domenica 4 dicembre 2022

Io non posso più


Nel mio post del primo dicembre dicevo che è diffuso un equivoco di fondo sulla Costituzione più bella del mondo, tanto più alla luce della metamorfosi sociale e politica alla quale stiamo assistendo. A me pare che Giorgio Agamben, pur partendo da  presupposti teorici e valutativi diversi dai miei, confermi.

Non ci sono Pietri Calamandrei che tengano: il compromesso raggiunto tra stalinisti e nenniani da una parte, democristiani e liberali dall’altra, fu una svendita al ribasso, pur considerando le circostanze storiche in cui ciò avveniva (e comunque prima dell’aprile 1948). Ai primi, alla sinistra, andarono le belle e generiche parole di principio; la borghesia invece portò all’incasso la “roba”, con qualche concessione per ciò che non si poteva più rifiutare in pieno Novecento. Basti pensare all’articolo 7, o all’articolo 35 (La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni). Il lavoro, per giunta in tutte le sue forme? Non si erano forse lette e ponderate le critiche marxiane (le glosse al Programma di Ghota) a simili generici concetti?

Oppure, per citare il comma seguente: “Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero”. Certo, la tutela che si traduceva nel mandare schiavi italiani a morire nelle miniere del Belgio, mentre rimaneva in vigore nel territorio nazionale la legge “contro l’urbanesimo” del 6 luglio 1939, n. 1092, almeno fino al 1961, quando un avvocato di Bitonto sollevò la questione davanti al pretore, non già in difesa dei lavoratori, ma del padrone che aveva assunto dei “migranti” (bianchi, italiani, cristiani) contravvenendo alla legge del 1931.

Dai, si poteva fare meglio anche nei frangenti del 1947, invece di legiferare amnistie per i fascisti.

Riporto alcuni stralci dell’articolo di Agamben:

«Io non posso più, di fronte a un giurista o a chiunque denunci il modo in cui il diritto e la costituzione sono stati manipolati e traditi, non revocare innanzitutto in questione il diritto e la costituzione. È forse necessario, per non parlare del presente, che ricordi qui che né Mussolini né Hitler ebbero bisogno di mettere in questione le costituzioni vigenti in Italia e in Germania, ma trovarono anzi in esse i dispositivi di cui avevano bisogno per istaurare i loro regimi? È possibile, cioè, che il gesto di chi cerchi oggi di fondare sulla costituzione e sui diritti la sua battaglia sia già sconfitto in partenza.

Se ho evocato questa mia [...] impossibilità, non è infatti in nome di vaghi principi metastorici, ma, al contrario, come conseguenza inaggirabile di una precisa analisi della situazione storica in cui ci troviamo. È come se certe procedure o certi principi in cui si credeva o, piuttosto, si fingeva di credere avessero ora mostrato il loro vero volto, che non possiamo omettere di guardare».

5 commenti:

  1. Tutto giusto, in particolare la citazione di Agamben. Qualche dubbio sull'ipercitato art.7. Tutti lo portano a esempio di inciucio sulla pelle dei liberi pensatori. Ma siamo sicuri che i liberi pensatori esistano? E, soprattutto, che i non-liberi pensatori coincidano con la Borghesia, ovvero che la Borghesia abbia un particolare interesse a ostacolare il libero pensiero? Qualche dubbio permane, specie se guardiamo alla revisione del Concordato avvenuta 40 anni dopo, ratificata anche da quelli che nell'Assemblea Costituente avevano votato contro (o si erano astenuti, per la precisione).
    Non c'è dubbio che la DC tenesse in modo particolare all'Art.7, e che gli stalinisti (li chiamerò anch'io così, perché no?) l'abbiano usato come moneta di scambio. Ma perché potevano usarlo in tal modo? Perché in fondo non gliene importava niente. Ma anche per la DC non era tanto il contenuto a importare, quanto il back-up che si proponeva di ricevere dal Vaticano nelle elezioni del 1948. Quindi, errore tattico del PCI, ma nessuna inerenza reale con gli interessi della Borghesia, salvo, naturalmente, l'ovvo interesse a veder perdere i socialcomunisti alle elezioni.

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  2. «Non possiamo omettere di guardare», già. E ciò che vediamo fa più schifo e paura della Gorgone. «Gira la cote, gira!»

