interdizione delle armi nucleari. La sua posizione ideologica non era più compatibile con la politica francese e gli fu tolta la carica di alto commissario della CEA. Senza di lui la Francia fece esplodere la sua prima bomba atomica nel 1960.

La scienza è una forza produttiva sociale che in modo positivo dà all’umanità il potere di conoscere e volgere a proprio vantaggio le leggi e le forze della natura, ma a sua volta è subordinata e dominata dal sistema di relazioni di potenza tra gli Stati.

(*) Il parlamento e il governo francese, con il suo legittimo presidente del consiglio, si trasferirono a Vichy. Il 10 luglio l’Assemblea Nazionale votò per l’approvazione dei pieni poteri a Pétain, che firmò l’armistizio. Solo un senatore e 26 deputati dell’Assemblea Nazionale fuggirono in Nordafrica (il Partito comunista francese era già proibito dal settembre 1939, e rimase clandestino fino alla liberazione anglo-americana nel 1944). Perduta la guerra, lo Stato francese collaborò ufficialmente con i nazisti, mantenne relazioni diplomatiche anche con gli Stati Uniti. Fino al 1944 lo Stato francese godette del riconoscimento della comunità internazionale (con l’eccezione dell'Impero britannico). Ancora alla vigilia dello sbarco in Normandia, il presidente degli Stati Uniti d’America così scriveva al primo ministro britannico: «Quando l'America è entrata in guerra, l’unica Francia che conosco stava dalla parte dei tedeschi.» Il 17 giugno, un generale di brigata francese, fuggito a Londra, si proclamava rappresentante della Francia libera.

(**) Gli alberi genealogici sono fondamentali per comprendere fino a che punto tout se tient. Howard fu anche un intrepido artificiere. Disinnescò 34 bombe. La successiva gli fu fatale. L’esplosione uccise all’istante il conte, la sua fedele e inseparabile segretaria (Eileen Beryl Morden), il loro autista/assistente (Mr Frederick Hands) e cinque soldati che erano lì per assistere al disinnesco della bomba.

martedì 26 dicembre 2023

La bomba atomica francese: come un romanzo. Breve storia dell’acqua pesante (deuterio)

 

Nella notte tra il 17 e il 18 dicembre 1938, il chimico nucleare tedesco Otto Hahn e il suo giovane assistente Fritz Strassmann furono i primi a dimostrare sperimentalmente che un nucleo di uranio-235, qualora assorba un neutrone, può dividersi in due o più frammenti dando luogo alla fissione del nucleo, dunque provocare una reazione nucleare. Due mesi dopo, Otto Frisch e a sua zia Lise Meitner ne descrissero i fondamenti teorici.

Detto in breve, per controllare la reazione a catena, c’era bisogno di un “moderatore”, cioè di un materiale che svolga la funzione di rallentare i neutroni veloci prodotti dalla fissione nucleare in un reattore a neutroni termici.

È quasi leggenda che l’acqua pesante prodotta in Norvegia nello stabilimento della Norsk Hydro, presso la centrale idroelettrica di Vemork di Rjukan-Notodden, dovesse servire agli scienziati nazisti quale “moderatore” per costruire un’arma atomica. Ma perché proprio la norvegese Norsk Hydro?

Nella primavera del 1939, gli scienziati dei paesi industrializzati iniziarono ad avvisare i propri governi dell’importanza dell’uranio nella sfera sia civile che militare. Solo l’acqua pesante (deuterio), il berillio e il carbonio nella forma di grafite (utilizzata poi da Fermi) sembravano rispettare la condizione di produrre i neutroni secondari il numero necessario alla reazione nucleare a catena.

L’acqua pesante era scarsa e costosa, il berillio pure; restava la grafite, ma doveva essere prodotta industrialmente nella forma pura. I tedeschi puntarono sull’acqua pesante, in Norvegia risiedeva l’unico produttore al mondo: la Norsk Hydro.

L’azoto era necessario per la produzione di fertilizzanti. Il metodo impiegato fino allora per ottenerlo richiedeva idrogeno, che in Germania era ottenuto utilizzando il carbone, materia prima scarsa in Norvegia. La Norsk Hydro ritenne fosse più economico estrarre l’idrogeno dell’acqua attraverso il processo dell’elettrolisi. I metodi di allora erano gli stessi, anche se oggi con una tecnologia più perfezionata, di quelli attuali per la produzione dell’idrogeno, un elemento che nella transizione energetica potrebbe assumere un ruolo fondamentale.

Entro il 1929 Norsk Hydro aveva costruito l’impianto più grande al mondo per la produzione dell’idrogeno da elettrolisi. Nel processo si otteneva, come prodotto secondario di scarto, l’acqua pesante, 150 g ogni tonnellata di acqua normale. Norsk Hydro la vendeva per scopi scientifici, poiché a quel tempo gli scienziati non conoscevano ancora il suo importante ruolo nello sfruttamento dell’energia nucleare.

