giovedì 27 gennaio 2022

La funzione dei critici laterali del capitalismo






Li ho ascoltati tutti i 138 minuti e 23 secondi dell’intervento del prof. Carlo Galli, con il più vivo interesse, come si suole dire. Che il capitalismo si sia impadronito del mondo per avidità, che viva solo per accumulare nelle tasche di pochi, è ovvio e tutto sommato banale ricordarlo dall’alto di una cattedra. Porre enfasi su questi fenomeni del capitalismo è tipico di un certo approccio al tema da parte dei critici laterali del sistema.

Se durante il periodo del boom economico e del welfare, i gloriosi trent’anni (1945-1975), il capitalismo ha mostrato il suo volto “buono” (mica gratis), ciò è avvenuto perché la situazione oggettiva (lo slancio della ricostruzione bellica, dei nuovi modelli di consumo e il confronto tra i blocchi) lo imponeva. Così come già prima il New Deal anticipò la formulazione teorica del Keynes. Dal canto suo, Hjalmar Horace Schacht non ebbe bisogno di leggere gli scritti del lord inglese per mettere in opera i suoi Mefo-Wechsel.

La ristrutturazione capitalistica che prese avvio alla fine degli anni Settanta, poi il passaggio al dominio reale del capitalismo pienamente sviluppato, laddove le forze produttive sono state poste sotto il dominio pieno della legge del valore (Galli impiega il concetto valore-lavoro, che Marx non ha mai usato, inventato invece da Böhm-Bawerk, suo oppositore [*]), trovano le loro ragioni d’essere molto più nei fatti oggettivi e immanenti del capitalismo piuttosto che nelle teorie neoliberiste, marginaliste e neomonetariste.

Insomma, la funzione di questo tipo d’intellettuali, critici laterali del capitalismo, è quella di indottrinare le giovani generazioni nella speranza e fiducia che questo sistema possa essere suscettibile di cambiamenti in senso positivo, per esempio tornando a far funzionare l’ascensore sociale di cui parla Galli stesso, per poter così ritrovare, nella scala gerarchica di direzione e comando (poiché di questo si tratta), una collocazione appropriata alle proprie aspirazioni e meriti. Tutto ciò, auspica Galli, si ottiene agendo con le “armi della critica”.

L’avesse saputo Marx non avrebbe sprecato una carriera e una vita.

Penso di essere una persona che non sottovaluta il ruolo delle “armi della critica”, se però è condotta come lotta ideologica (i padroni di tutte le cose finite e infinite sono maestri in questo), quindi di una critica emancipata dal criticismo borghese, che ha riguardo delle contraddizioni nel loro fulcro essenziale, senza girarci intorno e senza illudere sulle possibilità reali di poter cambiare il sistema con riforme peraltro sempre parziali e revocabili.

Insomma, va bene procedere con le “armi della critica”, purché essa sia puntata dritta al bersaglio grosso. Poi sarà necessario passare alla “critica dalle armi”, ossia dalla teoria ai fatti concreti. Quando e come? Quando un certo numero di persone giudicheranno di averne davvero abbastanza di come vanno le cose in questo mondo. Sul come, spetterà a loro decidere quali misure saranno da prendere hic et nunc.

*

La maggior parte, per non dire la totalità degli economisti, politologi, sociologi, filosofi, affabulatori vari, sembrano ignorare la natura reale capitalismo. Essi credono che sia qualche cosa di plasmabile secondo diverse politiche economiche. In realtà ciò che cambia non è il capitalismo, il quale segue imperturbabile le sue leggi, ma in parte solo la destinazione del plusvalore e i modi legali della sua estrazione (connessi anch’essi alle necessità dell’accumulazione in una data situazione).

Tutto ciò va sotto la voce: rapporti di produzione capitalistici. Per rapporti di produzione, si deve intendere innanzitutto i rapporti di proprietà dei mezzi di produzione, che sono quelli essenziali poiché da essi dipende la forma di tutti gli altri rapporti.

Per esempio è comune la falsa convinzione che riguarda lo sviluppo delle forze produttive capitalistiche. Ritiene che tale sviluppo sia la misura del progresso sociale. Tuttavia progresso tecnico e progresso sociale non sono equivalenti, come si vorrebbe far credere.

Dal momento che il cosiddetto progresso tecnico è semplicemente progresso delle tecniche capitalistiche, ogni feticizzazione della tecnica è fuori luogo. Mentre vi gingillate per esempio col vostro smartphone, col quale siete controllabili e rintracciabili in ogni momento, considerate che dal lato del lavoro salariato, il progresso tecnico si manifesta come accrescimento del tempo di lavoro, ossia di tempo che il capitale si appropria gratuitamente. Significa anche dismissione della forza-lavoro eccedente, precarizzazione e tutte le altre belle cose che conosciamo.

Il progresso delle tecniche capitalistiche di produzione non ha, dunque, lo stesso significato per i salariati e per i loro sfruttatori, così come per entrambi diverge il significato di progresso sociale. Le classi lavoratrici possono assumere il punto di vista borghese solo a condizione di negarsi in quanto negazione vivente del capitale, assolutizzando la loro funzione di forza produttiva capitalistica.