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  3. La riflessione filosofica di Agamben sulla categoria di "complicità" integra opportunamente l'approccio storico-politico alla questione cruciale che si può riassumere nella seguente domanda: che rapporto intercede tra la “svolta di Salerno” e il revisionismo togliattiano? In altri termini, quando cominciò a manifestarsi apertamente il revisionismo di Togliatti? Nella ricerca della risposta corretta a questi interrogativi occorre, in primo luogo, sgombrare il campo da un falso problema e riconoscere che la scelta di formare un governo di unità nazionale per la lotta contro il nazifascismo era del tutto giusta e non sbarrava affatto la prospettiva della rivoluzione. In secondo luogo, poiché non esiste alcun documento dell’epoca (e nemmeno posteriore a quell’epoca) in cui sia dato trovare una concreta analisi del PCI riguardo al rapporto di forze tra borghesia e proletariato nella congiuntura storica 1944-1947, il presupposto secondo cui tale rapporto non permetteva una soluzione socialista della crisi del capitalismo italiano (o conduceva inevitabilmente ad un esito di tipo greco) veniva affermato dalla direzione del PCI (ma analogo ragionamento valeva anche per il PCF) come una sorta di principio metafisico o di assioma matematico, partendo dal quale tutta la politica successiva del partito era giustificata. In realtà, non fu la “svolta” in quanto tale, e tanto meno l’URSS, ad impedire uno sbocco rivoluzionario della crisi del capitalismo italiano; fu invece Togliatti a escluderlo in modo aprioristico usando la vaga formula della “democrazia progressiva” la quale, secondo la sua interpretazione, indicava un regime che, pur restando nell’àmbito della società borghese, si sarebbe trasformato gradualmente in un regime socialista grazie al progressivo estendersi dell’egemonia politico-culturale della classe operaia e dei suoi alleati, laddove tale egemonia era vista non come una delle condizioni per la conquista del potere ma come la via stessa per giungervi.

    Insomma, non fu Stalin a scambiare la tattica per la strategia rivoluzionaria né fu la “svolta di Salerno” ad aprire il corso opportunista e revisionista del PCI. Fu invece la concreta prassi politica seguita in quel periodo da Togliatti e dal gruppo dirigente del PCI, che in quella congiuntura trovarono l’occasione per imboccare una linea di destra, revisionista, di cui si erano peraltro manifestati alcuni sintomi nel periodo precedente e di cui il browderismo fu la manifestazione più clamorosa a livello internazionale.

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    1. c'era stata Jalta e Fulton, il Sud che votava quasi compatto per la monarchia, tuttavia, anche se quella costituzione si poteva scrivere diversamente, va tenuto conto del limite invalicabile di cui scrivevo il 1° dicembre.

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  4. Nessuno nega l'esistenza del limite invalicabile costituito dall'accumulazione capitalistica, ma il problema era per l'appunto quello di come infrangerlo. In realtà, mentre Stalin aveva disegnato una strategia geniale di utilizzazione delle contraddizioni fra i diversi capitalismi sia sul versante interno (approfondendo il conflitto tra la democrazia progressiva e lo Stato borghese) sia sul versante esterno (impedendo la saldatura tra paesi fascisti e paesi democratico-borghesi, che sarebbe stata esiziale per l’intero schieramento comunista internazionale), Togliatti ridusse quella strategia ad una politica di inserimento subalterno della classe operaia nelle strutture dello Stato borghese spacciandola, grazie anche all’uso del pensiero gramsciano in chiave revisionista, per una “trasformazione democratica e socialista” della società. Bisogna tenere presente, peraltro, che l’emergere delle tendenze revisioniste in quegli anni non fu un fenomeno soltanto italiano, ma internazionale, con precise radici di classe. Il browderismo era quindi il prodotto, in primo luogo, della formidabile pressione esercitata dall’imperialismo, in ispecie da quello statunitense, sulla classe operaia e sulle sue organizzazioni, e in secondo luogo dell’influenza delle concezioni borghesi e piccolo-borghesi nelle file dei partiti comunisti, concezioni non combattute e fatte passare da dirigenti che non avevano assimilato il marxismo-leninismo. In questo quadro spicca la debolezza ideologica e politica dei capi del PCI, le deviazioni dei quali sono note: basti ricordare la lunga storia di dissidi con il Komintern, culminata nello scioglimento del Comitato Centrale nel 1938. Ma vi è di più: nel 1947, quando si riunì in Polonia il Cominform, venne avanzata da Andrej Zdanov, a nome del PCUS, e dai dirigenti di altri partiti comunisti ed operai una dura critica al PCI. L’accusa non fu quella di aver compiuto la “svolta di Salerno”; fu invece il cretinismo parlamentare, il legalitarismo, lo sviluppo pacifico verso il socialismo, la subalternità del PCI nei confronti dell’ingerenza statunitense, l’essersi fatti estromettere dal governo (non di esservi entrati!), la mancanza di un piano offensivo, l’alleanza con la DC.

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