Dunque, dopo Otto Hahn, a partire dalle fine degli anni Trenta, l’idea di utilizzare l’acqua pesante nei reattori nucleari e poi per la costruzione di ordigni bellici era nota agli scienziati tedeschi così come agli scienziati di altri Paesi, non ultimi i francesi o i canadesi.

Vi era anche un altro motivo per la scelta dell’acqua pesante. Posto che nella costruzione di un reattore nucleare l’acqua pesante è utilizzata come moderatore di neutroni, il suo utilizzo consente di non impiegare uranio arricchito ma bensì uranio della stessa concentrazione isotopica che si trova in natura. L’utilizzo dell’acqua pesante nei reattori serve anche a produrre più plutonio rispetto ai reattori a uranio arricchito.

La proprietà azionaria di Norsk Hydro Electric Company era per il 25% della tedesca IG Farben insieme alla sua filiale svizzera IG Chemie di Basilea, e per il 25% della francese Banque de Paris et des Pays-Bas. Come dicono i bellunesi: tut se tien.

Non c’è dunque da meravigliarsi se a questo punto entra in scena un banchiere: Jacques Allier (1900-1979). Ma procediamo con ordine.

Nel settembre 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, i fisici nucleari Frederic Joliot-Curie (1900-1958), Lew Kowarski (1907-1979) e Hans Heinrich von Halban (1908-1964) furono richiamati in servizio militare, ma restarono nei propri laboratori per “compiti speciali”. Di quali “compiti speciali” si trattasse lo vedremo tra poco.

Sul fronte opposto, ai primi di dicembre del 1939, la Germania iniziò a interessarsi all’acqua pesante di Norsk Hydro e nel gennaio del 1940 IG Farben chiese alla società norvegese di aumentare la produzione di acqua pesante a 100 kg al mese. Il 13 gennaio 1940 un funzionario di Norsk Hydro andò a Parigi per spifferare alla Banque de Parigi e des Pay- Bas le richieste tedesche.

Joliot-Curie comunicò a Raoul Dautry, ministro francese degli Armamenti, le potenzialità militari dell’uranio e dell’acqua pesante. Dautry, incrociando le informazioni di Joliot-Curie con l’interesse tedesco per l’acqua pesante, nel febbraio del 1940 incaricò il citato Jacques Allier, direttore di Banque de Parigi e des Pay-Bas, di dirigere una missione segreta con agenti francesi in Norvegia per negoziare con il direttore generale della Norsk Hydro, Axel Aubert, il prestito della maggior quantità possibile di acqua pesante.

L’acqua pesante doveva essere messa in contenitori senza che fossero usati il boro o il cadmio per le saldature (vi è un motivo chimico). Allier partì per Amsterdam in treno il 28 febbraio 1940, con un passaporto con il cognome della madre, Freiss. Portava con sé due ordini operativi: uno firmato da Dautry, che lo rendeva responsabile di una missione segreta nel nome del governo francese e lo autorizzava a chiedere l’assistenza degli agenti segreti francesi in Norvegia e in Svezia. Nel secondo ordine, firmato dal Primo Ministro, si diceva che aveva avuto da Édouard Daladier il potere di negoziare con chi possedeva il materiale oggetto della missione, per assicurarne alla Francia la disponibilità nella sua più grande quantità possibile.

Nonostante la segretezza della missione, i servizi segreti francesi intercettarono un messaggio dei servizi segreti tedeschi ai propri agenti in Norvegia, nel quale si diceva che un francese sospetto sotto il nome di Freiss si stava recando in Norvegia per motivi sconosciuti (ma intuibili).

Arrivato a Oslo, Allier ebbe un incontro con Axel Aubert, general manager di Norsk Hydro, il quale gli consegno l’intero stock di 185,5 kg di acqua pesante da prestare al governo francese, il quale alla fine della guerra avrebbe avuto la scelta o di acquistarlo o di restituirlo, e concedeva la priorità sulle future produzioni; in cambio i francesi avrebbero garantito all’impresa norvegese il 15% dei profitti di ogni futuro sviluppo tecnico derivato primariamente dall’uso dell’acqua pesante prestata.

Come poi le 26 latte che contenevano l’acqua pesante (che non è radioattiva) giunsero in Francia, sviando lo spionaggio tedesco, meriterebbe un racconto a sé. Qui dico solo che dalla Scozia, dov’era giunta in aereo, l’acqua pesante fu portata in Francia e stoccata negli scantinati dal Collège de France. Qui vi restò poco, perché il 10 maggio 1940 la Germania invase la Francia.