Vedo di fare come san Francesco che parla agli uccellini: se rapportiamo questi concetti ai rapporti sociali e alla condizione della schiavitù antica, essi appariranno subito più chiari ed evidenti. Allo schiavo cui erano concessi maggiori diritti e migliori condizioni di vita, per esempio passando da forza-motrice della macina a semplice sorvegliante di essa, non per questo mutava la sua condizione di schiavo.

[*] Succede quando si legge Marx attraverso i marginalisti, tipo appunto Bohm-Bawerk, Walras, Pareto, ecc.. Bohm-Bawerk a suo tempo attaccò la teoria della trasformazione dei valori in prezzi di Marx, sostenendo che il III libro del Capitale si riduce a un tentativo di autodifesa, una volta che Marx stesso si rese conto dell’incapacità della legge del valore, esposta nel I libro, di spiegare i prezzi (La conclusione del sistema marxiano, in Economia borghese e economia marxista, La Nuova Italia 1971, pag.28).

Quest’asino, al pari di molti altri, oltre a non capire cosa effettivamente Marx avesse scritto ne Il Capitale, non sapeva che l’Autore aveva pubblicato il primo libro dell’opera, in cui illustra la legge del valore, solo dopo aver sviluppato nei manoscritti del III libro la trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Bestie anche quelli che successivamente hanno affermato che è vero che Marx prima di sviluppare ne Il Capitale la legge del valore aveva già affrontato il “problema” della trasformazione, ma lo fece in maniera superficiale, senza cercare di risolverlo!

Il solito Diego Fusaro, in Bentornato Marx, nella nota 606 (pp. 257-58), tascabili Bompiani 2010, illustra con dovizia la critica di Bohm-Bawerk a Marx, senza peraltro rendere conto di tale “dettaglio”! 

7 commenti:

  1. Ognuno ha i suoi limiti. Io posso leggere, anche in modo efficiente, testi di qualunque lunghezza. Ma un video di oltre un'ora di uno che parla ex cathedra non lo posso reggere. Perciò mi fido del tuo giudizio su quello che dice Galli.
    Al contrario, rilevo che la tua analisi degli sviluppi (o, sostanzialmente, dei non-sviluppi) del capitalismo continua a sottovalutare il progresso tecnologico. Sotto un profilo squisitamente aritmetico, è chiaro che la tecnologia non va a inficiare la formula Pv = L-V. Però mi domando se la progressiva (e, in prospettiva, drammatica) riduzione dei valori assoluti associati a questa formula, se comparati con la parallela crescita del capitale costante, non porti alla irrilevanza di fatto del capitale variabile. In qualunque altro fatto della vita, specie se economicamente misurabile, la risposta che mi do è: la variabile largamente minoritaria è insignificante. Se applico il concetto ai rapporti cosiddetti di produzione, ne derivo che il plusvalore diventa insignificante come fenomeno sociale, venendo sovrastato da faccende non banali come la disoccupazione di massa. Al contempo, l'unica cosa che diventa di interesse per la misurazione del profitto è la produttività del capitale costante, specie se associato a quote sempre crescenti di intelligenza artificiale.

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    1. È di lunga evidenza che il capitale variabile diventa sempre più minoritario in rapporto al capitale costante, e tuttavia quest'ultimo riproduce pro quota solo se stesso. Perciò il saggio del profitto tende a decrescere. Basta dare un'occhiata alla terza sezione del terzo libro.

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    2. Dispiace per quel poveraccio di Elon Musk. Si mette in tasca qualche decina di miliardi in più, ma, avendo licenziato metà degli operai, gli tocca subire una decrescita del saggio di profitto.

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    3. http://diciottobrumaio.blogspot.com/2015/04/perche-cala-il-prezzo-delle-uova.html

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    4. Con grande pazienza tu continui a ripropormi questo post delle uova di Pasqua. Ma io ormai non ne ho più bisogno. Lo so che sia tu che l'uomo con la barba avete stabilito che il rapporto fra plusvalore e capitale totale si chiama saggio di profitto. E perché dovrei lessicalmente oppormi? Lo si chiami così. Il mio punto è un altro: che al capitalista non gliene frega niente del declino tendenziale di questo rapporto, visto che i soldi li fa indipendentemente da tale declino.
      Te lo dimostro: portiamo le tendenze all'estremo, mettendo zero al numeratore: ossia, azienda totalmente automatizzata. Tasso di profitto, ovviamente, talmente declinato da essere arrivato a zero, dopo il licenziamento dell'ultimo dipendente, sostituito da un pezzo di capitale costante. L'azienda guadagna come una bestia. Secondo te, il capitalista si preoccupa del tasso di profitto decresciuto? Secondo me, chi si preoccupa è l'ultimo dipendente licenziato.

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    5. Non è solo un fatto lessicale. Non guardare solo al dito, al fatto che Musk contina a guadagnare fantamiliardi, guarda invece al fatto che la riduzione del capitale variabile in rapporto a quello costante va incontro a un limite tecnico. Tu sei ancora convinto che il capitale costante produca plusvalore, alias profitto. Mi arrendo.

      http://diciottobrumaio.blogspot.com/2013/03/la-legge-piu-importante.html

      http://diciottobrumaio.blogspot.com/2019/04/vafamocc.html

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    6. L'errore è l'identificazione di plusvalore e profitto. Dopo un secolo e mezzo, anche Marx se ne sarebbe accorto.

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