lunedì 7 febbraio 2022

“A tavola per finta”

 

Mentre voi, ancora satolli di Sanremo, stavate pensando a come debba essere smantellato un ponte storico di Rotterdam in modo che lo yacht di Jeff Bezos possa attraversarlo, io mi prendevo cura di altro. Non di Marx e le cavolate sulla caduta del saggio del profitto, delle tragedie che stanno colpendo il nostro mondo, e stop anche a domande sul tipo: perché cresce il Pil e la felicità no? Anch’io voglio far parte della competizione sfrenata per il metaverso e quelle cose lì, dunque in questa puntata mi occupo di Renzo Arbore, un personaggio spumeggiante, ironico e simpatico a tutti.

Non che il mio parere conti più di quello di chiunque altro, ma trovo sia un personaggio poco autentico, un seduttore, un classico furbacchione, uno di quelli che ti danno buca a un appuntamento, oppure arrivando con mezz’ora di ritardo ti chiede: “È molto che aspetti?”. Può essere che conoscendolo di persona cambierei il mio giudizio, ma anche no.

Sia chiaro, di personaggi così ne trovi a tutte le latitudini, e anche di peggiori laddove non te lo aspetteresti. Arbore è un napoletano nato e pasciuto a Foggia. Come molti altri personaggi illustri che si sentono legatissimi a Napoli, ha scelto però di vivere lontano dalla realtà napoletana. Li capisco. Napoli è una città dalle molte suggestioni e bellezze, uno scrigno di tesori storico-artistici, per lo più misconosciuti, tuttavia neanche io vorrei abitare a Beirut. E non perché lo racconta Saviano.

Nella consueta rubrica domenicale del Sole 24 Ore, “A tavola con ...”, Paolo Bricco, un cesellatore di ritratti prestato al feuilleton economico, intervista il disc jockey e showman. Con la scusa fasulla del covid l’intervista non avviene a tavola, bensì al telefono. Così non c’è neanche bisogno della seccatura del green pass. Nondimeno ad Arbore è chiesto d’immaginare il posto dell’incontro conviviale e i piatti che avrebbe gradito.

Non sceglie un ristorante di Mergellina, vicino al mare, ma una trattoria di Trastevere, cioè una tra le locations (si dice così?) più ruffiane, apparentemente meno borghesi, e però anche tra le più luride e disastrate di una città dove i posti decenti per mangiare sono rari. Ad Arbore piace la cucina pugliese, napoletana, romana e anche marchigiana. Insomma, purché se magni. Avrebbe, nel caso concreto, preso una carbonara e coda alla vaccinara. Mi viene in mente la coda alla vaccinara servita a suo tempo a Curt Erich Suckert.

Niente vino, non lo apprezza, e poi lui – dice – faceva la pubblicità alla birra; niente dessert, perché il medico l’ha sconsigliato, ma gli piace la pastiera napoletana e il panettone milanese, per non far torto a nessuno. “Niente più whiskino, al massimo un amaro”. Forse Bricco doveva dirgli che il conto l’avrebbe pagato il giornale. Incertezze della sceneggiatura.

Il matematico Renato Caccioppoli rivendicava di essere nipote di Bakunin, Arbore invece sostiene che da parte materna ha qualche parentela con Carlo Cafiero, “il grande anarchico che aveva rotto con Karl Marx ed era diventato sodale con Bakunin”. Parlare di rottura in assenza di legame è alquanto esagerato (*), ma a noi italiani piace portare all’attenzione del mondo il nostro pedigree vantando di essere antichi almeno quanto gli etruschi e di aver dato del tu a Carlo Magno seduto dal barbiere.

Arbore, nell’intervista, ci regala un sunto del suo moralismo liberaleggiante, o del suo liberal- moralismo: «Sono contro le storture create dall’ossequio eccessivo al mercato. E lo dico da liberale». Non credo vi sia un solo capitalista che non sia d’accordo, un solo liberale che non sottoscriverebbe queste parole. Sono tutti egualmente desiderosi di avere un mercato senza storture, cioè un capitalismo armonioso e pacifico, dove sia possibile lucrare onestamente sfruttando il lavoro di miliardi di persone.

