domenica 6 febbraio 2022

Il Pianeta delle Tasse (e degli Evasori)

 

Fin da quando Eva e Adamo furono sfrattati dall’Eden, vale a dire nel periodo di passaggio dallo scimpanzé al telelavoro, dell’utilizzo del fuoco a quello dello smartphone, il problema centrale di ogni entità statale è stato quello dell’esazione delle imposte. La cosa non è sfuggita all’attenzione degli etologi che comparano la nostra indisciplina fiscale alla resistenza opposta dai cani a cedere l’osso di plastica ai propri padroni.

Ciò mi richiama alla mente l’ultimo dei film ispirati al Pianeta delle scimmie, laddove Cesare, il capo degli scimpanzé ribelli, si alza in piedi e sussurra all’orecchio del suo amico umano: “Cesare è no-tax”. Roba da far venire la pelle d’oca. A chi di noi non sarebbe piaciuto parlare con Cesare? Gli scimpanzé sono nostri contemporanei e non nostri “antenati”.

Immaginiamo che l’imposta sul reddito delle persone fisiche, invece di essere trattenuta mensilmente alla fonte, da stipendi e pensioni, i soggetti interessati dovessero versarla di propria sponte una volta l’anno direttamente all’erario con un F24: molti dovrebbero versare alcune migliaia di euro, altri un po’ di più, altri bonobo molto di più.

C’è da dubitare sull’adesione volontaria e massiccia all’imposta. Anzi, dopo poco tempo sarebbero innumerevoli i provvedimenti di pignoramento emessi contro gli inadempienti totali e parziali (per scelta, per necessità), milioni i contenziosi tributari, probabilmente non rari i tumulti di piazza, con vetri rotti e schizzi di sangue.

A quel punto giungerebbe l’appello delle pubbliche autorità al senso del dovere e di civica solidarietà di specie, né si farebbe attendere il dibattito politico-mediatico, con la Gruber e i suoi ospiti a scatenare il panico sostenendo che l’evasione fiscale favorisce il diffondersi di malattie infettive.

Non c’è da dubitare, dato il frangente storico, che all’uopo sarebbe introdotto un tracciamento fiscale immunitario; ma anche no, perché si fa prima e meglio tassando alla fonte, come già avviene. E però fino a epoche che a noi paiono remote, ma che non lo sono troppo, l’esazione dell’imposta alla fonte sui redditi non era possibile.

Se in passato le imposte indirette sul sale e il macinato, vale a dire le tasse sulla fame, erano tra le più tristi e odiate, l’imposta sulle persone fisiche, il testatico, provocava controversie e difficoltà di riscossione non lievi, petizioni inoltrate degli amministratori locali al potere centrale al fine di concedere deroghe ed esenzioni, al fine di evitare tumulti gravi e gravissimi nelle campagne, repressi ovviamente nel sangue.

Prendo ad esempio la storia della tassa personale vigente in Veneto. Accanto a essa, e prima ancora, sussisteva un’altra imposta diretta, ancor più vistosa, detta “prediale”, della quale qui non mi occupo se non per dire che si trattava di una tassa che colpiva i proprietari di beni fondiari, una specie di IMU la cui composizione era molto varia e complicata (nulla di nuovo sotto il sole) (*).

Invece la tassa personale colpiva esclusivamente i contadini, giustificata con la ridottissima incidenza dei dazi nella campagne, nel senso che il modesto volume degli scambi e la quasi assoluta impossibilità di controllarli in modo efficace, avevano limitato i proventi che dai dazi traeva l’erario.

Accadeva che le imposte indirette, quelle sui consumi, erano circoscritte ai centri urbani, ai cosiddetti borghi murati, in tal modo ne sarebbe conseguito un affrancamento tributario quasi totale della popolazione agricola. Non si sarebbero potute realizzare le architetture che noi ora ammiriamo, realizzare opere pubbliche, armare le flotte e gli eserciti, mantenere una pletora di burocrati, se non tassando i contadini e più in generale i redditi dell’agricoltura (**).

Sin dal 1755 era stata istituita nella Lombardia austriaca la tassa personale che colpiva tutti gli uomini validi dai 14 ai 60 anni residenti in campagna. Durante il regime napoleonico essa fu estesa anche al Veneto, dapprima con la Repubblica italiana (1802) e poi nel Regno d’Italia (1805).

In epoca napoleonica, lo spirito della legislazione sembrava chiaro: i dazi al consumo, che certamente colpivano di più i ceti popolari determinando il rincaro dei generi di prima necessità, poiché surrogavano l’imposta personale delle campagne, non potevo essere aggravati oltre una certa misura. Ma era questa misura che attendeva di essere fissata per legge, e d’altra parte la tendenza degli amministratori locali, espressione in prevalenza del ceto possidente, era proprio quella di sgravare l’imposta fondiaria, premendo invece il pedale sulle imposte indirette, vale a dire sui consumi. Un po’ quello che succede anche oggi.