Qui comincia un’altra storia. La tempra del lettore medio è nota, dunque è già tanto se è arrivato fin qui. Per i lettori più coriacei, temprati alla lettura di più di 20 righe, forse ci sarà un seguito, anch’esso con tinte romanzesche. 

domenica 24 dicembre 2023

Festeggiare in santa pace

 

Mentre ci prendiamo cura della signora Ferragni Chiara, dietro i paraventi dell’informazione nazionalpopolare avviene anche dell’altro. Per esempio le banche hanno visto un balzo dell’80% degli utili nel 2022, dopo che anche nel 2021 avevano ottenuto buoni risultati; la crescita prosegue anche nel 2023 trascinata sempre dagli alti margini degli interessi.

Intesa Sanpaolo chiude a 6,1 miliardi di utili (+85%); Unicredit a 6,7 (+68%); Banca Popolare dell’Emilia-Romagna, terza banca nazionale italiana per numero di filiali e quarta per attivo a 1,09 miliardi (-26%, causa poste straordinarie legate all’acquisto di Carige); Banco BPM (fusione ex Banco popolare e Banca popolare di Milano) a 943 milioni (+94%), MPS a 929 (+178%); Popolare di Sondrio a 349 (+130%), Credito Emiliano a 439 (+94%) e Mediolanum a 572 (+52%).

La famosa tassa sugli extraprofitti, si è tradotta nel fatto che tutte le banche hanno optato per mettere a riserva (cioè a capitale) 2,5 volte l’importo della famigerata o celebrata tassa, dalla quale il governo puntava a incassare circa 3,3 miliardi, che invece troverà altrove (tagli alla spesa sociale, ovvio).

In un’intervista al Corriere, l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha richiamato l’attenzione sulle garanzie pubbliche per i debiti delle imprese, concesse dalle banche nell’emergenza Covid. Quante sono? Tremonti ipotizza che si tratti di circa 300 miliardi. Una somma enorme, che con la crescita vorticosa dei tassi d’interesse e il rallentamento dell’economia, pesa come un’ombra inquietante sul futuro dei conti pubblici. Pare che, in rapporto al PIL, i sussidi di varia natura italiani siano stati il doppio di quelli tedeschi, scrive sempre il Corriere.

Riguardo all’occupazione, ossia gli addetti al settore bancario, secondo uno studio del sindacato Fabi, dal 2012 al 2022 il numero degli sportelli è passato da 32.875 a 20.985 (-36,2%) e i bancari da 309.540 a 264.132 (-14,7%); il cosiddetto costo del lavoro è salito in dieci anni del 17,7% a 28,8 miliardi a fronte di ricavi cresciuti del 18,4% a 88 miliardi e utili a 25,5 miliardi; questo dato, secondo il sindacato, potrebbe salire a 43 miliardi nel 2023. Isybank, la nuova banca digitale del Gruppo Intesa Sanpaolo, indica quale sarà il futuro prossimo del settore riguardo a sportelli e relativa quota di occupati.

Di grande interesse è l’espansione, ormai storica, di Unicredit a Est, lungo la direttrice balcanico-danubiana, e poi la crescita in Borsa del 70%, 10 miliardi di capitale in eccesso e altro ancora. Ma non vorrei annoiare alla vigilia di Natale. E molto noiosa e di nessun interesse è invece la chiusura dello scontro in Mediobanca: gli azionisti con una quota superiore al 3% sono Delfin con una partecipazione rimasta invariata al 19,74%, il gruppo Caltagirone che ha ufficializzato la salita al 9,98%, BlackRock confermato al 4,15% e Mediolanum al 3,43%.

Caltagirone, tano per dire, controlla il gruppo editoriale formato dal Messaggero di Roma, il Mattino di Napoli e il Gazzettino di Venezia. Un fronte mediatico favorevole al governo Meloni, che con disegno legge “Capitali” ha rivisto le norme sulle liste dei Consigli di Amministrazione e sul voto maggiorato: saranno in vigore dal 2025 e aiuteranno Caltagiorone e Francesco Milleri, a capo della società lussemburghese Delfin, cassaforte della famiglia Del Vecchio (EssilorLuxottica) nel nuovo confronto per le Generali (Mediobanca detiene una storica partecipazione del 13% nel capitale, ma Delfin è stata autorizzata a salire da poco più del 10 al 20% di Generali, superando Mediobanca).