Ricordando quand’era giovane, Arbore ci fa sapere che «Con le poche lire che avevo in tasca, ogni giorno compravo giornali e periodici: l’Unità, l’Avanti, Rinascita, Mondo Operaio, La discussione, la Voce repubblicana, il Popolo. Ho sempre avuto grande passione per la cultura politica. Non sono mai stato di sinistra». Su questo non c’erano dubbi, almeno da parte mia.

(*) Se vi capiterà di leggere il compendio cafierano de Il Capitale, un misto di piatta volgarizzazione e di moralismo a buon mercato, si comprenderà perché Marx, nel ringraziarlo per avergliene spedite due copie, così lo gratificava: “non si deve gravare eccessivamente la mente di coloro che si vorrebbero educare. Niente Le impedisce di tornare sulla faccenda a tempo debito e mettere maggiormente in rilievo la base materialistica del Capitale” (29 luglio 1879).

In una lettera a Engels del 4 dicembre 1882, Marx qualifica Cafiero e un’altra maschera italiana, tale Romeo Candelari, con disprezzo a riguardo di ciò che avevano capito e divulgato della sua teoria del valore. Per schernirlo lo definisce “Illustre”, in italiano. Altri rapporti tra i due non si rilevano, salvo una citazione in un’altra lettera, quando Marx incidentalmente e ironicamente comunica a Engels che Cafiero ha acquistato per Bakunin una casa a Lugano. Valga comunque per certi personaggi della ribalta politica e intellettuale italiana di allora (e di oggi?) il giudizio che Engels espresse a proposito di Achille Loria:

«L’Italia è la terra della classicità. Dalla grande epoca in cui spuntò sul suo orizzonte l’alba della civiltà moderna, essa ha prodotto grandi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi. Ma anche l’età della decadenza e della dominazione straniera le ha lasciato maschere classiche di caratteri, fra cui due tipi particolarmente elaborati: Sganarello e Dulcamara. La loro classica unità noi la vediamo impersonata nel nostro illustre Loria».

Questo giudizio sarcastico è nella prefazione di Engels al III Libro di Marx. La prima traduzione italiana avvenne a cura di Pasquale Martignetti, ma fu respinta da Turati, che non intendeva alienarsi Loria. La prefazione di Engels, il cui testo fu in parte corretto da Labriola (ne scrisse a Engels, il 4 gennaio 1895), apparve in una rivista napoletana non socialista e di scarsa diffusione. Questo dà l’idea del provincialismo e dell’inveterata consuetudine al maneggio e al compromesso presente nell’opaco mondo intellettuale italiano di ogni epoca. Puah.

Pasquale Martignetti (1844-1920), beneventano, di umili origini, figura eroica del primo socialismo italiano, fu uno dei pochi socialisti nostrani stimati da Engels, e da lui anche benvoluto e aiutato in molti modi. Il nome dell’italiano, in corrispondenza con Engels, mi era noto come mediocre traduttore di alcuni capitoli dell’Antidühring, però colpevolmente (e ne faccio ammenda) non avevo mai prestato giusta attenzione alla sua biografia e alla corrispondenza con Engels. Sennonché ho scovato una cosa curiosa, qualcosa che ha a che fare con il delitto d’onore. Forse racconterò in un prossimo post, vedremo.


7 commenti:

  1. Perchè forse?
    Non si faccia pregare, signora!

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  2. Dov'è la "scientificità" in questo rigurgito di pregiudizi?
    (Peppe)

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  3. Dal canto mio La pregherei, invece, di chiarire meglio la storia della coda alla vaccinara servita a Malaparte. Non me ne voglia, mi ha incuriosito. Saluti

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    1. durante la guerra gli furono serviti pezzetti di coda che in realtà erano pezzi di mano umana

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  4. "Napoli è una città dalle molte suggestioni e bellezze, uno scrigno di tesori storico-artistici, per lo più misconosciuti, tuttavia neanche io vorrei abitare a Beirut."

    Attenta Olympe, se no tiro fuori Régis Debray.

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