Anche prima, però, la tassa personale, un testatico moderato, vigeva nei territori della Dominante, graduata secondo la capacità contributiva dei soggetti. Inutile dire che si trattava viepiù di un’imposta avversata, tanto che si poteva lamentare una vasta evasione.

Con la Restaurazione, con il ritorno degli austriaci (***), dei quali alcuni oggi rimpiangono l’efficiente amministrazione, le difficoltà di riscossione della tassa personale e il malcontento dei contadini, avevano indotto la corte di Vienna a studiare l’abolizione dell’odiato balzello. Che dovesse essere soppresso era cosa pacifica, tuttavia restava da stabilire in che modo potesse essere colmato il vuoto che la sua scomparsa avrebbe aperto nelle casse dell’erario e nei bilanci dei comuni.

Si era suggerita una sovrimposta prediale (****), cosa che avrebbe scatenato i proprietari fondiari, e dunque si propose che la cosa migliore fosse “eine kleine Steur auf den Wein hereinzubringen”, ossia una tassa sulle “ombre”: un affronto specie per i virtuosi del “gomito alto”. Allora si pensò a un dazio sulla carne o sul bestiame, specie in Friuli, fino ad arrivare a delle vere proprie situazioni comiche, come quella capitata il 30 marzo 1818 a San Bellino (Ro), che qui non starò a raccontare per brevità.

I funzionari dell’amministrazione finanziaria, sospesero l’applicazione di un dispaccio imperiale del 5 agosto 1817 che stabiliva la soppressione del balzello ma demandava alle autorità locali di trovare il modo di sostituire il gettito con un altro tipo di tassazione. Eh, gran lavoro quello delle corti. Era necessario, sostenevano i funzionari locali, chiarire agli occhi del sovrano come la tassa personale rispondesse a un criterio di giustizia distributiva, mentre ogni nuova imposta da introdurre al suo posto minacciava di sconvolgere dalle fondamenta il difficile equilibrio finanziario dello Stato.

Si deve tener conto che numero le famiglie rurali contavano almeno 4 o 5 “collettabili”, ovvero uomini soggetti alla tassa personale, di modo che i bilanci domestici dei contadini, ben poco avvezzi al contatto col denaro, si vedevano addossare un’imposta che poteva raggiungere e anche superare la somma dovuta per un’abitazione media globale. Questo per dare una dimensione del balzello. Versare una simile somma nelle mani degli esattori appariva un insopportabile aggravio.

Come ciò non bastasse, se i soggetti, ossia i contadini tenuti al pagamento della tassa personale, non vi provvedevano, era previsto che a sostituirli, nella maggioranza dei casi, fossero i proprietari dei fondi lavorati dai contadini e degli alloggi loro affittati. Va chiarito che il proprietario appartenente alla nobiltà, o affittava i fondi a un “fittanziere” o affidava i possedimenti ad agenti di campagna (fattori) alle proprie dipendenze.

Si arrivò al paradosso che alcuni proprietari o fittanzieri facevano levare i coppi dai tetti delle case affittate ai contadini per venderli prima che le case stesse fossero sottoposte a pignoramento a causa del mancato pagamento della tassa personale da parte dei contadini stessi. Altri proprietari, sempre temendo di dover soccombere al pagamento del testatico in causa della coobbligazione sussidiaria, tenevo chiuso le case e non le affittavano ai contadini.

(*) Nell’unica complessiva rilevazione censuaria compiuta dal governo veneto, nel 1740, si evince che oltre la metà della terra era in mano ai nobili (50,87%), l’8,88 era detenuto da enti ecclesiastici, il 4,56 da enti civili, mentre il residuo 35,69% spetta ai privati non nobili. I nobili e gli ecclesiastici non si erano però attribuita solo la maggior parte della terra, ma anche la migliore, poiché la percentuale delle loro proprietà decresceva via via che dalla pianura si saliva verso la collina e la montagna (Daniele Beltrami, Forze di lavoro e proprietà fondiaria nelle campagne venete dei secoli XVII e XVIII, Istituto per la collaborazione culturale, Venezia-Roma 1961, pp. 218-223).