Tutto ciò per un assaggino di che cosa si muove dietro la signora Ferragni Chiara e i suoi milioncini di ricavi per la sua réclame. Ora possiamo disconnetterci nuovamente dalla grigia realtà dei grandi interessi economici e festeggiare in santa pace.

venerdì 22 dicembre 2023

Il vero "complotto" che ci minaccia

 

Gli Stati Uniti, scriveva Kissinger, propagandano l’idea che «le altre nazioni hanno “interessi egoistici” mentre loro hanno “principi” e un “destino”». È questo l’eccezionalismo americano: hanno la tentazione di imporre la propria egemonia di “valori” ovunque, tra l’altro violando l’assioma westfaliano di non interferenza, tano caro a Kissinger.

Questa presentazione apologetica del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, laddove la leadership americana è presentata come ovvia e necessaria, è paternalistica (per usare un termine tornato in auge): descrive la potenza militare americana come «uno scudo di sicurezza per il resto del mondo, che i suoi beneficiari lo abbiano richiesto o meno», e dunque consiste nel presentare questi beneficiari come bambini, inconsapevoli del pericolo ma protetti, che lo vogliano o no, da un padre premuroso.

Con l’allargamento della NATO e il crescere delle tensioni che ciò ha provocato, con il riarmo del Giappone e le alleanze con Australia, Sud Corea e Filippine, forse quella con l’India, con lo scoppio delle guerre locali, Washington voleva rilanciare il suo vantaggio strategico militare con la Russia e la Cina, ma anche nei riguardi dei suoi alleati concorrenti in Asia e in Europa, vedi la faccenda del Nord Stream 2. Ci è riuscita parzialmente (*).

L’incontro di San Francisco tra Joe Biden e Xi Jinping, ha stabilito una tregua temporanea, ma ciò non significa che Pechino rinunci a rivendicare la revisione del vecchio ordine mondiale, la denuncia della parzialità di istituzioni e assetti definiti dai vecchi equilibri postbellici. Israele, sopprimendo ogni presenza araba indesiderata, sta completando il suo progetto di Grande Israele, di potenza atomica medio orientale e mediterranea, non sempre docile ai desiderata di Washington.

Quanto alla Germania e all’Europa, anch’esse vincitrici della catastrofe e disintegrazione dell’Urss, sono ora le vere sconfitte della strategia americana. L’Europa unita è sempre rimasta qualcosa di ibrido, in un’eterna e irrisolta fase di introspezione, dunque non deve sorprendere la crisi del suo modello e della sovranità condivisa, il progetto di difesa europeo finito nel dimenticatoio assieme alle ambizioni di una maggiore autonomia strategica: l’Europa, nonostante le grandi potenzialità del suo progetto unitario, non si è mai data i mezzi del potere reale: forza armata, solidità economica (l’Europa continentale (27) è passata dalla quota maggiore del PIL mondiale del 1990, pari al 28,4, a quella minore del 16.6, rispetto a Usa, 25,4 e Cina, 18.1), sistema fiscale, demografia, ricerca e istruzione, frontiere comuni, da cui dipende il resto (**).

Ancora una volta siamo a un bivio della storia, quello tra socialismo da ripensare e costruire, da un lato, e la barbarie presente e che si annuncia dall’altro. Ciò non sembri retorico, tantomeno antistorico. La domanda che in fondo ci rode e che si può cogliere negli allarmi lanciati sia dal Papa che del presidente della Repubblica è molto semplice: la guerra e la catastrofe può coinvolgere direttamente anche noi e la Vecchia Europa?

La guerra è dietro l’angolo. È vicinissima a noi e non coinvolge semplicemente etnie nazionalistiche contrapposte come nella guerra jugoslava. L’unico vero grande “complotto” è quello che vede la crisi del vecchio ordine mondiale e la lotta per affermarne uno nuovo. Da ciò emerge l’incoerenza tra l’economia globalizzata che ignora i confini e le politiche che rimangono nazionali (lo si vede bene sulla questione del clima). È una lotta di vita o di morte tra una molteplicità di potenze, che non condividono la stessa concezione dell’ordine mondiale e che però nessuna delle quali è abbastanza forte da sconfiggere tutte le altre, molte delle quali aderiscono a filosofie e pratiche interne contraddittorie.

Lo scopo dei poteri che ci sovrastano, mentre preparano le condizioni di un conflitto universale, è quello di dividerci e di mantenerci nella confusione, a discutere di piccole e insignificanti cose, a prendere posizione sul nulla, oppure mantenerci nel disinteresse e nell’apatia, facendoci sicuri che ciò ci consentirà di vivere una vita relativamente tranquilla, malgrado tutto ciò che accade e ci schifa profondamente. Ma per quanto ancora riusciremo a non essere inghiottiti dalla guerra? Serve una forte e reale opposizione di massa alla brutta piega che stanno prendendo le cose. Non c’è alternativa.

(*) Se si vuole riconoscere l’integrità territoriale dell’Ucraina, si dove tenere conto anche della particolarità storica della Crimea. Quanto alla strategia stealth basata sulla trilogia droni-forze speciali-cyber, quindi l’idea di “guidare dalle retrovie”, è un chiaro segnale di evoluzione delle tattiche e degli strumenti bellici, ma ciò non significa necessariamente un disimpegno e la fine dei grandi dispiegamenti terrestri, come dimostrano le guerre in Ucraina e a Gaza.

(**) Percentuali sui valori in dollari ai tassi di cambio correnti (fonte: Banca Mondiale. Conti nazionali).

Invece, a parità di potere d’acquisto, le percentuali di caduta dell’Europa continentale (27) è analoga: dal primato della quota sul PIL mondiale pari al 23,5 del 1990, al 17,4 del 2008 e infine al 14,9 del 2022; anche gli Usa declinano: 21,5 (1990), 17,5 (2008), 15,6 (2022); balzo della Cina: 4,0 (1990), 11,8 (2008) e 18.5 (2022). Fonte: FMI, Word Economic Outlook, annate varie.

Da notare che l’euro raggiungeva il suo massimo storico nel 2003 sul dollaro, mentre la moneta americana raggiungeva il suo minimo contro leuro nel 2008 (1,4708 dollari per euro), ma nel 2022 l’euro toccava il suo minimo sul dollaro da vent’anni (1,0530). Queste sono le cifre politiche dell’unilateralismo americano, che sfrutta le differenti crisi e difficoltà delle potenze concorrenti, inclusa la UE.

giovedì 21 dicembre 2023

La Ferragni al MEF

 

Che cosa sarà mai il Patto di stabilità e crescita? Quanto popolo che vota saprebbe rispondere? Non parliamo poi del six pack e del two pack, cioè della lente d’ingrandimento con la quale la Commissione europea ci conta i peli del ... naso (ma è il famigerato MES che ci spaventa). Sappiamo tutto invece della signora Chiara Ferragni, e devo ammettere che il caso interessa anche me, sebbene per motivi molto particolari (la vedrei bene a capo del MEF).

In sostanza il Patto è una disciplina di bilancio per garantire la sostenibilità (e la solvibilità) dei debiti pubblici degli Stati membri in modo da non creare casini sistemici. Per essere solvibile, uno Stato non basta che stampi moneta, come danno a intendere molti (e, del resto, gli Stati membri non possono farlo), ma deve trovare chi gli presta i soldi per finanziare il debito (vedi per caso l’Argentina).

Dunque il rapporto debito/PIL è determinante, ma ciò va visto, sembra di capire col nuovo accordo, come una traiettoria decrescente nel medio termine, variabile a seconda del paese. Inoltre, posto che la banca centrale europea ha aumentato i tassi di interesse per stabilizzare l’inflazione, di fatto è aumentato il peso del debito pubblico, il che può avere un effetto destabilizzante su un debito pubblico molto elevato.

Il Patto, disattivato nel 2020 (clausola generale di deroga) per le note vicende epidemiche, è stato riformato con il nuovo accordo (quello tra Germania e Francia, già tracciato nell’aprile scorso) al quale ha aderito l’Italia. Il testo, che deve ancora essere negoziato con il Parlamento europeo, prevede un aggiustamento pari ad almeno l’1,0% del Pil in media annua. Ci costerà quasi una ventina di miliardi l’anno. Niente di che per un paese che detiene circa il 6% della ricchezza mondiale (concentrata in poche mani), ma anche un debito mostruoso.

La partita si giocherà proprio sulla sostenibilità del debito e su chi la dovrà giudicare (sulla base di quale analisi?). A pagare, nel senso di tagli alla spesa pubblica (non agli sprechi, per carità), saranno i soliti noti, quelli che versano il "pizzo" fino all’ultimo centesimo.

mercoledì 20 dicembre 2023

Non è un altro sistema

 

Leggevo, da ultimo, delle truffe dei certificati green acquistati dalle aziende tramite società “ad hoc”. Uno degli “scandali oggettivi” su cui regge il sistema capitalistico. Chi vede cospirazioni dappertutto, piani machiavellici dell’élite mondiale messi a punto in luoghi ultrasegreti e rigorosamente sorvegliati, non si rende conto che c’è qualcosa che va ben oltre i complotti: la strategia di un potere tecno-economico senza più vincoli e che usa la confusione e il controllo mediatico per mantenere la propria egemonia. Un sistema dove tutto si tiene non ha bisogno di particolari complotti perché è mosso e legato da interessi strettissimi.

Mentre noi ci rassegnavamo in diatribe hobbesiane/spinoziane tra popolo/moltitudine e altri ghirigori, gli “evangelisti del mercato” mettevano a punto il loro ritorno, prefigurando un sistema di autoregolamentazione spontanea dei mercati in virtù di chissà quale “legge naturale”. Quello che ne è sortito, non per cattiva coscienza dei singoli, che pure c’è stata, è un sistema dominato dalle situazioni di monopolio, intrinsecamente violento ed espropriativo, che fagocita tutto.