L’entità dei possedimenti delle aristocrazie terriere venete era la base stessa sulla quale esse potevano fondare il loro status sociale, la loro ricchezza economica e il loro potere politico. La concentrazione della terra in poche mani non aveva tuttavia favorito la diffusione di grandi aziende agrarie. Nel 1740, l’87% delle terre della nobiltà veneziana nel padovano era dato in affitto, il 90,5% nel trevisano e l’84% nel Polesine di Rovigo. Nondimeno la nobiltà aveva altre opportunità per salvaguardare il patrimonio, che era sì basato sui possessi fondiari, ma che aveva spesso negli investimenti finanziari e nelle attività commerciali legate all’approvvigionamento di derrate alimentari per le grandi città alcuni dei suoi punti di maggior profitto.

Pertanto il patriziato e la nobiltà veneta era ancora in grado di manovrare un notevolissimo potenziale economico. Avevano proprietà e denari, cercarono di farli rendere con oculati prestiti e operazioni finanziarie, avevano diritti feudali, decime e

livelli, esenzioni fiscali e tributi estremamente ridotti, non ultimo, vivevano sul lavoro di milioni di contadini.

(**) «Chi non sa [...] esistere in Venezia una classe numerosissima di cittadini, che viveva o de’ piccoli impieghi che loro conferiva l’Aristocrazia di Venezia, o del lusso questa città. L’Aristocrazia non esiste, il lusso è declinato. Molte famiglie corrono il pericolo di morire d’inedia e di stento almeno fino ha che un nuovo ordine di cose apra nuove fonti di sussistenza, o dia loro novelle abitudini. Egli è vero che i tedeschi non si sono gran fatto presi briga di quest’emergenza, ma il Governo dell’augusto nostro sovrano [Napoleone] sarà egli simile a quello de’ duri teutoni?» (dagli atti del Consiglio legislativo, cit. in: Emanuele Pagano, Enti locali e Stato in Italia sotto Napoleone, Carocci 2007, p. 39).

Vero che i casati patrizi si stavano estinguendo, tuttavia l’entità dei possedimenti fondiari appartenenti alla nobiltà (patriziato e nobiltà non sono la stessa cosa) durante la dominazione francese, segnatamente alla data del 1811, in quello che era stato il Dogado, assommava ancora a 90.000 (novantamila) ettari.

(***) Il trattato di Parigi, del 30 maggio 1814, aveva assicurato all’Austria le terre italiane della Lombardia e del Veneto; con l’Atto costitutivo del 7 aprile 1815, si formava il Regno Lombardo-Veneto. Per agevolare l’amministrazione, il regno fu diviso in due territori governativi separati del fiume Mincio. Il territorio alla destra di detto fiume fu chiamato governo milanese, quello alla sinistra, governo Veneto; a quest’ultimo furono assegnate otto province: Venezia, Padova, Rovigo, Verona, Vicenza, Treviso, Belluno e Udine, ossia il Friuli.

(****) Le prime operazioni del nuovo catasto del Veneto, furono intraprese in qualche provincia nel 1805. Con decreto del 13 aprile 1807, vennero estese a tutto il territorio onde permettere la compilazione della mappa topografica di ogni comune. In tale mappa, ogni proprietà venne individuata e classificata in relazione alla sua estensione e qualità. Questo lavoro fu ultimato intorno al 1816; nel 1826 cominciò l’operazione della stima censuaria. A partire del 1828, si cominciò ad applicare la rispettiva qualità e classe ad ogni appezzamento di terreno che risultasse coltivato e contemporaneamente si provvede per ogni comune alla stima della rendita di una data misura di superficie relativamente a ciascuna qualità e classe di terreno. Nel 1838, s’iniziò il lavoro di rettifica che portò alla complicazione delle tariffe d’estimo definitive. Nel dicembre 1844, l’Imperiale Regia Giunta del censimento Lombardo-Veneto promulgava il regolamento per l’attuazione del nuovo censimento prediale nel Regno Lombardo-Veneto (vedi: Giorgio Scarpa, L’agricoltura del veneto nella prima metà del XIX secolo, ILTE, Torino 1963, pp. 6-8).


4 commenti:

  1. "Immaginiamo che l’imposta sul reddito delle persone fisiche, invece di essere trattenuta mensilmente alla fonte, da stipendi e pensioni, i soggetti interessati dovessero versarla di propria sponte una volta l’anno direttamente all’erario con un F24...C’è da dubitare sull’adesione volontaria e massiccia all’imposta".

    Una volta però ci credevi.

    "Ci vuole un'imposta volontaria: un'imposta volontaria in nome della nazione, con cui la nazione si distinguerà. Dai faccchini dei mercati fino alle classi più alte, chiunque...concorrerà alla salvezza dello Stato".

    Indovina chi l'ha scritto :)

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  2. Vabbe', è passato un po' di tempo.....
    Olympe de Gouges
    La musa barbara
    Scritti politici (1788-1793)
    Edizioni Medusa, 2009
    Pag. 19

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