Un sistema di liberalizzazioni del mercato che dovrebbe rendere, secondo le intenzioni, la povertà un po’ più accettabile, migliorando superficialmente la situazione dei poveri, ma non tanto da dare loro i mezzi per sfuggire alla situazione che li rende poveri e schiavi, anzi, esasperando le situazioni di precarietà e bisogno, deregolamentando il lavoro e privatizzando i servizi pubblici. In buona sostanza non è un altro sistema, diverso dal capitalismo, ma è lo stesso capitalismo che s’esprime senza più vincoli e controlli, se non nominali e blandi (vedi la tassazione), al colmo delle sue leggi, prima tra tutte quella dell’accumulazione.

Dopo il crollo del “Muro”, il trionfo della libertà, ovvero del “mercato” e della sua spinta globale, ha prodotto l’aumento della disuguaglianza e dell’ingiustizia. Un potere, quello della borghesia liberista, che non ha altra risorsa, per sua predisposizione immanente, se non l’iniquità.

Tuttavia non si tratta di dare (solo) un giudizio morale, del cattivo stato della società e della cattiva condotta dei governi, del crescente malcontento che si esprime anche elettoralmente, quindi nel ricomparire delle pantegane fasciste e le loro pretese di potere personale, ma di cogliere i principi di messa in scena di quest’ordine nel suo insieme e pure l’agire delle forze contraddittorie. Insomma si tratta di chiedersi fin dove possiamo spingere questo ragionamento senza scadere nella paranoia del complottismo, ossia nell’esercizio di bassa analisi.

Tante parole per dire in buona sostanza che il complottismo è figliastro del sistema e funzionale ad esso. Tutto sommato il sistema nel suo confondersi e confondere è abbastanza trasparente, perfino negli aspetti finanziari se bene indagati. Ed è appunto questa la questione, chi ha più voglia e capacità di indagare?

Ieri sera, ho provato a sintonizzarmi con la televisione, ho resistito solo per qualche minuto su ogni canale al “dibattito” su Atreju e dintorni. Pare, e questo è segno dei tempi, che l’unica trasmissione decente di approfondimento rimasta sia Report. Ho guardato domenica un pezzo di trasmissione, si parlava di un quadro rubato e poi della sofisticazione dei vini.

Bisognerebbe riflettere sul fatto che almeno un terzo delle opere d’arte in commercio, e non poche anche quelle presenti nei musei, sono contraffazioni. Quanto alle truffe alimentari, se il popolo o la moltitudine, che dir si voglia, possedesse i rudimenti basilari di chimica e della critica, saprebbe che non c’è prodotto alimentare in commercio che non sia veleno. Anche senza adulterazioni e sofisticazioni, tutto dipende, come già sosteneva Paracelso e conferma la scala DL50, dalle quantità che ne assumiamo per tipologia e di avere un gran culo che non ci succeda niente.

martedì 19 dicembre 2023

Pace

 

Le casette di legno dei mercatini di natale emanano i consueti odori di vin brulè alla cannella e vendono bombe caloriche agli obesi presenti e futuri. I bambini si precipitano sulla giostra dei cavallini di legno e i genitori con i cellulari immortalano la scena. Siamo convinti che i bambini adorino il natale. In realtà è durante questo periodo che imparano cos’è la vita reale, in particolare il tradimento, la frustrazione e la delusione. Valori sicuri per la loro vita futura di consumatori depressi.

A prima vista tutto sembra al suo posto, ma manca l’ospite d’onore. Erano ovunque, nei mercati e nei centri commerciali, quei luoghi dalle torbide luci al neon che trasudano il sacrosanto “spirito natalizio”. Ma quest’anno dove sono finiti quei maledetti Babbo Natale? Si può dire che quest’anno è toccato al vecchio signore barbuto essere licenziato, dopo che l’anno scorso era toccato agli elfi. Ai più piccoli servirà imparare la lezione.

Non venitemi a dire che non mi piacciono bambini. Li adoro, ma li preferisco quando sono in casa d’altri. Che cosa regalo a quei due piccoli stronzetti dei miei nipoti quest’anno? Negli anni ‘50 si preferiva regalare a natale il vero, il reale, poi negli anni ‘70 la bambolina mignotta che scoreggia alla minima scossa. Anche la scatola, prodotta in poche migliaia di esemplari, contenente diversi minerali come piombo, zinco, rutenio o addirittura polonio ... .

I responsabili del marketing pensano a tutto. Potrebbero lanciare l’idea di una giostrina per neonati composta esclusivamente da bombe e missili. Oppure, per i più grandicelli, una scatola da gioco dove trovare tutti i missili in dotazione all’esercito americano, israeliano o russo con un libretto esplicativo di 32 pagine che insegna la loro utilità in tempi di conflitto armato, cioè sempre. Ti annoia la guerra? Ma allora non ti va bene niente!

Fare acquisti a natale è una corsa al suicidio. La ricchezza dei nostri portafogli è inversamente proporzionale al quadrato della distanza che ci separa dal 25 dicembre. Tutti in attesa di quando arrivano i saldi, dopo le feste. Siamo dei masochisti, i commercianti lo sanno ed è inutile negarlo.

La sentiamo un po’ tutti questa gioia mista a fobia per il natale, soprattutto quando pensiamo al famoso pranzo, quello durante il quale un parente, dopo un sommesso rutto, si dichiarerà inevitabilmente ammaliato dalla leader fascista. E invece dovremmo amarli dei parenti così, dovremmo dire grazie. È grazie a loro se siamo pronti ad affrontare il mondo esterno e tutti gli idioti che ne fanno parte. Ti insegnano l’autocontrollo e la tolleranza.

A natale, si sa, è d’obbligo recitare un ruolo, indossare una maschera che piaccia a quelli con i quali passeremo la giornata. Natale è il momento perfetto per celebrare l’ipocrisia, che è alla base di tutta la commedia che chiamiamo società. È dura di questi tempi, non puoi più dire niente. Sui ministri e altri imbecilli per esempio non si può più scherzare. A quel parente stronzo e reazionario, vorrei dire, per fargli dispetto, che dovremmo accogliere tutti i migranti e che sono per il matrimonio gay.

Dai, apriamo i regali. Pace.

lunedì 18 dicembre 2023

Le voci del Novecento

 

In un articolo pubblicato ieri, Massimo Cacciari scrive: «Stagione chiusa [quella operaista e delle potenzialità rivoluzionarie su cui aveva puntato Negri] con la grande trasformazione organizzativa, tecnologica, politica del capitalismo globale, dopo la fine della guerra fredda. Compimento di cui sono testimonianza le gloriose fini delle socialdemocrazie europee. Il soggetto rivoluzionario – si chiede Cacciari – tramonta, ora, per sempre o ne muta la figura?»

Di quale soggetto storico rivoluzionario parla Cacciari, di quale mutamento della sua figura? Piaccia o no, la classe operaia resta il perno su cui regge il capitalismo, anche se all’interno delle stesse classi sociali ciò che sembra essersi profondamente modificato è il senso di appartenenza a una data classe sociale e ciò è particolarmente vero per la classe media e la classe operaia.

Dunque, ritorniamo sempre al solito discorso che riguarda la divisione sociale del lavoro e la distribuzione della ricchezza prodotta, che è conseguenza dei rapporti di produzione e del grado di sfruttamento della forza lavoro. Ben sa Cacciari che le classi sociali sono determinate dal rapporto con i mezzi di produzione, sulla base del ruolo nell’organizzazione sociale del lavoro, quindi sulla base del modo in cui ottengono la ricchezza sociale e per l’importanza della ricchezza di cui dispongono.

Ecco dunque delineata la figura del soggetto rivoluzionario, ossia quella canonica di chi è costretto a passare un’ampia quota della sua giornata inchiodato sul posto di lavoro per produrre merci, in contrapposizione a chi si appropria, sotto varie maschere e forme, del profitto che si può ricavare da quelle stesse merci.

Marx rifletteva anche su un altro fatto: «Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che dall’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione (Il Capitale, I, VII, 3).»

Pertanto, il soggetto potenzialmente rivoluzionario, lungi dall’aver mutato sostanzialmente la sua figura sociale, ossia quella di salariato, e per quanto possa vestire Armani o Prada, esiste. Resta da stabilire perché questa potenzialità del soggetto non si trasformi in azione concreta. Se dalle rivendicazioni contingenti non si è passati alla lotta più generale contro la società capitalista, questo è un indicatore convincente della colpevolezza del “riformismo”.

Si deve ricordare che la coscienza rivoluzionaria non è data naturalmente alla classe operaia. Certo, non basta neanche dire: “i lavoratori sono sfruttati”, far seguire la citazione tratta da Marx e il riferimento di pagina. L’”educazione” rende necessaria l’organizzazione e altro. E però gli esponenti intellettuali della sinistra si sono rivolti in massa verso soggetti “rivoluzionari” sostitutivi, modificando profondamente la loro etichetta “rivoluzionaria” in quella di “protesta”, quando non di diretta collaborazione.

Oggi a ricordarci certe cose sono i liberali!


Le voci del Novecento che avevano animato ciò che in varie forme è stato il marxismo, si sono esaurite o sono state “silenziate”. Resta il vuoto, l’impotenza, l’insignificanza e la retorica, quando va bene.

Per il resto, dominano le pantegane che vorrebbero insegnarci che cos’è la democrazia e altre cose, uscite dalle fogne per reggere l’amministrazione coloniale del paese, eredi rancorose del fascismo.

domenica 17 dicembre 2023

Non è un’opinione

 

L’infantilismo domina le nostre società, dunque anche la politica. Ne abbiamo un esempio plastico e delirante in questi giorni al raduno di Atreju organizzato dai parafascisti.

Ovunque, si parla solo di giovani e di vecchi. La figura dell’adulto è infatti scomparsa nelle nostre società occidentali. L’individuo può incarnare tutti i ruoli della vita a qualsiasi età: essere una Lolita a 7 anni o un’adolescente a 80 anni. Scegliere la propria età è come scegliere il proprio look. Ciò non significa, ovviamente, la scomparsa degli adulti ma la crisi della loro rappresentazione.

C’è anche una (più d’una) ragione profonda e generale di questo imperante giovanilismo/infantilismo: la scomparsa delle età implica che non dobbiamo assolutamente diventare adulti perché crescere è invecchiare e invecchiare è morire. Collaterale è un altro fenomeno, quello che riguarda l’allevamento dei figli e dei genitori anziani da aiutare. Ciò può trasformare l’età adulta in un periodo di crisi gigantesca della vita.

Quello che noto nell’adulto, e che in parte ho sperimentato a suo tempo personalmente, è il fatto che non sa più dove si trova: se riesce bene nelle sue cose, famiglia e lavoro, si deprime perché ha ottenuto tutto (ricordate il film La guerra dei Roses?); se fallisce, diventa depresso di fronte al fallimento. Si deprime perché non riesce a farcela con la famiglia, a crescere i suoi figli, eccetera; quando non li ha più, diventa depresso perché il senso della sua vita sta svanendo.

Le patologie tipiche che corrispondono alle varie fasi: stress alla fine delle scuole superiori, esaurimento nervoso alla fine dell’università (ho conosciuto un neolaureato che un giorno è entrato in una chiesa di Mestre e poi in seminario; era felice, manco a dirlo!), depressione di mezza età, dolorini vari e persistenti a fine carriera. Ci vorrebbe un anno sabbatico per ogni passaggio d’età, giusto per respirare. Magari finanziato dallo Stato (convulsioni a Seminerio).

Ora che ne ho contezza, posso dire che una vita senza vecchiaia non vale la pena di essere vissuta. La vecchiaia è un’esperienza del mondo essenziale per lo sviluppo di una persona. Dobbiamo smetterla con questi slogan dei laboratori farmaceutici che proclamano “Stop all’invecchiamento, inizia a vivere”, come se l’età fosse ciò che ci impedisce di vivere! L’unica cosa che ti impedisce di vivere è la morte. E questa non è un’opinione.

sabato 16 dicembre 2023

Il "capo"

 

Un po’ di nostalgia, innanzitutto in replica a chi non ne prova alcuna: i ricordi di un incontro con un personaggio assai singolare. I miei ricordi sono davvero in bianco e nero, non è solo un modo di dire. Di nebbia e di freddo. Quella nebbia che oggi non c’è più, neanche quella, e quel freddo umido che faceva tutt’uno delle dita dei piedi con le scarpe.

Quasi quarant’anni dopo, casualmente, su un Frecciarossa da Firenze destinazione Venezia. Un quasi ottantenne al quale chiedere notizie del suo stato di salute. Stava leggendo il manifesto, sul quale pubblicava saltuariamente. Disse di ricordarsi, ma forse era solo cortesia. Un talento tenace, generoso e a volte stiloso. Era entusiasta della velocità e puntualità del treno. Chi l’avrebbe mai detto. La sua voce malinconica, aneddoti leggeri. Sorrise per tutto il viaggio.

La critica delle Brigate Rosse fu netta e inesorabile: «La ricerca di un nuovo soggetto rivoluzionario da contrapporre ad una categoria di classe operaia che va in crisi, appare allora per quello che essa è realmente: il frutto letterario snobistico dei pruriti rivoluzionari della piccola borghesia travolta dalla crisi capitalistica ed in via di proletarizzazione ...» .

In sostanza, si rimproverava alle tesi dei soggettivisti, diverse nella forma, di apparire unificate da un medesimo contenuto: quello di negare non soltanto la scientificità della categoria marxiana di lavoro produttivo, ma soprattutto la centralità operaia, il ruolo egemone e dirigente che gli operai svolgono all’interno del proletariato metropolitano.

E dire che lui passò per essere il capo delle B.R.. Era proprio un mondo in bianco e nero.